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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di Antonello Lotti

 

Concetti fondamentali relativi alla mistica

 

Icona della Risurrezione

Icona della Risurrezione

 

 

«Io lodo il distacco ancor più di ogni misericordia, giacché la misericordia in null'altro consiste se non nel fatto che l'uomo esce da se stesso per andare verso le miserie del prossimo, e così il cuore ne riceve turbamento. Sinché qualcosa è in grado di turbare l'uomo, egli non è tal quale dovrebbe essere.»
(Meister Eckhart, Del distacco)

 

 

Indice

 

 

Bibliografia

 

Opere di riferimento generale:

  • Luigi Borriello et al. (cur.), Dizionario di mistica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998

  • Stefano De Fiores, Tullo Goffi (cur.), Nuovo dizionario di spiritualità, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989

  • Michael Downey (ediz. italiana a cura di Luigi Borriello), Nuovo Dizionario di spiritualità, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003

  • Antonio Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1987

  • Charles André Bernard, Teologia Spirituale, Edizioni Paoline, Roma 1982

  • Federico Ruiz, Le vie dello spirito. Sintesi di teologia spirituale, EDB, Bologna 1999

  • C.Vladimir Truhlar, L'esperienza mistica - Saggio di teologia spirituale, Città Nuova Editrice, Roma 1984

  • Adolfo Tanquerey, Compendio di Teologia Ascetica e Mistica, Società di S. Giovanni Evangelista, Desclée e Ci, Roma-Tournai-Parigi 1928, opera introvabile, che può essere letto per intero, grazie alla preziosa opera di Martin Guy. Si può scaricare da qui zippato: Download [1,67 Mb], oppure in formato PDF a questo sito: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/tanquerey.pdf

  • Herbert Vorgrimler, Nuovo dizionario teologico, EDB, Bologna 2004

  • AA.VV., Dizionario teologico enciclopedico, Edizioni Piemme, Milano 2004

 

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ABBANDONO

Il termine abbandono può avere due significati con valenza sia attiva (l'anima che si abbandona a Dio) che passiva (l'anima abbandonata da Dio). Il termine prende il via dal verbo latino derelinquere da cui l'italiano derelizione, termine che designa l'anima in un grado già avanzato del suo cammino mistico di perfezione. In questo senso rappresenta l'abbandono da parte di Dio, almeno in apparenza, nel cammino spirituale che lascia nell'anima un senso di solitudine, aridità, desolazione. Si tratta in realtà di una prova che Dio permette all'anima al fine di una purificazione estrema. Dio resta silenzioso, non gratifica l'anima, anzi la conduce come in un deserto senza luce, senza consolazione alcuna. Si verifica quasi un'esperienza di morte cui il Padre consegna l'anima, ripetendo così quanto successo col suo Figlio. I vari mistici hanno descritto quest'esperienza di desolazione interiore: Teresa d'Avila parla della lotta ascetica propria di un cammino di perfezione che passa attraverso tappe e gradi di orazione. Giovanni della Croce insegna che un'anima che vuol giungere alla perfezione deve passare attraverso due forme principali di notti. Egli parla di notte perché è come se l'anima dovesse camminare nel buio assoluto. La notte oscura - egli afferma - è un influsso di Dio nell'anima, che la purifica nella sua imperfezione ed ignoranza abituale, natura e spirituale, dove Dio la istruisce in segreto nella perfezione dell'amore, senza che essa faccia nulla e comprenda cosa sia questa contemplazione (cfr. Notte oscura, II, 5,1). Altri autori spirituali, come Francesco di Sales, parlano di imitazione di Gesù Cristo come strada per la perfezione. Il massimo dell'amore consiste nel rimettersi interamente a lui, come il Cristo in croce fra le braccia del Padre, nel perfetto amore realizzato tramite l'esperienza della desolazione. Alla base c'è la fede nell'amorosa sapienza di Dio che dona infinitamente la vita alle sue creature. 

 

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ABITO

Termine aristotelico (éxis, in latino habitus) che indica la disposizione costante ad essere o ad agire in un certo modo. Differisce dall'abitudine (anche se spesso vengono assimilati) perché questa, fondandosi prevalentemente su una ripetizione meccanica, non esige una presa di posizione mentale o volontaristica. Tommaso d'Aquino la definisce come «una qualità, per se stessa stabile e difficile da rimuovere, che ha il fine di assistere l'operazione di una facoltà e facilitare tale operazione». La Scolastica distingue fra:

  • abiti naturali (acquisiti dalla persona e frutto della libertà): gli abiti naturali possono essere intellettuali, se facilitano allo spirito le operazioni concettuali essenziali , o morali, se sostengono i principi fondamentali del comportamento;

  • abiti soprannaturali o infusi provenienti dalla grazia divina, veri e stabili. 

 

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ADORAZIONE

L'adorazione è un atto esterno della virtù della religione con cui testimoniamo l'onore e la il rispetto che merita la divinità. Sebbene faccia astrazione dal corpo (in quanto anche gli angeli adorano), nell'uomo si manifesta con atti esterni del corpo. Questi implicano l'adorazione interna che è comunque quella principale. Il termine esprime rispetto, riconoscenza, sudditanza, venerazione, timore reverenziale verso una persona o una realtà considerata superiore. Solitamente comunque è un termine usato per designare l'atteggiamento fondamentale della creatura verso il suo Creatore e quindi è riservato ai rapporti dell'uomo con Dio. Etimologicamente, la parola deriva da un gesto concreto che ne dimostra il rapporto: ad os dei romani si riferiva al gesto di portare le dita alle labbra e poi mandare con le stesse dita un saluto o un bacio alla persona venerata. I gesti di adorazione sono molto diversificati nelle varie culture. Il gesto esterno pu essere l'inginocchiarsi, il prostrarsi, il chinare il capo, il baciare il suolo o anche compiere danze rituali o sacrifici propiziatori. L'adorazione dunque consiste nell'atto (interiore ma anche esteriore) in cui tutta la persona, corpo ed anima, riconosce la sua dipendenza totale da Dio. L'adorazione viene inclusa nella categoria di culto denominata latria, quel culto che spetta a Dio solo e a nessun altro. Questo viene distinto dalla dulia, che consiste in un atto di venerazione nei confronti dei santi. Una forma particolare di venerazione è quella dovuta alla Vergine Maria, che viene chiamata iperdulia

 

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APPETITO

È la tendenza di un ente verso qualcosa ad esso conveniente. Psicologicamente sta ad indicare la tendenza, l'inclinazione naturale a desiderare e cercare il proprio appagamento in un oggetto esterno, colto confusamente dalla coscienza come piacevole e rispondente ai bisogni vitali di cui il soggetto sperimenta la carenza. Può essere:

  • NATURALE: tendenza di qualsiasi cosa al suo fine (verso la propria completezza entitativa);

  • SENSITIVO: detto anche elicito, indica la potenza (v.) per la quale un soggetto tende verso un bene conosciuto attraverso i sensi;

  • RAZIONALE: potenza per la quale un soggetto razionale tende verso un bene conosciuto attraverso la ragione.

  • Giovanni della Croce distingue due specie di appetito: il primo, volontario, è connotato da una componente viziosa e sta ad indicare una tendenza o inclinazione disordinata dell'affettività, con la partecipazione della volontà. Consiste in ogni inclinazione naturale in quanto si oppone alla legge della ragione e della fede e in quanto resiste e si ribella alla vita spirituale. In questo senso forma una categoria morale negativa. Il secondo, che ha una connotazione morale positiva, indica soprattutto il desiderio.

     

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    ASCESI, ASCETICA

    Etimologicamente il termine ascesi significa esercizio, allenamento e si applica sia all'esercizio fisico sia alla riflessione filosofica. Ben presto, però, questa parola è venuta a significare gli sforzi mediante i quali si vuole riuscire a progredire nella vita morale e religiosa. Questi sforzi spesso, ma non necessariamente, sono metodici. Stando alla generalità dei casi, l'ascesi spirituale da un lato impone una disciplina corporale, dall'altro suppone degli esercizi di orazione mentale sottoposti a metodi più o meno stretti. Partendo dalla necessità, per l'uomo, di uno sforzo per conseguire la perfezione, tutte le spiritualità parlano di ascesi e di vita ascetica: ogni persona spirituale deve praticare «esercizi spirituali». Anche nella vita cristiana è necessario lo sforzo umano per cooperare alla grazia divina e disporsi a ricevere un incremento di vita spirituale; e poiché questo sforzo di purificazione e di cooperazione non è mai completo ed è quindi necessariamente permanente, alcuni autori includono sotto il nome di «ascetica» tutta la teologia spirituale.

     

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    CONTEMPLAZIONE

    Il termine "contemplare", cioè guardare a lungo con stupore e ammirazione, è composto di due parole cum e templum; cum = con indica simultaneità e contemporaneità, comunanza e unione; templum = spazio celeste, spazio circoscritto dal cielo abbracciato dallo sguardo, o tempio consacrato a una divinità. Insieme, le due parole assumono il significato di "abitare questo spazio celeste o tempio divino". Nella filosofia greca antica il termine è sinonimo di intuizione razionale. A partire da Plotino, questa attività risulta essere distinta dall'intuizione, attraverso cui si conosce l'oggetto. Successivamente, i Padri della chiesa presero a considera la contemplazione come riflessione dell'anima su se stessa e della sua graduale purificazione per accostarsi a Dio. Nel corso del tempo, si vanno delineando due correnti: l'intellettualismo, di derivazione tomista, che considera la contemplazione come un'azione dell'intelletto che genera l'amore; l'altra, detta volontarismo, rappresentato da Bonaventura e Duns Scoto che invece considera la contemplazione come amore e frutto di amore. In ultima analisi, la contemplazione viene ad indicare una forma superiore di conoscenza caratterizzata dalla semplicità dell'atto, di conseguenza essa si realizza in un atto di semplice intuizione della verità (simplex intuitus veritatis) o di riposo tranquillo sull'oggetto conosciuto: contuitus, fruitio, possessio veritatis. Di qui, l'insistenza nel recuperare, nella vita spirituale, quel gusto della contemplazione, quale stupore o meraviglia, altra denominazione della fede, dinanzi al Mistero trascendente di Dio. Allora la contemplazione è lo stupore che genera il silenzio quasi abbagliato che segue l'ascolto dell'ineffabile Dio. È il silenzio contemplativo, che non è assenza di parole o di suoni, ma pienezza della Parola e dell'armonia suprema (da M.Herraiz, voce "Contemplazione" in Dizionario di mistica, op.cit., p. 338-339).

    A.Tanquerey scrive che la contemplazione "non è che pensare a Dio in modo continuo e fissare così amorosamente lo sguardo su di lui". Egli distingue una contemplazione naturale da quella soprannaturale:

    1. Contemplazione naturale: contemplare in generale significa guardare un oggetto con ammirazione. C'è una contemplazione naturale, che può essere sensibile, immaginativa o intellettuale. 1) È sensibile, quando si guarda a lungo e con ammirazione un bello spettacolo, per esempio, l'immensità del mare o una maestosa catena di monti. 2) Si chiama immaginativa, quando uno colla fantasia si rappresenta a lungo, con ammirazione ed affetto, cosa o persona amata. 3) Si dice intellettuale o filosofica, quando si fissa la mente con ammirazione e con sguardo complessivo su qualche grande sintesi filosofica, per esempio, sull'Essere assolutamente semplice ed immutabile, principio e fine di tutti gli esseri.

    2. Contemplazione soprannaturale: della contemplazione soprannaturale bisogna esporre la nozione e le specie:

    A) Nozione. La parola contemplazione indica, in senso proprio, un atto di semplice vista intellettuale, astraendo dai vari elementi affettivi o immaginativi che l'accompagnano; ma, quando l'oggetto contemplato è bello ed amabile, l'atto si associa ad ammirazione e amore. Per estensione si chiama contemplazione un'orazione che ha per qualità speciale il predominio di questo semplice sguardo; onde non è necessario che questo atto duri tutto il tempo dell'orazione, basta che sia frequente e accompagnato da affetti. L'orazione contemplativa si distingue quindi dall'orazione discorsiva, perché esclude i lunghi ragionamenti; e dall'orazione affettiva, perché esclude la molteplicità degli atti che qualificano quest'ultima. Si può dunque definirla: una vista semplice e affettuosa di Dio o delle cose divine; e più brevemente simplex intuitus veritatis, come dice S. Tommaso.

    B) Specie. Si possono distinguere tre specie di contemplazione: la contemplazione acquisita, la contemplazione infusa e la contemplazione mista.

    a) La contemplazione acquisita non è in fondo che orazione affettiva semplificata e si può definire: una contemplazione in cui la semplificazione degli atti intellettuali ed affettivi è il frutto della nostra attività aiutata dalla grazia. Spesso anche i doni dello Spirito Santo vi intervengono in modo latente, massime quello della scienza, dell'intelletto e della sapienza, per aiutarci a fissare amorosamente lo sguardo su Dio.

    b) La contemplazione infusa o passiva è essenzialmente gratuita, e non possiamo procurarcela con i nostri sforzi, aiutati dalla grazia ordinaria. Onde si può definirla: una contemplazione in cui la semplificazione degli atti intellettuali ed affettivi risulta da una grazia speciale, grazia operante, che s'impossessa di noi e ci fa ricevere lumi ed affetti che Dio opera in noi col nostro consenso. È quindi detta infusa, non perché proceda dalle virtù infuse, procedendone anche la contemplazione acquisita, ma perché non è in nostro potere il produrre questi atti, data pure la grazia ordinaria; non è però Dio solo che opera in noi, perché lo fa col libero nostro consenso, in quanto che noi liberamente riceviamo ciò che egli ci dà. Se l'anima, sotto l'influsso di questa grazia operante, è detta passiva, gli è perché riceve doni divini, ma, ricevendoli, vi dà il suo consenso, come appresso spiegheremo. Da S. Teresa è chiamata soprannaturale, perché è tale per doppio ragione, primo per lo stesso titolo degli altri atti soprannaturali, e poi perché Dio opera in noi in modo specialissimo.

    c) Si distingue pure una contemplazione mista. Vedremo infatti appresso che la contemplazione infusa è talvolta brevissima; onde può accadere che, in una stessa orazione, gli atti dovuti all'attività nostra si alternino con gli atti prodotti sotto l'azione speciale della grazia operante; cosa che avviene specialmente a quelli che cominciano ad entrare nella contemplazione infusa. La contemplazione è allora mista, ossia alternativamente attiva e passiva; ma generalmente viene classificata nella contemplazione infusa, di cui è, a così dire, il primo grado. 

     

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    DONI DELLO SPIRITO SANTO

    Scrive A.Tanquerey che  lo Spirito Santo che abita nell'anima, vi produce, oltre alla grazia abituale, abiti soprannaturali che perfezionano le nostre facoltà e le rendono capaci di produrre atti soprannaturali sotto l'impulso della grazia attuale. Questi abiti sono le virtù e i doni: la differenza fondamentale non deriva dall'oggetto materiale o dal campo d'azione che è lo stesso, ma dal diverso modo di operare nell'anima. Dio può operare in noi in due modi: 

    a) adattandosi al modo umano di agire delle nostre facoltà; il che fa nelle virtù, aiutandoci a riflettere e a cercare i mezzi migliori per giungere allo scopo; a rendere soprannaturali queste operazioni ci dà le grazie attuali, ma lascia che incominciamo noi secondo le regole della prudenza o della ragione illuminata dalla fede; onde siamo noi che operiamo sotto l'impulso delle grazia; 

    b) ma, per mezzo dei doni, Dio opera pure in una maniera superiore al modo umano. Comincia lui per il primo: prima che abbiamo avuto il tempo di riflettere e di consultare le regole della prudenza, ci manda istinti divini, illustrazioni e ispirazioni, che operano in noi senza deliberazione da parte nostra, non però senza il nostro consenso. Tale grazia, che sollecita in modo soave e ottiene efficacemente il nostro consenso, può essere chiamata grazia operante; sotto di lei noi siamo più passivi che attivi e la nostra attività consiste soprattutto a consentire liberamente all'operazione di Dio, a lasciarci guidare dallo Spirito Santo, a seguirne prontamente e generosamente le ispirazioni. Si può concludere che i doni dello Spirito Santo sono abiti soprannaturali che danno alle facoltà tale docilità da obbedire prontamente alle ispirazioni della grazia. Ma questa docilità non è in principio che semplice ricettività, che ha bisogno di essere coltivata per giungere al pieno suo sviluppo.

    Se si studiano i doni, in corrispondenza alle virtù da essi perfezionate, si distinguono:

    1. il dono del consiglio perfeziona la virtù della prudenza, facendoci giudicare prontamente e sicuramente, per una specie di intuizione soprannaturale, ciò che conviene fare, specialmente nei casi difficili;

    2. il dono della pietà perfeziona la virtù della religione, che è annessa alla giustizia, producendo nel cuore un affetto filiale a Dio e una tenera devozione alle persone o alle cose divine, per farci compiere con santa premura i doveri religiosi;

    3. il dono della fortezza che perfeziona la virtù della temperanza; è un dono che attribuisce alla volontà un impulso ed una energia che la rendono capace di operare o di soffrire lietamente e intrepidamente grandi cose, superando tutti gli ostacoli;

    4. il dono del timore: non si tratta di quella paura di Dio che, al ricordarci dei nostri peccati, ci inquieta, ci attrista, ci conturba. Non si tratta neppure del timore dell'inferno, che basta per abbozzare una conversione ma non per dar compimento alla nostra santificazione. Si tratta del timore riverenziale e filiale che ci fa paventare ogni offesa di Dio. Il dono del timore perfeziona nello stesso tempo le virtù della speranza e della temperanza: la virtù della speranza, facendoci paventare di dispiacere a Dio e di essere da lui separati; la virtù della temperanza, staccandoci dai falsi diletti che potrebbero farci perdere Dio. Può quindi definirsi un dono che inclina la volontà al rispetto filiale di Dio, ci allontana dal peccato perché gli dispiace, e ci fa sperare nel potente suo aiuto;

    5. col dono della scienza siamo ai tre doni intellettuali che più direttamente concorrono alla contemplazione: il dono della scienza, che ci fa giudicar rettamente delle cose create nelle loro relazioni con Dio; il dono dell'intelletto, che ci palesa l'intima armonia delle verità rivelate; il dono della sapienza, che ce le fa giudicare, apprezzare, gustare. Tutti e tre hanno questo di comune, che ci danno una conoscenza sperimentale o quasi sperimentale, perché ci fanno conoscere le cose divine non per via di ragionamento ma per mezzo di una luce superiore che ce le fa afferrare come se ne avessimo l'esperienza. Questa luce, comunicataci dallo Spirito Santo, è certamente la luce della fede, ma più attiva e più illuminante che non sia abitualmente e che ci dà come una specie di intuizione di queste verità, simile a quella che abbiamo dei primi principi. La scienza di cui qui parliamo, non è la scienza filosofica che si acquista con la ragione, neppure la scienza teologica che si acquista col lavorio della ragione sui dati della fede, ma la scienza dei Santi che ci fa giustamente giudicare delle cose create nelle loro relazioni con Dio. Si può quindi definire il dono della scienza un dono che, sotto l'azione illuminatrice dello Spirito Santo, perfeziona la virtù della fede, facendoci conoscere le cose create nelle loro relazioni con Dio;

    6. il dono  dell'intelletto si distingue da quello della scienza perché l'oggetto ne è molto più vasto: non si restringe alle sole cose create ma si estende a tutte le verità rivelate; inoltre lo sguardo ne è più profondo, facendoci penetrare (intus legere, "leggere dentro") l'intimo significato delle verità rivelate. Non ci fa certamente comprendere i misteri, ma ci fa capire che, nonostante la loro oscurità, sono credibili, che bene armonizzano tra loro e con ciò che vi è di più nobile nella umana ragione, onde conferma i motivi di credibilità. Può dunque essere definito: un dono che, sotto l'azione illuminatrice dello Spirito Santo, ci dà una penetrante intuizione delle verità rivelate, senza però svelarcene il mistero. Il che si rileverà anche meglio dalla sua azione nell'anima;

    7. il dono della sapienza: è un dono che perfeziona la virtù della carità, e risiede nello stesso tempo nell'intelletto e nella volontà perché effonde nell'anima luce ed amore. Onde viene meritamente considerato come il più perfetto dei doni, quello in cui si compendiano tutti gli altri, a quel modo che la carità comprende tutte le virtù. Il dono della sapienza si può quindi definire un dono che, perfezionando le virtù della carità, ci fa discernere e giudicare Dio e le cose divine nei loro più alti principi e ce li fa gustare. Differisce quindi dal dono dell'intelletto, che ci fa conoscere le verità divine in se stesse e nelle mutue loro relazioni ma non nelle loro cause più alte, e che non ce le fa amare e assaporare.

     

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    ESTASI (unione estatica)

    Scrive A.Tanquerey che ci sono tre fasi principali nell'estasi: l'estasi semplice, il ratto e il volo dello spirito.

    1. L'estasi semplice è una specie di deliquio (perdita temporanea di coscienza) che avviene dolcemente, provocando nell'anima come una ferita, dolorosa e deliziosa nello stesso tempo: lo Sposo le fa sentire la sua presenza ma per un po' di tempo soltanto, mentre lei ne vorrebbe godere continuamente, onde soffre di tale privazione. Questo godimento però è più saporoso che nella quiete. Dice S.Teresa: «L'anima sente di essere dolcissimamente ferita ma non riesce a spiegarsi né come né da chi; conosce però bene che è cosa preziosa, così che no vorrebbe guarir mai di tale ferita. Si lamenta, non potendo far altro, collo Sposo con parole di amore anche esteriormente; perché conosce che è presente ma non vuole manifestarsi in modo da lasciarsi godere. È pena vivissima quantunque soave e piena di dolcezza... e di là più diletto che la saporosa sospensione dell'orazione di quiete, che pur non porta seco alcuna pena». Vi sono già in questa fase locuzioni soprannaturali e rivelazioni (vedi la pagina dei Fenomeni straordinari nei mistici).

    2. Il rapimento (o ratto) s'impossessa dell'anima con impetuosità e violenza in modo da non potervi resistere. È come se un'aquila ti rapisse sulle sue ali senza saper dove si vada. Nonostante il diletto che si prova, l'umana debolezza risente le prime volte un brivido di terrore. Ma è terrore misto a grandissimo amore, che di nuovo si concepisce per colui che così grande lo mostra a un essere così piccolo. Nel ratto avviene lo sposalizio spirituale: delicato pensiero da parte di Dio, perché, se l'anima conservasse l'uso dei sensi, morrebbe forse al vedersi così vicina a questa grande Maestà. Passato il ratto, la volontà rimane come ubriaca, né può più occuparsi che di Dio; nauseata delle cose terrene, sente insaziabile desiderio di fare penitenza, tanto che si lamenta quando non ha da patire.

    3. Succede al ratto il volo dello spirito, che è così impetuoso da parere che lo spirito si separi dal corpo senza che gli si possa resistere. «Pare all'anima - dice S. Teresa -, di essere trasportata tutta intera in altra regione molto diversa da quella in cui viviamo, ove le si mostra una luce nuova con altre cose così diverse da quelle di quaggiù, che non sarebbe mai riuscita a immaginarsele, quand'anche vi avesse impiegata tutta la vita. Talora le sono, in un istante, insegnate tante cose insieme, che, dove si fosse con l'immaginazione e con l'intelletto affaticata i lunghi anni a metterle insieme, non sarebbe mai riuscita a raccapezzarne la millesima parte».  

     

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    GRAZIA SANTIFICANTE

    Può essere definita come una qualità soprannaturale, inerente alla nostra anima, che ci conferisce una partecipazione fisica e formale (sebbene analoga e accidentale) della natura di Dio in quanto propria di Dio. Il primo effetto della grazia santificante è di renderci partecipi della natura divina. Si tratta di un aspetto particolare della grazia di Dio, cioè l'azione di Dio sull'uomo ai fini della giustificazione. Essa non riguarda solo una promessa escatologica (che si realizzerà alla fine dei tempi), ma un bene attuale che concorre alla salvezza, che sana e perdona. Con la giustificazione i peccati sono realmente cancellati in modo che l'uomo passa dall'essere peccatore a giusto, soltanto ed esclusivamente con l'azione gratuita di Dio. Il perdono trasforma l'uomo interiormente, santificandolo. La grazia santificante rigenera l'uomo nell'essenza della sua anima e non nelle sue potenze. Gli effetti della grazia santificante nell'uomo sono quelli descritti da Paolo, nella sua Epistola ai Romani: 

    E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria (Romani 8,15-17). 

    In particolare, la grazia ci rende 1) veri figli adottivi di Dio; 2) veri eredi di Dio; 3) fratelli e coeredi di Cristo. Inoltre ci conferisce la vita soprannaturale, ci rende giusti e graditi a Dio, ci unisce intimamente a Dio, ci trasforma in templi vivi della SS. Trinità. 

     

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    GRADI DELLA VITA CRISTIANA

    Scrive A.Tanquerey che vi sono nella vita spirituale vari gradi e tappe diverse da percorrere: è quindi necessario specificarli e adattare i principi generali ai bisogni particolari delle anime, tenendo conto non solo del carattere, delle inclinazioni, della vocazione, ma anche del grado di perfezione in cui si trovano, affinché il direttore possa guidare ogni anima secondo ciò che le conviene. Tali tappe (gradi, vie) sono così riassunti:

    1. Via purgativa (purificazione dell'anima - stato delle anime incipienti)

    2. Via illuminativa (stato delle anime proficienti)

    3. Via unitiva

  • VIA PURGATIVA: Gli incipienti nella vita spirituale sono quelli che, vivendo abitualmente nello stato di grazia, hanno un certo desiderio di perfezione, ma conservano affetto al peccato veniale e sono esposti a ricadere di tanto in tanto in alcune colpe gravi. La purificazione dell'anima è il lavoro per queste anime che consiste nell'espiazione del passato e nel distacco dal peccato e dalle sue occasioni per l'avvenire. Tale pratica consiste essenzialmente nella preghiera, nella penitenza per riparare il passato, nella mortificazione per assicurare l'avvenire, nella lotta contro i vizi capitali e contro le tentazioni.

  • VIA ILLUMINATIVA: Purificata l'anima dai passati peccati con la penitenza proporzionata al loro numero e alla loro gravità; rassodatasi nella virtù con la pratica della meditazione, della mortificazione e della resistenza alle inclinazioni cattive e alle tentazioni, si entra nella via illuminativa. È chiamata così perché consiste principalmente nell'imitare Nostro Signore con la pratica positiva delle virtù cristiane; ora Gesù è la luce del mondo e chi lo segue non cammina nelle tenebre. Poiché la via illuminativa consiste nell'imitazione di Nostro Signore, per entrarvi bisogna adempiere queste tre condizioni, che ci rendono capaci di seguire il divino Maestro con la pratica della virtù di cui ci ha dato l'esempio: 1) bisogna aver già acquistato una certa purezza di cuore; 2) bisogna che l'anima abbia mortificato le sue passioni; 3) infine è necessario avere, con la meditazione, acquistato convinzioni profonde su tutte le grandi verità, al fine di poter dare nell'orazione maggior tempo agli affetti e alla preghiera propriamente detta. I mezzi impiegati sono: a) applicarsi diligentemente all'orazione affettiva per attingervi la conoscenza, l'amore e l'imitazione del divino modello; b) praticare pure, in modo speciale ma non esclusivo, quelle virtù morali che, liberandole dagli ostacoli che si oppongono all'unione con Dio, cominceranno ad unirle a Colui che è l'esemplare d'ogni perfezione; c) praticare quindi le virtù teologali, che avevano già praticate nella via purgativa di conserva con le virtù morali, in modo che si sviluppino in loro e diventino il principale motore della loro vita.

  • VIA UNITIVA: Purificata l'anima e ornatala con la pratica positiva delle virtù, si è maturi per l'unione abituale ed intima con Dio, ossia per la via unitiva. Il fine è quello di vivere unicamente per Dio, il Dio vivente, la SS. Trinità, che abita in noi, per lodarlo, servirlo, riverirlo e amarlo; vivere non in modo mediocre ma intenso, con tutto il fervore che viene dall'amore; e quindi obliare se stessi per non pensare più che a quel Dio che si degna di vivere in noi, ad amarlo con tutta l'anima, a concentrare in lui tutti i pensieri, i desideri, le azioni. I caratteri distintivi della via unitiva si compendiano in uno solo: il bisogno di semplificar tutto, di ridurre tutto all'unità, vale a dire all'intima unione con Dio per mezzo della divina carità. L'anima vive quasi costantemente alla presenza di Dio, e si diletta di contemplarlo vivente nel suo cuore, diligentemente distaccandosi dalle creature. Onde cerca la solitudine e il silenzio; costruisce a poco a poco nel cuore una celletta in cui trova Dio e gli parla cuore a cuore. Si forma allora tra Dio e lei una dolce intimità. 
    L'intimità è la coscienza che coloro che si amano hanno dell'armonia che corre tra loro: coscienza piena di luce, di unzione, di letizia e di fecondità. È il sentimento e l'esperienza delle loro mutue attrattive, della loro affinità, dell'intera loro corrispondenza se non della perfetta loro somiglianza... È l'unione fino all'unità e quindi l'unità senza la solitudine. È una sicurezza reciproca, una fiducia illimitata, una voluta semplicità che rende le anime tutte trasparenti; è, infine e per conseguenza, la piena libertà che si danno di guardarsi sempre a vicenda e vedersi sino al fondo dell'anima. Tale è l'intimità che Dio permette anzi si degna offrire alle anime interiori. Le caratteristiche di queste anime sono: 1) Una grande purità di cuore, vale a dire non solo l'espiazione e la riparazione delle colpe passate, ma anche il distacco da tutto ciò che potrebbe condurre al peccato, l'orrore per ogni peccato veniale deliberato e anche per ogni volontaria resistenza alla grazia; 2) Una grande padronanza di sé, acquistata con la mortificazione delle passioni e con la pratica delle virtù morali e teologali, che, disciplinando le nostre facoltà, le assoggetta a poco a poco alla volontà e la volontà a Dio; 3) Un abituale bisogno di pensare a Dio, di trattenersi con lui, e se, per dovere del proprio stato, attende a cose profane, si sforza di non perdere di vista la divina presenza e si volge istintivamente verso di lui come la calamita verso il polo. 
    A forza di pensare a Dio, uno fissa amorosamente lo sguardo su di lui, e si ha così la contemplazione, che è una delle note caratteristiche di questa via. La parola contemplazione indica, in senso proprio, un atto di semplice vista intellettuale, astraendo dai vari elementi affettivi o immaginativi che l'accompagnano; ma, quando l'oggetto contemplato è bello ed amabile, l'atto si associa ad ammirazione e amore. Per estensione si chiama contemplazione un'orazione che ha per qualità speciale il predominio di questo semplice sguardo; onde non è necessario che questo atto duri tutto il tempo dell'orazione, basta che sia frequente e accompagnato da affetti. L'orazione contemplativa si distingue quindi dall'orazione discorsiva, perché esclude i lunghi ragionamenti; e dall'orazione affettiva, perché esclude la molteplicità degli atti che qualificano quest'ultima. Si può dunque definirla: una vista semplice e affettuosa di Dio o delle cose divine; e più brevemente simplex intuitus veritatis, come dice S. Tommaso. 
    Nella via unitiva si possono distinguere due forme o due fasi diverse: 

  • la via unitiva semplice o attiva, qualificata dalla coltura dei doni dello Spirito Santo, specialmente dei doni attivi, e dalla semplificazione dell'orazione che diventa una specie di contemplazione attiva o contemplazione impropriamente detta; 

  • la via unitiva passiva o mistica in senso proprio, che è qualificata dalla contemplazione infusa o contemplazione propriamente detta; 

  • inoltre, alla contemplazione s'aggiungono talora fenomeni straordinari, come le visioni e le rivelazioni, a cui s'oppongono le contraffazioni diaboliche, l'infestazione e l'ossessione.  

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    MISTICO, MISTICA, ESPERIENZA MISTICA

     

    ORIGINE DEL TERMINE

    Il concetto di mistica appare molto più confuso e lascia molti problemi aperti. Dal punto di vista filologico la parola mystikós deriva da mystés: colui che è stato iniziato ai misteri. L'aggettivo mystikós proviene dal verbo myo = chiudere la bocca e gli occhi. Da qui deriva mysterion, mistero, che nel mondo ellenistico riguarda il rito segreto di iniziazione che mette in contatto l'uomo con la divinità. L'iniziazione è indicata con il termine mysteriasmós e l'iniziato con mystés. Mystikós è adoperato in senso generale per parlare dei "misteri" ossia i riti iniziatici delle religioni perciò chiamate misteriche.

    Stando al significato comune della parola mysterion, il campo mistico implica sempre l'esistenza di una realtà segreta, nascosta alla conoscenza ordinaria e che quindi si rivela attraverso un'iniziazione quasi sempre di tipo religioso. È questo il senso di mysterion anche nel Nuovo Testamento (Mt 13,11; Rm 16,15; Col 1,26-27; Ef 3,3-9, ecc.). Quando la realtà nascosta si disvela, l'iniziato è introdotto ad un nuovo tipo di conoscenza e alla salvezza. La mistica è prevalentemente religiosa, ma la si ritrova anche in altri contesti di tipo filosofico, ad esempio nella filosofia neoplatonica di Plotino o nell'induismo. Confrontando la nozione filosofica con quella religiosa, riscontriamo gli stessi elementi fondamentali: una realtà nascosta che diventa fine dell'esperienza e conduce all'unione con l'assoluto.

    Il costitutivo essenziale della mistica - scrive A.Royo Marin -, ciò che la distingue e la separa da tutto il resto, è dato dall'attuazione dei doni dello Spirito Santo al modo divino o sovrumano, che produce ordinariamente un'esperienza passiva di Dio o della sua azione divina nell'anima. Questa attuazione dei doni costituisce l'essenza della mistica. Ogni volta che un dono opera, abbiamo un atto mistico più o meno intenso. E quando l'attuazione dei doni è tanto frequente da predominare sull'esercizio al modo umano delle virtù infuse (caratteristica dell'ascetica), l'anima è entrata in pieno stato mistico, anche se relativo giacché i doni non operano mai in maniera continuata e ininterrotta. L'esperienza del divino non è essenziale, dal momento che può mancare in alcuni stati (notti dell'anima o altre prove di purificazione passiva).

    L'esperienza del divino è una delle manifestazioni più frequenti e ordinarie nell'attuazione sovrumana dei doni. Però si possono dare stati mistici in cui questa esperienza non si produce. Durante le notti dello spirito l'anima è portata ad attribuire a qualsiasi causa, meno che a Dio, il suo stato. Non solo non lo sente o non sente la sua azione, ma ha l'impressione di stare lontanissima da Dio e a volte perfino di essere riprovata da Lui. L'anima, in mezzo a queste spaventose torture causate dal sentimento della totale assenza di Dio, continua a praticare le virtù in grado eroico, la sua fede è viva, la sua speranza superiore ad ogni speranza e la carità più grande di ogni misura.

    Mentre l'asceta vive la vita cristiana in una forma puramente umana e ne prende coscienza solo mediante la riflessione, il mistico, invece, sperimenta in se stesso l'ineffabile verità di questa vita di grazia. Udire e credere sono le caratteristiche dell'asceta; intendere in una maniera ineffabile, sperimentare è invece il privilegio del mistico. Il mistico ha coscienza che l'esperienza di cui gode non è stata prodotta da lui. Si limita a ricevere un'azione prodotta da un agente che gli è estraneo, senza poterla conservare un secondo di più di quanto esso non lo permetta.

    Come nota particolare dell'esperienza mistica, dunque, la passività rimane fondamentale: non una passività assoluta, ma relativa, in quanto l'anima reagisce in modo vitale sotto la mozione dello Spirito Santo, "consente la volontà" cooperando alla sua divina azione in una maniera libera e volontaria.

    Nell'ambito della fede cristiana esiste una realtà segreta e nascosta: Dio stesso, trascendente ad ogni cosa; nascosti e segreti però rimangono anche i vari aspetti del mistero della salvezza, che conosciamo nella fede ma solo in modo imperfetto. Per i padri greci questi misteri designano in particolari i vari sacramenti: dietro i simboli sensibili è presente una realtà divina. Come nel battesimo opera la potenza invisibile del Cristo morto e risorto, così nell'eucaristia i segni del pane e del vino nascondono la presenza del Cristo glorioso. Questa realtà divina, sempre nascosta, altro non è che l'oggetto della fede comune a tutti i cristiani. Molto presto, però, e già in san Paolo, il mistero della salvezza diventa oggetto di esperienza: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me [o: in me] suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani ...» (Gal 1,15-16). Ma era inevitabile che altre persone profondamente religiose facessero un'esperienza più o meno simile a quella dell'Apostolo; esperienza che le avrebbe portate a discernere nella Sacra Scrittura un senso nascosto dietro al racconto storico (si pensi pensi al senso mistico dell'Esodo) e a vivere un rapporto con Dio tale da suscitare un nuovo tipo di conoscenza (gnosi).

     

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    BREVE PERCORSO STORICO

    Con Marcello d'Ancira (IV sec.) compare un'espressione che, raccolta da Dionigi Areopagita, conoscerà una grande fortuna: teologia mistica. Marcello intendeva parlare di una conoscenza di Dio «ineffabile e mistica» che si distingueva dalla conoscenza comune. Dionigi Areopagita nella sua Teologia mistica aggiunge una precisazione decisiva, e cioè che questa conoscenza misteriosa di Dio costituisce l'apice dell'esperienza religiosa: «Tu, o caro Timoteo, con un esercizio attentissimo nei riguardi delle contemplazioni mistiche, abbandona i sensi e le operazioni intellettuali, tutte le cose sensibili e intelligibili, tutte le cose che non sono e quelle che sono; e in piena ignoranza protenditi, per quanto è possibile, verso l'unione con colui che supera ogni essere e conoscenza. Infatti, mediante questa tensione irrefrenabile, e assolutamente sciolto da te stesso e da tutte le cose, togliendo di mezzo tutto e liberato da tutto, portai essere elevato verso il raggio soprasostanziale della divina tenebra».

    Questa dottrina dell'esperienza di Dio nascosto nella tenebra attraverserà tutto il medioevo. La troviamo espressa da Dionigi il Certosino: «Questa teologia più sublime, ossia mistica, tratta di Dio in quanto, per mezzo della negazione di tutti gli esseri e di un amore di carità sovramentale, infiammato, sperimentale e ardentissimo, Egli è conosciuto in una tenebra più che luminosa, grazie all'elevazione della mente al di sopra di tutto il creato e all'unione estatica, immediata e certissima con Dio altissimo» (De contemplatione I, 26). È presente anche in san Giovanni della Croce (Cantico spirituale A, st.39). Invece di insistere sull'aspetto oggettivo, era inevitabile che nel Cinquecento e nel Seicento, epoca in cui prevaleva la considerazione psicologica, l'attenzione si spostasse sulle condizioni soggettive dell'esperienza e, in particolare, sulle modalità della contemplazione mistica e sui fenomeni parapsicologici che in essa si possono verificare. Da una parte la vita spirituale richiede uno sforzo ascetico volontario; dall'altra assume, in certi casi, un carattere passivo, in quanto la conoscenza mistica appare come un'iniziativa di Dio che svela il proprio mistero, pur nell'oscurità della sua trascendenza. Tutti gli spirituali riconoscono un grande valore a questo tipo di conoscenza. Di qui la tentazione di privilegiarla a scapito della vita spirituale più comune: è meglio la passività in cui Dio stesso opera, che non la nostra attività, incapace di farci conoscere Dio e di unirci a lui in modo costante e profondo. Tale fu l'atteggiamento di tutti coloro che propendevano per il quietismo, una tendenza spirituale che nega l'utilità dello sforzo dell'uomo per disciplinare la propria vita e per pregare metodicamente: possiamo annoverarvi, già nel XIII sec., i «fratelli del libero spirito», poi gli «alumbrados» spagnoli del XIV sec. e soprattutto i grandi autori quietisti del XVII sec. (Miguel de Molinos, P.M.Petrucci) cui si aggiungerà successivamente la tendenza rappresentata dal vescovo F.Fénelon e da Madame Guyon (vedi, fra queste pagine, quella relativa al Quietismo).

    È questo il motivo per cui, a partire dal Seicento, dopo le dispute teologiche suscitate dal quietismo, è entrato nell'uso di contrapporre le due espressioni «teologia ascetica» e «teologia mistica». Si è giunti così a distinguere sempre più la forma ascetica, volontaria, attiva, ordinaria della vita spirituale e della vita di orazione, dalla forma mistica, contemplativa, passiva, straordinaria, facendo sorgere in tal modo il difficilissimo problema dei rapporti fra queste due vie spirituali.

     

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    TRATTI CARATTERISTICI DELL'ESPERIENZA MISTICA CRISTIANA

    Seguendo quanto indicato da F. Ruiz, nel volume citato in Bibliografia (pagg. 327ss.), ma rielaborandolo anche alla luce di quanto scritto da J.M. Velasco, nei due volumi della sua opera citata in Bibliografia generale sul fenomeno mistico, occorre precisare che non si può parlare di esperienza mistica come di un'esperienza di vita generica e indifferente, quanto di modalità particolari, spirituali e psicologiche della realtà percepita con tratti comuni alle mistiche di altre religioni. Ma, nell'esperienza mistica cristiana, precisa Ruiz, queste modalità si vivono «in relazione col mistero cristiano e la fede che lo assimila: Dio rivelato in Cristo, nei misteri della fede, nella s. Scrittura, nelle mediazioni della chiesa». Tale opportuna precisazione permette di far rientrare nei ranghi ogni eventuale sviamento (anche se la storia dei mistici non sempre è andata in questo modo; ma a tal proposito, si veda la Nota personale più avanti).

    I tratti caratteristici dell'esperienza mistica sono i seguenti:

  • Presenza di Dio, intimo e trascendente: vivo e vero, che si comunica e si fa sentire nella sua persona e nei suoi misteri, con maggior immediatezza e nuova luce. Questo è il fondamento di tutto ciò che ne deriva.

  • Sentimento di oggettività e di certezza: come afferma Teresa d'Avila, non si può dubitare che lì c'è Dio vivo e vero (cfr. Relazione, n. 41). Dio è il principale agente anche in un altro senso, in quanto lo Spirito Santo, con grazia speciale, rende capace l'uomo di accogliere questa manifestazione divina e corrispondere con atti personali adeguati. Nonostante la loro affinità con quelli affettivi, gli stati mistici hanno, per chi li vive, una dimensione noetica, una qualità di conoscenza. 

  • Gratuità: la comunicazione del Dio infinito, le operazioni e le risonanze che appaiono al soggetto umano si percepiscono con carattere di assoluta gratuità: immeritate, impreparate, inimmaginabili. Ossia, come anche accennato in altre pagine, non è preparandosi, studiando i mistici, avendo una vita di preghiera anche intensa che si possa pretendere di arrivare ad uno stato mistico. Si tratta di un'esperienza soggettiva al di là di ogni sforzo attivo della persona, che Dio concede al pari di altri stati, ugualmente validi ed importanti al fine della salvezza. 

  • Transitorietà: uno stato (più che un'esperienza) mistico non può permanere a lungo e una volta scomparso non può riprodursi se non in modo molto imperfetto. Si tratta, nell'esperienza mistica, di esperienze puntuali, isolate e di carattere straordinario.

  • Passività attiva o recettiva: la passività che accompagna tutta la sua attività intorno al mistero fa percepire la comunione come dono e le proprie prestazioni come frutto del medesimo. Per quanto ci possa essere per un mistico un'inclinazione verso questa esperienza, quando vi giunge sente come se la propria volontà venisse sottomessa, e, spesso, come se una potenza superiore l'attraesse e dominasse. 

  • Ineffabilità: è l'incapacità di esprimere adeguatamente tanto l'oggetto quanto le componenti dell'esperienza stessa. Si deve alla trascendenza del mistero divino e al fatto che le operazioni interiori del soggetto sono intessute con lui, risultando impossibile descriverli concettualmente. Tale caratteristica rivela la somiglianza e la prossimità di tali esperienze agli stati affettivi più che con gli stati mentali.  

  • Linguaggio simbolico e paradossale: ispirato dalla grazia stessa incomunicabile, per dire e trasmettere qualcosa del mistero, confessando al tempo stesso la sua ineffabilità.

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    Nota personale a margine del concetto di mistica

    Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, il rapporto fra misteri pagani e mistero cristiano viene esplicitato nel seguente modo, associando misteri a sacramenti. Si legge al n. 2014:

     

    «Il progresso spirituale tende all'unione sempre più intima con Cristo. Questa unione si chiama "mistica", perché partecipa al mistero di Cristo mediante i sacramenti - "i santi misteri" - e, in lui, al mistero della Santissima Trinità. Dio ci chiama tutti a questa intima unione con lui, anche se soltanto ad alcuni sono concesse grazie speciali o segni straordinari di questa vita mistica, allo scopo di rendere manifesto il dono gratuito fatto a tutti».

     

    Come si nota, i misteri pagani vengono trasformati in misteri santi, detti sacramenti, i quali, soltanto, riescono a realizzare questa intima unione con Dio attraverso Cristo. Tutto ciò appare riduttivo della potenza e libertà dello Spirito Santo, che da sempre «soffia dove vuole» e, pur sentendone la presenza, non si sa «di dove viene e dove va» (cfr. Gv 3,8). Ridurre la mistica alla partecipazione ai sacramenti della Chiesa sarebbe come imprigionare lo Spirito di Dio in categorie umane precise. 

    Sappiamo infatti che la mistica è sempre poco "controllabile" essendo una manifestazione dello Spirito libera e vivace. Per quanto rasenti, eccezionalmente, l'eresia, costituisce uno stimolo essenziale e fondamentale per tutta la Chiesa e per tutti gli uomini, a qualunque religione appartengano, assetati di Dio e della sua Verità. Non si può "regolare" la mistica attraverso il solo esercizio di determinate liturgie o apparati ritualistici. Accettare il rischio di un "al di là" della modalità consueta di rapportarsi a Dio è aprirsi ad un mondo di bellezza infinita e di verità sublime, nell'umiltà di chi accetta quello che Dio ha preparato per sé e per la vita di ognuno. 

    Aprirsi al mistero vero di Dio significa cercare di non limitare la sua azione a piccoli atti umani codificati, ma accettare il rischio di essere condotti in spazi inesplorati, sostenuti da Dio stesso che è Bene assoluto, Amore infinito, Verità che non delude.

    Questo che dico appare contrario a quanto asserito da alcuni: il domenicano Giovanni Cavalcoli, criticando l'approccio, a suo dire, idealista di Marco Vannini, curatore e traduttore di quasi tutte le opere di Eckhart e di altri autori mistici, afferma:

     

    «La pretesa di "andare oltre Dio", di superare il Dio della rivelazione biblica, per raggiungere una migliore conoscenza, al di là di quella che ci è assicurata dalla stessa Parola di Dio e dalla dottrina cristiana, è chiaramente gnostica e assurda, in quanto è la pretesa di poter avere dell'Assoluto una conoscenza più alta di quella che ci è assicurata da Cristo e dalla sua Chiesa. [...] Per il cristiano non c'è nessuna "mistica" al di sopra del dogma e della Sacra Scrittura, perché la mistica non è altro che una interpretazione e una esplicitazione personale del dato rivelato» (Il silenzio della parola. Le mistiche a confronto, in Sacra Doctrina, n.3-4 (2002) 271-272).

     

    Appare strano che il concetto, tanto esaltato nell'ambito cattolico anche da parte di alcuni movimenti riconosciuti dalla Chiesa, di un Dio personale (il quale si fa carne e lascia traccia nella storia degli uomini, uomo fra gli altri) si riduca, quando si parla di mistica, ad un rapporto pericoloso. Da un lato si preme affinché il cristiano attui un rapporto personale con Dio e dall'altro lo si media attraverso una struttura precisa (la comunità cristiana piccola e quella più allargata della Chiesa cattolica, con i sacramenti, con le sue leggi e la sua dottrina che integra e modifica perfino le Sacre Scritture).

    Sappiamo infatti che l'accusa più grave nei confronti della Chiesa cattolica da parte degli evangelici è proprio quella di tenere in conto qualcos'altro rispetto alla Parola di Dio ultima e definitiva rivelata nelle Sacre Scritture. Ad essa, infatti, nel corso della storia, si sono affiancati testi, pensieri e concetti che sono il risultato di un cammino personale o comunitario: non si tratta certo di nuove rivelazioni, ma di nuovi atteggiamenti e costumi che, da parte evangelica, sono assolutamente criticabili nei confronti dell'ambito cattolico. Non solo, ma si tengono in particolare conto tutte le rivelazioni particolari (private anche se con intenti pubblici contenenti messaggi aggiuntivi e magari anche segreti) di alcuni veggenti che, nel corso anche della recente storia, hanno recepito attenzioni e benevolenze (oltre che credito) da parte della Chiesa cattolica. 

    Occorre pertanto guardare con onestà alla mistica ed avere cautela nel giudicare tutti i fenomeni e non solo alcuni. Per quanto io stesso creda che la mistica sia sempre più rara come modalità di rapporto con Dio, perché estremamente esigente, nello stesso tempo non si può non avere che grande rispetto per tutti coloro che, nel loro intimo e nel profondo della propria coscienza, ritengono di poter vivere in modo particolare la loro esperienza con la divinità. Noi tutti siamo alla ricerca della Verità e non della sicurezza di quello che abbiamo e che è consolidato da tempo: aprirsi alla Verità significa perdere quelle sicurezze per accogliere (non mi sembra questo un atteggiamento gnostico) ciò che la Verità vorrà rivelarci. E la preghiera che sempre dovremmo fare è quella del Salmo (42, 3):

     

    «Manda la tua verità e la tua luce; siano esse a guidarmi, mi portino al tuo monte santo e alle tue dimore».

     

    Ma questa, lo ripeto, è una nota a margine del discorso, estremamente soggettiva, e in questo senso va tenuta nell'opportuna considerazione da parte del lettore.

     

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    NOTTE DELLO SPIRITO

    Scrive A.Tanquerey che per unirsi a Dio in modo intimo e durevole (ciò che avviene nell'unione trasformativa o matrimonio spirituale), è necessario mondarsi dalle ultime imperfezioni che restano nell'anima. Imperfezioni che, come dice S. Giovanni della Croce, sono di due specie: abituali le une, attuali le altre.

    1. Le prime consistono in due cose: a) in affetti e in abiti imperfetti, che sono come radici rimaste nello spirito là dove la purificazione del senso non poté penetrare, per esempio certe amicizie un po' troppo vive, che bisogna quindi sradicare; b) una certa debolezza spirituale, hebetudo mentis, onde l'anima facilmente si distrae e si versa al di fuori: difetti incompatibili con l'unione perfetta;

    2. Le imperfezioni attuali sono anch'esse di due specie: a) un certo orgoglio e una vana compiacenza di sé, provenienti dalla copia delle consolazioni spirituali che si ricevono; sentimenti che portano spesso all'illusione e fanno scambiar per vere false visioni e false profezie; b) un'eccessiva arditezza con Dio, onde si perde quel rispettoso timore che è tutela di tutte le virtù. Onde è necessario purificare e riformare nello stesso tempo queste tendenze; al quale intento Dio manda le prove della seconda notte.

    PROVE DELLA NOTTE DELLO SPIRITO

    A purificare e riformare l'anima, Dio lascia l'intelletto nelle tenebre, la volontà nell'aridità, la memoria senza ricordi e gli affetti immersi nel dolore e nell'angoscia. Dio, dice S. Giovanni della Croce, opera questa purificazione col lume della contemplazione infusa, lume vivo in sé ma oscuro e doloroso per l'anima, a cagione delle sue ignoranze e della sua impurità.

    1. Patimenti dell'intelletto:

    a) Il lume della contemplazione, vivo e puro com'è, offende l'occhio del nostro intelletto che è così debole ed impuro da non poterlo sopportare; a quella guisa che l'occhio infermo è offeso dalla viva e chiara luce, così l'anima ancora inferma è torturata e come intorpidita dalla luce divina, tanto che la morte le parrebbe liberazione.

    b) Dolore fatto più intenso dall'incontro del divino e dell'umano nella stessa anima: il divino, vale a dire la contemplazione purificatrice, la invade per rinnovarla, perfezionarla, divinizzarla; l'umano, vale a dire l'anima coi suoi difetti, ha l'impressione come di un annientamento e di una morte spirituale per cui deve passare onde giungere alla risurrezione.

    c) A cosiffatto dolore s'aggiunge la vista profonda della propria povertà e miseria; immersa la parte sensitiva nell'aridità e la parte intellettiva nella tenebra, l'anima è nello stato angoscioso di chi si trovasse sospeso in aria senza appoggio; vede anzi talora l'inferno spalancato a inghiottirla per sempre. È certo un parlar figurato ma che dipinge bene l'effetto di quella luce che mostra da un lato la grandezza e la santità di Dio, e dall'altro il nulla e le miserie dell'uomo.

    2. I patimenti della volontà sono anch'essi ineffabili:

    a) L'anima si vede priva di ogni gaudio, persuasa che sarà sempre così; neppure il confessore riesce a consolarla.

    b) A sorreggerla nella prova, Dio le manda intervalli di sollievo in cui gode di pace soave nell'amore e nella familiarità di Dio. Ma dopo tali momenti la dolorosa vicenda riprende e l'anima s'immagina di non essere più amata da Dio, di essere da lui giustamente abbandonata: è il supplizio dell'abbandono spirituale.

    c) In questo stato è impossibile pregare; pregando, prova tanta aridità che le pare di non essere più ascoltata da Dio. Vi sono casi in cui non può nemmeno più occuparsi dei suoi affari temporali, perché la memoria più non le serve: è il legamento delle potenze che si estende alle azioni naturali.

    Insomma è una specie d'inferno per il dolore che si prova e di purgatorio per la purificazione che ne è il frutto.  

     

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    PASSIONI

    Si possono definire come il movimento dell'appetito sensitivo sorto dall'apprensione del bene o del male sensibile con una ripercussione più o meno intensa sull'organismo. Si tratta di energie che possiamo usare per il bene o per il male; considerate in se stesse non sono né buone né cattive, poiché tutto dipende dall'orientamento che viene loro dato. Le passioni si distinguono secondo due potenze specifiche:

  • concupiscibile: hanno per oggetto il bene e il male sensibili, come tali;

  • irascibile: hanno per oggetto sempre il bene e il male sensibili, vissuti come ardui.

  • Nell'ambito del concupiscibile, troviamo:

  • Amore: tendenza al bene appreso in modo assoluto;

  • Odio: è la reazione di rifiuto che il male, percepito come tale, provoca nel soggetto;

  • Desiderio: tendenza al bene considerato come assente o futuro;

  • Fuga: avversione al male considerato come assente o futuro;

  • Piacere: quiete nel bene appreso come realmente posseduto e amato;

  • Tristezza: inquietudine che si realizza nella reazione causata dalla presenza del male, cioè dalla privazione del bene conveniente.

  • Nell'ambito dell'irascibile abbiamo:

  • Speranza: moto verso il bene assente considerato come arduo, ma conseguibile;

  • Disperazione: moto verso il bene assente considerato come arduo da raggiungere e non conseguibile;

  • Audacia: è la passione che porta ad affrontare e a superare gli ostacoli che si oppongono al conseguimento del bene;

  • Timore: moto che induce a fuggire da un male minacciato che appare difficilmente evitabile;

  • Ira: è il moto di repulsione dell'appetito davanti agli ostacoli che impediscono, qui e ora, di raggiungere il bene.

     

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  • PASSIVITÀ (raccoglimento passivo)

    Scrive A.Tanquerey che questo raccoglimento è detto passivo per distinguerlo dal raccoglimento attivo che si acquista coi nostri sforzi aiutati dalla grazia; il raccoglimento passivo infatti non si ottiene per opera dell'intelletto, procurando di considerare Dio dentro di noi, né per mezzo dell'immaginazione, rappresentandocelo in noi, ma con l'azione diretta della grazia divina sulle nostre facoltà. Per questo S. Teresa lo dice la prima orazione soprannaturale che abbia sperimentata: "L'orazione di cui parlo è un raccoglimento interiore che si sente nell'anima, onde pare che abbia dentro di sé dei sensi interni come ha fuori gli esterni. Pare che voglia, ritirandosi in se stessa, appartarsi dai tumulti esteriori; e sentendoseli alcuna volta venir dentro, le viene voglia di chiudere gli occhi e non vedere, né udire, né intendere se non quello in che allora si occupa, che è di poter trattar con Dio da sola a solo. Qui non si perde alcun senso o potenza, poiché tutto rimane intiero ma per occuparsi di Dio".

    Altrove lo spiega con un paragone: le nostre facoltà, uscite dal castello per andarsene con estranei, riconoscendosi poi in colpa, si ravvicinarono al castello senza però rientrarvi. Il gran Re, che abita nel centro del Castello, si degna nella sua grande misericordia di richiamarle a sé: "A guisa di buon pastore, con un fischio tanto soave che quasi esse stesse non l'intendono, fa che conoscano la sua voce e che non vadano tanto perdute ma tornino alla loro mansione. Questo fischio del pastore ha su loro tanta forza che, abbandonando le cose esteriori in cui stavano distratte, rientrano nel castello. Mi sembra di non aver mai spiegato questo pensiero così bene come ora".

    S. Francesco di Sales porta un altro paragone non meno espressivo: "Come chi ponesse un pezzo di calamita in mezzo a molti aghi, vedrebbe subito tutte queste punte volgersi verso la diletta calamita e venire ad attaccarsele, così quando Nostro Signore ci fa sentire in mezzo all'anima la deliziosissima sua presenza, tutte le nostre facoltà là volgono la punta per unirsi a quell'incomparabile dolcezza".

    Si può quindi definire questo raccoglimento passivo: una dolce e affettuosa immersione dell'intelletto e della volontà in Dio, prodotta da una grazia speciale dello Spirito Santo.

     

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    POTENZA

    Si tratta di una facoltà, ossia il principio prossimo per il quale l'anima opera o si esprime. Le potenze (o facoltà) si distinguono dall'essenza dell'anima, in quanto sono accidenti con i loro rispettivi atti o operazioni. Vengono distinti sei generi di potenze:

  • Vegetativa: è il principio per cui il corpo vivente si nutre, cresce e genera;

  • Apprensiva sensitiva: è il principio per cui l'anima, unita al corpo, percepisce le cose materiali per loro stesse;

  • Intellettiva: è la capacità di conoscere le cose in quanto universali e immateriali;

  • Appetitiva sensitiva: è la tendenza verso un bene conosciuto attraverso i sensi;

  • Appetitiva intellettiva: detta anche volontà, è la potenza spirituale che ha per oggetto il bene conosciuto dall'intelletto come conveniente o non conveniente all'uomo.

     

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  • TEOLOGIA NEGATIVA

    Detta anche teologia apofatica (dal greco apó-fasis = negazione), è quella dottrina che ritiene che a Dio non possano convenire concetti o termini del linguaggio umano e che Dio possa essere meglio conosciuto negando di lui le categorie proprie dell'ente finito. Poiché Dio è assolutamente trascendente, nessuna creatura può conoscerlo, né può parlare di lui in modo adeguato, perciò di Dio si può dire ciò che non è piuttosto di ciò che è.

    Questo concetto è presente già nella filosofia greca con Filone ebreo, il quale afferma che Dio trascende infinitamente sia il mondo sensibile che il mondo intelligibile, in quanto creatore dell'uno e dell'altro. Rimane dunque incomprensibile all'uomo che non lo può conoscere nella sua essenza ed è ineffabile in quanto non si può esprimere e definire con nomi.

    Tale concetto si ritrova anche in Albino il quale afferma che è ineffabile e coglibile solo con l'intelletto, poiché non è né genere, né specie, né differenza specifica e nemmeno gli si addice alcuna determinazione né cattiva (in quanto non è lecito dire questo), né buona (poiché egli sarebbe tale per partecipazione di qualche cosa e specialmente della bontà); né è indifferente poiché ciò non corrisponde alla nozione di esso.

    Per Plotino, l'uno, il principio supremo, non solo trascende il mondo fisico, ma trascende ogni forma di finitudine, compresa quella in cui Platone e Aristotele avevano imprigionato lo stesso intelligibile e la stessa Intelligenza. L'Uno pertanto rimane ineffabile in quanto qualsiasi cosa tu pronunci avrai pronunciato "una qualche cosa".

    Fra i Padri possiamo ricordare Giustino, Teofilo vescovo di Antiochia di Siria, Clemente Alessandrino, Origene, Basilio, Gregorio di Nissa, Arnobio, Agostino.

    Dionigi Areopagita utilizza sia il metodo negativo (apofatico) che il metodo positivo (catafatico); con il primo si nega la possibilità di pensare Dio, di includerlo in un concetto che lo rappresenti o lo significhi alla stessa stregua degli enti finiti; con il metodo positivo si dice che egli è causa di tutti gli esseri, dal quale tutti emanano. Tra i nomi divini che Dionigi elenca troviamo al primo posto il Bene con i nomi ad esso collegati: Luce, Bellezza, Amore. Poi, Essere, Vita, Sapienza (o Intelligenza, o Ragione). Poi i nomi desunti dalla Bibbia: Potenza, Giustizia, Salvezza, Redenzione, Pace, etc. Tuttavia, questi nomi che celebrano in modo positivo Dio, sono lontani dal significarlo per quello che realmente è. Per questo nella Sacra Scrittura troviamo nomi che non hanno alcuna somiglianza con lui (Invisibile, Infinito, Incomprensibile) e con altre espressioni con le quali non si indica ciò che egli è, ma ciò che non è.

    Tutta la mistica renana (tra cui spicca Eckhart) ovviamente procede per negazioni. Nel sermone "Unus Deus et Pater omnium" afferma: «San Paolo dice "Un Dio". Uno è qualcosa di più puro della bontà e della verità. Bontà e verità non aggiungono niente, esse aggiungono nel pensiero. L'Uno, invece, non aggiunge nulla, là dove è in se stesso. Se dico che Dio è buono, qualcosa gli si aggiunge. L'Uno, invece, è una negazione della negazione ed una privazione della privazione. L'anima coglie la divinità, come essa è pura in sé, dove niente le è aggiunto, niente pensato. Nel fatto di negare qualcosa a Dio, io concepisco qualcosa che gli non è; e proprio questo deve sparire. Dio è Uno, è una negazione della negazione.

    In conclusione si può affermare che la teologia apofatica è una costante del pensiero cristiano. 

     

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    TEOLOGIA SPIRITUALE

    Chiamata anche ascetica, mistica, teologia della perfezione, è definita come quella parte della Teologia che, basandosi sui principi della rivelazione divina e sull'esperienza di santi, studia l'organismo della vita soprannaturale, spiega le leggi del suo progresso e del suo sviluppo, e descrive il processo che seguono le anime dagli inizi della vita cristiana fino al vertice della perfezione.

     

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    UNIONE TRASFORMATIVA

    Scrive A.Tanquerey che dopo tante purificazioni, l'anima giunge finalmente a quell'unione calma e durevole che è detta unione trasformativa e che pare l'ultimo termine dell'unione mistica e preparazione immediata alla visione beatifica. principali caratteri sono: l'intimità, la serenità, l'indissolubilità.

    1. L'intimità. Perché più intima delle altre, quest'unione si chiama anche matrimonio spirituale; tra sposi non v'è segreto: è fusione di due vite in una sola. E tale è l'unione che corre tra l'anima e Dio; S.Teresa la spiega con un paragone: "È come l'acqua del cielo che cade nell'acqua d'un fiume... e che con lei talmente si confonde da non poterle più dividere né distinguere quale sia l'acqua piovana e quella del fiume".

    2. La serenità. In questo stato non più estasi né rapimenti o almeno diventano molto rari; quelli erano svenimenti e deliqui, che sono ormai quasi interamente scomparsi, per far posto a quello stato dell'anima dolce e calmo in cui vivono gli sposi sicuri ormai del loro mutuo amore.

    3. L'indissolubilità. Le altre unioni erano passeggere, questa invece diventa di natura sua permanente come è del matrimonio cristiano. 

    Unione così intima e così profonda non può che produrre mirabili effetti di santificazione; effetti che si compendiano in una sola parola: l'anima è talmente trasformata in Dio che, dimentica di sé, non si dà più pensiero che di Dio e della sua gloria. Quindi:

    A. Un santo abbandono nelle mani di Dio, tanto che l'anima è sommamente indifferente a tutto ciò che non è Dio; nell'unione estatica desiderava la morte per unirsi al suo Diletto, ora è indifferente alla vita o alla morte, purché Dio sia glorificato. Ogni suo pensiero è di piacergli sempre più, di trovare occasioni e mezzi per dimostrargli l'amore che gli porta. Qui tende tutta la sua orazione; a ciò serve questo matrimonio spirituale: che nascano sempre opere, opere.

    B. Un grande desiderio di patire, ma senza inquietudine, in perfetta conformità con la volontà di Dio. Se egli vuole che patiscano, bene; se no, non se ne affliggono. Hanno parimenti queste anime un grande godimento interno quando sono perseguitate, con assai maggior pace di quello che s'è detto, e senza risentimenti alcuni contro coloro che fanno loro del male e gliene vorrebbero fare. Anzi li amano di particolare affetto.

    C. Assenza di desideri e di pene interiori: i desideri di queste anime non sono più di carezze o di consolazioni. Hanno un costante desiderio di starsene solitarie od occuparsi di cose che siano di giovamento al prossimo. Non patiscono aridità né pene interiori, ma stanno sempre teneramente occupate di Nostro Signore e non vorrebbero mai far altro che lodarlo.

    D. Assenza di rapimenti: arrivando qui l'anima, vengono meno tutti i rapimenti (s'intende quanto al perdere i sensi), ad eccezione di rare volte, né soggiace più a quelle estasi e a quei voli dello spirito, se non molto di rado né quasi mai in pubblico, cosa prima molto ordinaria. Pace dunque e serenità perfetta. In questo tempo di Dio, in questa mansione sua, solo Lui e l'anima dolcemente si godono l'un l'altro in altissimo silenzio.

    E. Uno zelo ardente, ma circospetto, per la santificazione delle anime: non basta restare in questo dolce riposo, bisogna operare, darsi all'azione, soffrire, farsi lo schiavo di Dio e del prossimo, lavorare a progredire nelle virtù, massime nell'umiltà, perché il non andare avanti è un tornare indietro. Fare nello stesso tempo l'ufficio di Maria e di Marta: qui sta la perfezione. Si può far del bene alle anime senza uscire dal chiostro; e senza pensare a giovare a tutto il mondo, si può far del bene a quelli con cui si vive. E l'opera sarà tanto maggiore perché siete loro più obbligate. Pensate che sia poco guadagno se con profonda umiltà, con spirito di mortificazione e di sacrificio, con tenera carità per le sorelle, con l'amore grande a Nostro Signore, le infiammerete tutte di questo fuoco celeste e con le altre virtù le verrete sempre più stimolando? Farete molto e renderete assai grato servizio a Nostro Signore. Ma soprattutto bisogna fare queste cose per amore. Il Signore non guarda tanto alla grandezza delle opere quanto all'amore con cui si fanno.

     

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    VIRTÙ INFUSE

    Sono abiti operativi infusi da Dio nelle potenze dell'anima per disporle ad operare secondo il dettame della ragione illuminata dalla fede. Per abito operativo, si intende una qualità stabile del soggetto che lo dispone ad operare in modo facile e pronto.  

     

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    VIRTÙ DELLA CARITÀ

    La carità è una virtù teologale infusa da Dio nella volontà per cui amiamo Dio per se stesso sopra tutte le cose e noi e il prossimo per amore di Dio. L'oggetto materiale della carità è anzitutto Dio e poi noi stessi e tutte le creature razionali che possono giungere all'eterna beatitudine. L'amore è l'atto principale della carità. Secondo S.Tommaso:

  • è proprio della carità amare più che l'essere amato;

  • l'amore suppone la benevolenza verso l'amico, ma include anche l'unione affettiva; la benevolenza è il principio dell'amicizia;

  • Dio è infinitamente amabile per se stesso e la carità lo ama in quanto tale, senza nessuna subordinazione ad altro fine;

  • possiamo amare Dio in una maniera immediata anche in questa vita;

  • Dio non può essere amato dalle creature tanto quanto merita, cioè infinitamente, ma possiamo e dobbiamo amarlo totalmente e con tutto il nostro essere, ordinando noi stessi e tutte le cose a lui;

  • nell'amore di Dio non ci può essere misura in senso oggettivo, poiché egli è amabile per se stesso. Però tale misura deve esistere necessariamente da parte nostra in relazione alle manifestazioni esterne che non possono essere continue, perché nella nostra vita dobbiamo compiere certe azioni che sospendono l'esercizio attuale della carità.

     

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  • VIRTÙ DELLA FEDE

    La fede è una virtù teologale infusa da Dio nell'intelletto mediante la quale diamo il fermo assenso alle verità divinamente rivelate per l'autorità o la testimonianza di Dio stesso che le rivela. L'assenso alle verità della fede è di per sé fermissimo e certissimo perché fondato sull'autorità stessa di Dio che rivela. Ma poiché le verità rivelate rimangono per noi oscure, non evidenti, deve intervenire la volontà, mossa dalla grazia, per imporre all'intelletto quell'assenso fermo basato sull'infallibile autorità di Dio. In questo senso, l'atto di fede è libero, soprannaturale e meritorio. La fede rimane incompatibile con la visione intellettuale o sensibile. Per sé si riferisce a cose che non si vedono. Perciò in cielo la fede sarà sostituita dalla visione di Dio faccia a faccia.

    La fede è l'inizio, il fondamento e la radice della giustificazione. È l'inizio perché stabilisce il primo contatto fra noi e Dio in quanto autore dell'ordine soprannaturale. È il fondamento perché tutte le altre virtù (compresa la carità) presuppongono la fede: senza la fede è impossibile sperare o amare. È la radice perché da essa, informata dalla carità, derivano tutte le altre.

    Fra i peccati contro la fede si annoverano: 1) l'infedeltà; 2) l'eresia, che nega qualche dogma rivelato o dubita volontariamente di esso; 3) l'apostasia, che è l'abbandono totale della fede cristiana ricevuta nel battesimo; 4) la bestemmia; 5) l'accecamento del cuore che si oppone al dono dell'intelletto. 

     

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    VIRTÙ DELLA FORTEZZA

    Si tratta di una virtù cardinale infusa con la grazia santificante che spinge l'appetito irascibile e la volontà a non desistere dal conseguire il bene arduo o difficile neppure quando è in pericolo la vita corporale. Fra le parti integranti e potenziali distinguiamo:

         1) la magnanimità: è la virtù che inclina ad intraprendere opere grandi, splendide e degne di onore in ogni genere di virtù. Ad essa si oppongono quattro vizi, per eccesso o per difetto: 

         a) la presunzione, che inclina ad intraprende cose superiori alle nostre forze; 

         b) l'ambizione, che ci spinge a procurarci onori non dovuti al nostro stato e ai nostri meriti; 

         c) la vanagloria, che cerca fama senza i meriti su cui fondarla o senza ordinarla al suo vero fine che rimane la gloria di Dio; 

         d) la pusillanimità, che è il peccato di coloro che per eccessiva sfiducia in se stessi o per un'umiltà malintesa non fanno fruttificare tutti i talenti che hanno ricevuto da Dio;

         2) la magnificenza: è la virtù che inclina ad intraprende opere splendide e difficili da eseguire senza indietreggiare dinanzi alla grandezza del lavoro o delle spese che sarà necessario sostenere. Si distingue dalla magnanimità perché essa si riferisce alle grandi opere fattibili come la costruzione di ospedali, templi, etc. Ad essa si oppongono due vizi, per difetto e per eccesso:

         a) la taccagneria o meschinità;

         b) lo sperpero.

         3) la pazienza: è la virtù che inclina a sopportare senza tristezza ed abbattimento le sofferenze fisiche e morali. Si tratta di una virtù tra le più necessarie alla vita cristiana perché, essendo innumerevoli le sofferenze che tutti dobbiamo sopportare in questa vita, abbiamo bisogno di questa virtù per non lasciarci abbattere dallo scoraggiamento. Due vizi si oppongono:

         a) l'impazienza, che si manifesta all'esterno con ira, lamentele, mormorazioni e recriminazioni;

         b) l'insensibilità o durezza di cuore, che per mancanza di sentimento umano o sociale, non si commuove né si impressiona dinanzi alle calamità proprie ed altrui.

         4) la longanimità: è una virtù che ci anima a tendere verso qualche bene molto distante da noi, il conseguimento del quale ci farà attendere molto tempo.

         5) la perseveranza: è una virtù che inclina a persistere nell'esercizio del bene nonostante la molestia che la sua lunghezza ci causa;

         6) la costanza: è una virtù intimamente legata alla perseveranza, dalla quale si distingue; infatti, mentre è proprio della perseveranza irrobustire l'anima contro la difficoltà di mantenersi a lungo nella via del bene, è proprio della costanza fortificare l'anima contro le difficoltà che provengono da qualsiasi altro impedimento esteriore. A tale virtù si oppongono i seguenti vizi:

         a) l'incostanza (o mollezza), la quale inclina a desistere facilmente dalla pratica del bene al sorgere delle prime difficoltà;

         b) la pertinacia (o testardaggine), per cui ci si ostina a non cedere quando sarebbe ragionevole farlo.

     

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    VIRTÙ DELLA GIUSTIZIA

    La virtù della giustizia è un abito soprannaturale che inclina in modo costante e perpetuo la volontà a dare a ciascuno ciò che strettamente gli appartiene. La giustizia ha un'importanza fondamentale sia nell'ordine individuale che in quello sociale. Essa pone ordine e perfezione nelle nostre relazioni con Dio e con il prossimo; fa' sì che rispettiamo a vicenda i nostri diritti; proibisce la frode e l'inganno.

    Fra le parti integranti ne troviamo due:

         1) Evitare il male nocivo al prossimo e alla società (declinare a malo);

         2) Fare il bene dovuto ad altri (facere bonum).

     

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    VIRTÙ DELLA PIETÀ

    La virtù della pietà, derivata dalla giustizia, è un abito soprannaturale che ci inclina a tributare ai genitori, alla patria e a tutti coloro che stanno in relazione con essi l'onore e il servizio dovuto. Mentre la virtù della pietà si fonda nell'unione che risulta dalla stirpe familiare comune, la carità verso il prossimo si fonda nei legami che uniscono a Dio tutto il genere umano. Alla pietà familiare si oppone, per eccesso, l'amore esagerato ai parenti che induce a trascurare obblighi più gravi di quelli loro dovuti e, per difetto, l'empietà familiare che trascura i doveri di onore, riverenza, aiuto economico o spirituale, etc., pur potendoli adempire.

     

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    VIRTÙ DELLA PRUDENZA

    La prudenza è una virtù cardinale, infusa da Dio nell'intelletto pratico, per il retto governo delle nostre azioni particolari in ordine al fine soprannaturale. L'atto proprio della virtù della prudenza è quello di dettare, cioè intimare o comandare come si deve agire in concreto, hic et nunc tenendo conto di tutte le circostanze, dopo matura riflessione e consiglio. Ogni virtù cardinale è costituita da parti integranti, da parti soggettive (se è per governare se stessi o gli altri) e potenziali (che riguardano gli atti preparatori, come il buon consiglio, senso pratico).

    Ci limitiamo a dare un cenno delle parti integranti, che contribuiscono al perfetto esercizio della prudenza:

  • Memoria del passato: il ricordo dei passati successi o insuccessi orienta saggiamente sul da farsi;

  • Intelligenza del presente: per saper discernere se quello che ci proponiamo di fare sia buono o cattivo, lecito o illecito, conveniente o meno;

  • Docilità: per chiedere ed accettare il consiglio di altri, più sapienti di noi;

  • Sagacità: definita talora come solerzia ed eustochia, è la prontezza di spirito per risolvere da sé i casi più urgenti, per i quali non sia possibile chiedere immediatamente consiglio agli altri;

  • Ragione: conduce l'uomo a prendere da sé la risoluzione nei casi ordinari in cui ci sia tempo per una matura riflessione ed esame;

  • Provvidenza: derivata da procul videre (= vedere lontano), consiste nel riflettere bene al fine cui si tende, ordinare ad esso i mezzi opportuni, prevedere le conseguenze che possono derivare dall'agire in un modo o nell'altro;

  • Circospezione: è l'attenta considerazione delle circostanze, per giudicare se sia conveniente o meno compiere un determinato atto. Molti atti sono buoni e conveniente in se stessi per il fine cui mirano, ma in certe circostanze sarebbero dannosi o controproducenti;

  • Cautela o precauzione: contro gli impedimenti estrinseci che potrebbero costituire un ostacolo o compromettere l'esito di ciò che intendiamo compiere.

     

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    VIRTÙ DELLA RELIGIONE

    La virtù della religione è una virtù morale che inclina l'uomo a dare a Dio il culto che gli è dovuto come primo principio di tutte le cose. Si tratta della più importante virtù che derivano dalla giustizia. La virtù della religione si manifesta in alcuni atti interni ed esterni. Gli atti interni sono due: la devozione e la preghiera. Gli atti esterni sono sette: l'adorazione, il sacrificio, le offerte (oblazioni), il voto, il giuramento, lo scongiuro, l'invocazione del nome di Dio. Esaminiamole:

  • Devozione: consiste in una prontezza d'animo del darsi alle cose che appartengono al servizio di Dio; essa si fonda sulla volontà;

  • Preghiera: appartiene all'intelletto;

  • Adorazione: è un atto esterno della virtù della religione con cui testimoniamo l'onore e la riverenza che merita l'eccellenza divina;

  • Sacrificio: consiste nell'oblazione esterna di una cosa sensibile, con la sua reale mutazione o distruzione, realizzata dal sacerdote in onore a Dio, per testimoniare il suo supremo dominio e la nostra umile sottomissione davanti a lui;

  • Offerte (oblazioni): in genere è la donazione spontanea di una cosa. In senso religioso è la spontanea donazione di una cosa per il culto divino.

  • Voto: è la promessa deliberata e libera fatta a Dio di un bene possibile e migliore;

  • Giuramento: è l'invocazione del nome di Dio a testimonianza della verità e non può essere prestato se non secondo verità, prudenza e giustizia;

  • Scongiuro: è un atto di religione che consiste nell'invocazione del nome di Dio o di qualunque cosa sacra per indurre altri a compiere qualcosa o a desistere da qualche proposito;

  • Invocazione del nome di Dio: consiste principalmente nella lode esterna (come manifestazione del fervore interno) del santo nome di Dio nel culto pubblico o privato. Contrario a questo atto è l'invocazione del nome di Dio invano.

     

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    VIRTÙ DELLA SPERANZA

    La speranza è una virtù teologale infusa da Dio nella volontà, per cui confidiamo con certezza di ottenere la vita eterna e i mezzi necessari per giungervi con l'aiuto di Dio. La speranza risiede nella volontà in quanto il suo atto proprio è un movimento dell'appetito razionale.

     

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    VIRTÙ DELLA TEMPERANZA

    La temperanza è una virtù cardinale di natura soprannaturale, che modera l'inclinazione ai piaceri sensibili, specialmente del tatto e del gusto (gola e lussuria), contenendola entro i limiti della ragione illuminata dalla fede. Fra le parti integranti, soggettive e potenziali ricordiamo:

  • la vergogna: non si tratta di una virtù, ma una certa passione lodevole che ci fa temere l'obbrobrio e la confusione che deriva dal peccato turpe;

  • l'onestà: è l'amore al decoro che proviene dalla pratiche delle virtù;

  • l'astinenza: ci inclina ad usare moderatamente degli alimenti corporali secondo il dettame della retta ragione illuminata dalla fede; atto proprio della virtù dell'astinenza è il digiuno;

  • la sobrietà: in generale significa la moderazione o la temperanza in qualsiasi cosa, ma in senso stretto è una virtù speciale che ha lo scopo di moderare, d'accordo con la ragione illuminata dalla fede, l'uso delle bevande inebrianti;

  • la castità: è la virtù soprannaturale che modera l'appetito sessuale. Si tratta di una virtù angelica, perché rende l'uomo simile agli angeli, ma è delicata e difficile: si giunge a praticarla con perfezione solo a prezzo di una continua vigilanza e severa austerità;

  • la verginità: è una virtù speciale distinta e più perfetta della castità, che consiste nel fermo proposito di conservare perpetuamente l'integrità della carne. Perché abbia perfetta ragione di virtù deve essere ratificata da un voto;

  • la continenza: è una virtù che irrobustisce la volontà perché resista alle concupiscenze disordinate molto veementi. Risiede della volontà ed è per se stessa imperfetta poiché non induce a realizzare  un'opera positivamente buona, ma si limita ad impedire il male, assoggettando la volontà affinché non si lasci trasportare dall'impeto della passione;

  • la mansuetudine: è una virtù speciale che ha lo scopo di moderare l'ira secondo la retta ragione. La materia propria di questa virtù è la passione dell'ira, che essa rettifica e modera in modo che sorga solo quando è necessaria e nella misura necessaria;

  • la clemenza: è una virtù che inclina il superiore a mitigare, secondo il retto ordine della ragione, la pena o il castigo dovuto al colpevole. Procede da una dolcezza d'animo che ci fa aborrire tutto quello che può contristare un altro;

  • la modestia: è una virtù che deriva dalla temperanza la quale inclina l'uomo a comportarsi nei moti interno ed esterni e nell'apparato esteriore delle sue cose dentro i giusti limiti che corrispondono al suo stato, al suo ingegno e alla sua fortuna.

     

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    VIRTÙ DELL'OSSERVANZA

    Si tratta di una parte potenziale della giustizia che ha lo scopo di regolare le relazioni degli inferiori verso i superiori. È la virtù per cui prestiamo culto e venerazione alle persone che hanno qualche dignità. L'osservanza si distingue in due specie:

         a) la dulia: consiste nella riverenza che il servo deve al suo padrone. In senso largo significa l'onore dovuto a qualsiasi persona costituita in dignità e, in senso ecclesiastico, il culto e la venerazione che si deve ai santi in cielo o alla Vergine Maria (iperdulia) o a san Giuseppe (protodulia);

         b) l'obbedienza: è una virtù morale che rende la volontà pronta ad eseguire i precetti dei superiori. Con la parola precetto non si intende solo il comando rigorosa che obbliga sotto pena di colpa grave, ma anche la semplice volontà del superiore, manifestata all'esterno in modo espresso o tacito. Fra i gradi dell'obbedienza troviamo: 1) la semplice esecuzione esterna; 2) la sottomissione interna della volontà; 3) la sincera sottomissione del giudizio interno.

     

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    VIRTÙ DELL'UMILTÀ

    L'umiltà è una virtù che deriva dalla temperanza la quale ci inclina a frenare il disordinato appetito della propria eccellenza, dandoci la giusta conoscenza della nostra piccolezza e miseria principalmente in relazione a Dio. Fra le varie classificazioni dell'umiltà (gradi) citiamo quella di Benedetto da Norcia, come scritto nella sua Regola (capitolo VII):

  • Il primo gradino dell’umiltà è quello in cui l’uomo, con la visione continua della presenza di Dio dinanzi agli occhi, ispirato dal suo timore, fugge del tutto la smemoratezza, e ricorda sempre i precetti di Dio, e ripensa dentro di sé perennemente come l’inferno bruci per i loro peccati i dispregiatori di Dio, e come la vita eterna sia preparata per quelli che lo temono; e custodendosi sempre dai peccati e dai vizi, cioè dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi, della propria volontà, nonché dalle inclinazioni della natura corrotta, riflette che Dio sempre e senza posa lo guarda dal cielo, e che le sue azioni in ogni luogo sono vedute dall’occhio divino e riferite dagli Angeli ad ogni momento;

  • Il secondo gradino dell’umiltà si ha quando uno, non amando la volontà propria, non si compiace di soddisfare ai suoi desideri, ma imita il Signore mettendo in pratica quel suo detto: Non son venuto a fare la volontà mia, ma di Colui che mi ha mandato. Similmente la Scrittura dice: La propria volontà merita la pena, l’imposizione procura la corona.

  • Il terzo gradino dell’umiltà è quello per cui uno con perfetta obbedienza si sottomette per amor di Dio al superiore, imitando il Signore di cui dice l’Apostolo: Fattosi obbediente fino alla morte.

  • Il quarto gradino dell’umiltà è quello del monaco che nell’esercizio dell’obbedienza, pur se riceve ordini difficili o ripugnanti, o anche qualunque specie di ingiurie, sa nel silenzio abbracciare volentieri la sofferenza, e sopportando pazientemente non si perde d’animo né indietreggia, poiché la Scrittura avverte: Chi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo. Così pure: Il tuo cuore sia forte e sappi sostenere la prova del Signore. E per dimostrare che il servo fedele deve per il Signore tollerare anche qualunque contrarietà, dice ancora la Scrittura nella persona di quelli che soffrono: Per Te siamo ridotti ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da macello. E sicuri per la speranza della ricompensa di Dio, proseguono con gioia e dicono: Ma in tutto ciò noi vinciamo per Colui che ci ha amati. Similmente la Scrittura in altro luogo: Ci hai provati, Signore; ci hai sperimentati col fuoco, come col fuoco si sperimenta l’argento; ci hai tratti nel laccio, hai aggravato di tribolazioni il dorso nostro. E per in dicare che dobbiamo sottostare a un superiore aggiunge: Hai posto degli uomini sul nostro capo. E osservando il precetto del Signore con la pazienza nelle avversità e nelle ingiurie, percossi in una guancia porgono l’altra, a chi toglie loro la tunica lasciano anche il mantello, costretti a fare un miglio di strada ne fanno due, e con l’Apostolo Paolo tollerano i falsi fratelli e benedicono chi li maledice.

  • Il quinto gradino dell’umiltà si ha quando tutti i pensieri cattivi che si affacciano alla mente e i peccati commessi nel segreto, il monaco li svela con umile confessione al suo abate, secondo l’esortazione della Scrittura: Manifesta al Signore la tua via e spera in Lui. Similmente dice: Aprite l’animo vostro al Signore, perché Egli è buono, perché eterna è la sua misericordia. Così pure il Profeta: Il mio peccato te l’ho reso noto, e non ho nascosto le mie colpe; ho detto: paleserò contro di me le mie mancanze al Signore, e Tu hai perdonato l’empietà del mio cuore.

  • Il sesto gradino dell’umiltà consiste in ciò, che il monaco si contenta delle cose più vili e spregevoli, e a tutto quello che gli venga imposto si giudica inetto ed indegno operaio,  appropriandosi il detto del Profeta: Mi sono ridotto a nulla e sono divenuto uno stolto; mi sono fatto dinanzi a Te come una bestia da soma, ma sono sempre con Te.

  • Il settimo gradino dell’umiltà è quello del monaco che non solo con la lingua si professa più indegno e spregevole di tutti, ma ne è convinto anche nell’intimo del cuore, umiliandosi e dicendo col Profeta: Io poi sono un verme e non un uomo; obbrobrio degli uomini e rifiuto della gente. Sono stato esaltato, e poi umiliato e confuso. E similmente: Buon per me che mi hai umiliato, perché io impari la tua legge.

  • L’ottavo gradino dell’umiltà è di quel monaco che non fa se non ciò che è suggerito dalla regola comune del monastero o dall’esempio dei maggiori.

  • Il nono gradino dell’umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua, osservando il silenzio, e tace finché non è interrogato; perché nel molto parlare non si sfugge al peccato e che l’uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra.

  • Il decimo gradino dell’umiltà si ha quando uno non è facile e pronto al ridere, perché è scritto: Lo stolto nel ridere alza la sua voce.

  • L’undicesimo gradino dell’umiltà è quello del monaco che, quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con umiltà e compostezza, e dice poche ed assennate parole, e non fa chiasso con la voce come sta scritto: Alle poche parole si conosce il saggio.

  • Il dodicesimo gradino dell’umiltà si ha se il monaco non solo coltiva l’umiltà nel cuore, mostra anche con l’atteggiamento esterno a quelli che lo vedono; cioè nell’Ufficio divino, in chiesa, nell’interno del monastero, nell’orto, per via, nei campi, dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha sempre il capo chino e gli occhi fissi a terra; e pensando sempre ai peccati di cui è reo, fa conto di essere già per presentarsi al tremendo giudizio di Dio, ripetendo sempre a se stesso internamente ciò che disse, con gli occhi bassi verso terra, il pubblicano dell’Evangelo: Signore, non son degno io peccatore di levare gli occhi miei al cielo; come anche col Profeta: Mi sono sempre curvato e umiliato.

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    Sintesi dei dodici gradini (tratto da: https://abbaziamontecassino.it/carisma/la-regola-di-san-benedetto/regola-di-san-benedetto-capitolo-7-lumilta/):

     

    1. Mai perdere la visione di Dio o cadere nella smemoratezza.
    2. Mai agire secondo la propria volontà o compiacersi nel soddisfare i propri desideri; si deve seguire la volontà di Dio.
    3. Sottomettersi con perfetta obbedienza a Dio e ai suoi superiori.
    4. Di fronte a difficoltà ed ingiustizie, si deve abbracciare la sofferenza.
    5. Non nascondere pensieri o azioni peccaminose, ma confessarle umilmente.
    6. Accettare se stessi come inetti operai pieni di colpe.
    7. Ammettere ed accettare di essere inferiori e con meno valore per poter seguire Dio.
    8. Un bravo monaco segue le regole del monastero ed il suo esempio superiore.
    9. Evitare di parlare, mantenendo il silenzio, salvo che non venga chiesto di parlare.
    10. Evitare di ridere in quanto, ridendo facilmente, si è considerati sciocchi.
    11. Quando si ha la necessità di parlare, farlo umilmente, silenziosamente, ragionevolmente e rispettosamente.
    12. L’umiltà dovrebbe brillare dentro e dal cuore manifestarsi a tutti col proprio comportamento.

     

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