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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di Antonello Lotti

 

La mistica nell'Oriente cristiano

 

Andrej Rublëv, Icona della Trinità, XV sec.

Andrej Rublëv, Icona della Trinità, XV sec.

 

 

«Il silenzio di un uomo divenuto libero è luce esso stesso. Il minimo movimento del suo cuore è come una voce che canta per l'invisibile, silenziosa e segreta.»
(S. Isacco il Siro, Sent. 35)

 

 

Indice

 

 

Bibliografia

 

Si segnalano le principali opere consultate:

  • Tomáš Špidlík, La preghiera secondo la tradizione dell'Oriente cristiano, Lipa, Roma 2002

  • Pàvel Nikolàjevič Evdokìmov, La conoscenza di Dio secondo la tradizione orientale, Edizioni Paoline, Roma 1983

  • Pàvel Nikolàjevič Evdokìmov, Teologia della bellezza. L'arte dell'icona, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990

  • Marcello Brunini, La preghiera del cuore nella spiritualità dell'oriente cristiano, Edizioni Messaggero, Padova 1997

  • Constantin Andronikov, Dogma e mistica nella tradizione ortodossa, in Jean-Marie Van Cangh (cur.), La mistica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1992, pp.143-164

  • Gregorio Palamas, Atto e luce divina. Scritti filosofici e teologici, cur. Ettore Perrella, Bompiani, Milano 2003

 

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Introduzione

 

Scrive Daniel Ange (Dalla Trinità all'Eucaristia, Ancora, Milano 1999, p.113):

«Il luogo sul quale tu stai è terra santa. Viene il giorno in cui tu griderai: "In verità il Signore è qui ed io non lo sapevo. Quanto è terribile questo luogo: dimora di Dio e porta del cielo". Tu vorresti velarti il volto, per paura che il tuo sguardo incontri un Altro Sguardo. "Ecco che io faccio una cosa nuova. Già, essa si è realizzata. Non te ne accorgi?". Eccolo, questo mondo nuovo. Offerto per la tua gioia. Entra, ora. La porta è aperta!»

Daniel Ange conduce, in quel suo libro, in un pellegrinaggio al santuario interiore del cuore, cercando di scoprire il senso dell'icona.  È scritto nella Prefazione che «scoprire un'icona è, prima d'ogni altra cosa, far nascere una corrispondenza interiore, senza la quale è impossibile la visione: corrispondenza tra l'icona, che si offre alla nostra attenzione e ci stimola, e l'icona interiore, che a sua volta vive nel più profondo dell'essere e si forma a poco a poco in noi come la più segreta e vivente presenza».

Parlare dell'icona significa parlare di quel mondo orientale che ha creato una teologia dell'icona, o meglio, come direbbe Evdokìmov, una teologia della bellezza, perché 

«ciò che è bello è la presenza di Dio tra gli uomini; essa rapisce gli animi e li trasporta. S.Germano, patriarca di Costantinopoli, diceva che con il Cristo tutto il cielo è disceso sulla terra e che l'anima cristiana è presa per sempre da questa visione. I più grandi tra i Padri orientali sono dei poeti-veggenti e la loro teologia è contemplativa. "Teologo è colui che sa pregare", dicevano Evagrio e Gregorio di Nissa: teologo è colui che traduce in termini teologici l'esperienza liturgica di Dio, al sua comunione vissuta. Per Dionigi lo Pseudo Areopagita, la Bellezza è uno dei nomi di Dio posto in relazione con l'essere umano in un rapporto di conformazione perché "l'uomo è creato secondo il modello eterno, l'Archetipo della Bellezza". Sul piano delle strutture archetipe, la creazione del mondo contiene in germe la sua ultima vocazione e determina il destino dell'uomo: "Dio ci concede di partecipare alla sua propria Bellezza". I Padri assumono questa prospettiva e tracciano così il fondamento di una penetrante teologia della Bellezza» (op.cit., pp.36-37)

Su questa linea, si presenta una visione mistica del mondo cristiano orientale che ha delle coordinate ben precise. L'importanza di tale apporto alla cultura e alla teologia occidentale è sicuramente importante, oltre che affascinante. Infatti, il 2 maggio 1995, Giovanni Paolo II pubblica la Lettera Apostolica "Orientale lumen" che costituisce, secondo il titolo completo, un "appello all'unità con le Chiese orientali nel centenario della Orientalium dignitas di papa Leone XIII". Al fine di meglio definire il senso di questa pagina, verrà esposta di seguito una sintesi della Lettera.

Oltre alla sintesi, verranno esposti i caratteri principali della spiritualità dell'Oriente cristiano, la questione mistica e una piccola introduzione alla preghiera contemplativa (esicasmo).

 

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Sintesi della lettera "Orientale lumen"

 

  1. La luce dell'Oriente ha illuminato la Chiesa universale, sin da quando è apparso su di noi «un sole che sorge» (Lc 1, 78), Gesù Cristo, nostro Signore, che tutti i cristiani invocano quale Redentore dell'uomo e speranza del mondo. Poiché crediamo che la venerabile e antica tradizione delle Chiese orientali sia parte integrante del patrimonio della Chiesa di Cristo, la prima necessità per i cattolici è di conoscerla per potersene nutrire e favorire, nel modo possibile a ciascuno, il processo dell'unità.

  2. Lasciandoci interpellare dalle domande del mondo, ascoltandole con umiltà e tenerezza, in piena solidarietà con chi le esprime, noi siamo chiamati a mostrare con parole e gesti di oggi le immense ricchezze che le nostre Chiese conservano nei forzieri delle loro tradizioni. La tradizione orientale cristiana implica un modo di accogliere, di comprendere e di vivere la fede nel Signore Gesù. «È noto a tutti con quanto amore i cristiani orientali compiono le sacre azioni liturgiche, soprattutto la celebrazione eucaristica, fonte della vita della Chiesa e pegno della gloria futura, con la quale i fedeli uniti col Vescovo hanno accesso a Dio Padre per mezzo del Figlio, verbo incarnato, morto e glorificato, nell'effusione dello Spirito Santo, ed entrano in comunione con la santissima Trinità, fatti "partecipi della natura divina" (2Pt 1,4)». In questi tratti (il Concilio Vaticano II) delinea la visione orientale del cristiano, il cui fine è la partecipazione alla natura divina mediante la comunione al mistero della santa Trinità. 

  3. La partecipazione alla vita trinitaria si realizza attraverso la liturgia e in modo particolare l'Eucaristia, mistero di comunione con il corpo glorificato di Cristo, seme di immortalità. Nella divinizzazione e soprattutto nei sacramenti la teologia orientale attribuisce un ruolo tutto particolare allo Spirito Santo: per la potenza dello Spirito che dimora nell'uomo la deificazione comincia già sulla terra, la creatura è trasfigurata e il regno di Dio è inaugurato. In questo cammino di divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l'impegno nella via del bene ha reso «somigliantissimi» al Cristo: i martiri e i santi. E tra questi un posto tutto particolare occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il Virgulto di Jesse (cfr. Is 11,1). La sua figura è non solo la Madre che ci attende ma la Purissima che - realizzazione di tante prefigurazioni veterotestamentarie - è icona della Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla grazia, modello e sicura speranza per quanti muovono i loro passi verso la Gerusalemme del cielo.

  4. Pur accentuando fortemente il realismo trinitario e la sua implicazione nella vita sacramentale, l'Oriente associa la fede nell'unità della natura divina alla inconoscibilità della divina essenza. I Padri orientali affermano sempre che è impossibile sapere ciò che Dio è; si può solo sapere che Egli è, poiché si è rivelato nella storia della salvezza come Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo senso della indicibile realtà divina si riflette nella celebrazione liturgica, dove il senso del mistero è colto così fortemente da parte di tutti i fedeli. 

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  5. La Tradizione è patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del Risorto incontrato e testimoniato dagli Apostoli che ne hanno trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in una linea ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica, attraverso l'imposizione delle mani, fino ai Vescovi di oggi. Essa si articola nel patrimonio storico e culturale di ciascuna Chiesa, plasmato in essa dalla testimonianza dei martiri, dei padri e dei santi, nonché dalla fede viva di tutti i cristiani lungo i secoli fino ai nostri giorni. Si tratta non di una ripetizione immutata di formule, ma di un patrimonio che custodisce il vivo nucleo kerygmatico originario. Solo una religiosa assimilazione, nell'obbedienza della fede, di ciò che la Chiesa chiama «Tradizione» consentirà a questa di incarnarsi nelle diverse situazioni e condizioni storico-culturali. 

  6. In Oriente il monachesimo ha conservato una grande unità. Inoltre non è stato visto soltanto come una condizione a parte, propria di una categoria di cristiani, ma particolarmente come punto di riferimento per tutti i battezzati, nella misura dei doni offerti a ciascuno dal Signore, proponendosi come una sintesi emblematica del cristianesimo. Il monachesimo rivela che la vita è sospesa tra due vertici: la Parola di Dio e l'Eucaristia. Ciò significa che esso è sempre, anche nelle forme eremitiche, al contempo risposta personale a una chiamata individuale ed evento ecclesiale e comunitario. È la Parola di Dio il punto di partenza del monaco, una Parola che chiama, che invita, che personalmente interpella, come accadde agli Apostoli. Quando una persona è raggiunta dalla Parola, nasce l'obbedienza, cioè l'ascolto che cambia la vita. Ogni giorno il monaco si nutre del pane della Parola. Privato di esso egli è come morto, e non ha più nulla da comunicare ai fratelli, perché la Parola è Cristo, al quale il monaco è chiamato a conformarsi.

  7. Al culmine di questa esperienza sta l'Eucaristia, l'altro vertice indissolubilmente legato alla Parola, in quanto luogo nel quale la Parola si fa Carne e Sangue, esperienza celeste ove essa torna a farsi evento. Nell'Eucaristia si svela la natura profonda della Chiesa, comunità dei convocati alla sinassi (= assemblea dei fedeli riuniti) per celebrare il dono di Colui che è offerente ed offerta: essi, partecipando ai santi Misteri, divengono «consanguinei» di Cristo, anticipando l'esperienza della divinizzazione nell'ormai inseparabile vincolo che lega in Cristo divinità e umanità. Ma l'Eucaristia è anche ciò che anticipa l'appartenenza di uomini e cose alla Gerusalemme celeste. Essa svela così compiutamente la sua natura escatologica: come segno vivente di tale attesa, il monaco prosegue e porta a pienezza nella liturgia l'invocazione della Chiesa, la Sposa che supplica il ritorno allo Sposo in un «marana tha» continuamente ripetuto non solo a parole, ma con l'intera esistenza. Nell'esperienza liturgica, Cristo Signore è la luce che illumina il cammino e svela la trasparenza del cosmo, proprio come nella Scrittura. Gli avvenimenti del passato trovano in Cristo significato e pienezza e il creato si rivela per ciò che è: un insieme di tratti che solo nella liturgia trovano la loro compiutezza, la loro piena destinazione. 

  8. Il percorso del monaco non è scandito in genere unicamente da uno sforzo personale, ma fa riferimento ad un padre spirituale, al quale si abbandona con fiducia filiale nella certezza che in lui si manifesta la tenera ed esigente paternità di Dio. Per l'opera del padre spirituale il cammino di ogni monaco è fortemente personalizzato nei tempi, nei ritmi, nei modi della ricerca di Dio. L'Oriente insegna che ci sono fratelli e sorelle ai quali lo Spirito ha elargito il dono della guida spirituale: essi sono punti di riferimento preziosi, perché guardano con l'occhio di amore che Dio tiene su di noi. Non si tratta di rinunciare alla propria libertà, per farsi gestire da altri: si tratta di trarre profitto dalla conoscenza del cuore, che è un vero carisma, per essere aiutati, con dolcezza e fermezza, a trovare la strada della verità. Colui che è padre nello Spirito, se è veramente tale, non farà uguali a se stesso, ma aiuterà a trovare la strada verso il Regno.

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  9. Qualunque sia la modalità che lo Spirito gli riserva, il monaco è sempre essenzialmente l'uomo della comunione. Il monachesimo ci mostra come non vi sia autentica vocazione che non nasca dalla Chiesa e per la Chiesa. Ne è testimonianza l'esperienza di tanti monaci che, rinchiusi nelle loro celle, portano nella loro preghiera una straordinaria passione non solo per la persona umana ma per ogni creatura, nell'invocazione incessante affinché tutto si converta alla corrente salvifica dell'amore di Cristo. Questo cammino di liberazione interiore nell'apertura all'Altro fa del monaco l'uomo della carità. Essa si manifesta anzitutto nel servizio ai fratelli nella vita monastica, ma poi anche alla comunità ecclesiale, in forme che variano nei tempi e nei luoghi, e vanno dalle opere sociali alla predicazione itinerante.

  10. L'Altro è anche mistero che si vela, si copre di silenzio [Il silenzio («hesychia») è una componente essenziale della spiritualità monastica orientale], per evitare che, in luogo di Dio, ci si costruisca un idolo. Solo in una purificazione progressiva della conoscenza di comunione, l'uomo e Dio si incontreranno e riconosceranno nell'abbraccio eterno la loro mai cancellata connaturalità d'amore. Nasce così quello che viene chiamato l'apofatismo dell'Oriente cristiano: più l'uomo cresce nella conoscenza di Dio, più lo percepisce come mistero inaccessibile, inafferrabile nella sua essenza. Ciò non va confuso con un misticismo oscuro dove l'uomo si perde in enigmatiche realtà impersonali. Anzi, i cristiani d'Oriente si rivolgono a Dio come Padre, Figlio, Spirito Santo, persone vive, teneramente presenti, alle quali esprimono una dossologia liturgica solenne e umile, maestosa e semplice. Essi però percepiscono che a questa presenza ci si avvicina soprattutto lasciandosi educare ad un silenzio adorante, perché al culmine della conoscenza e dell'esperienza di Dio sta la sua assoluta trascendenza.

  11. Ad esso si giunge, più che attraverso una meditazione sistematica, mediante l'assimilazione orante della Scrittura e della liturgia. In questa umile accettazione del limite creaturale di fronte all'infinita trascendenza di un Dio che non cessa di rivelarsi come il Dio-Amore, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nel gaudio dello Spirito Santo, io vedo espresso l'atteggiamento della preghiera e il metodo teologico che l'Oriente preferisce e continua ad offrire a tutti i credenti in Cristo. Dobbiamo confessare che abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata: la teologia, per poter valorizzare in pieno la propria anima sapienziale e spirituale; la preghiera, perché non dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte con un volto così raggiante da essere costretti a coprirlo con un velo (cfr. Es 34, 33) e perché le nostre assemblee sappiano fare spazio alla presenza di Dio, evitando di celebrare se stesse; la predicazione, perché non si illuda che sia sufficiente moltiplicare parole per attirare all'esperienza di Dio; l'impegno, per rinunciare a chiudersi in una lotta senza amore e perdono. Ne ha bisogno l'uomo di oggi che spesso non sa tacere per paura di incontrare se stesso, di svelarsi, di sentire il vuoto che si fa domanda di significato; l'uomo che si stordisce nel rumore. Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all'Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola.

  12. Un modo importante per crescere nella comprensione reciproca e nell'unità consiste proprio nel migliorare la nostra conoscenza gli uni degli altri. I figli della Chiesa cattolica già conoscono le vie che la Santa Sede ha indicato perché essi possano raggiungere tale scopo: conoscere la liturgia delle Chiese d'Oriente; approfondire la conoscenza delle tradizioni spirituali dei Padri e dei Dottori dell'Oriente cristiano; prendere esempio dalle Chiese d'Oriente per l'inculturazione del messaggio del Vangelo; combattere le tensioni fra Latini e Orientali e stimolare il dialogo fra Cattolici e Ortodossi, formare in istituzioni specializzate per l'Oriente cristiano teologi, liturgisti, storici e canonisti che possano diffondere, a loro volta, la conoscenza delle Chiese d'Oriente; offrire nei seminari e nelle facoltà teologiche un insegnamento adeguato su tali materie, soprattutto per i futuri sacerdoti.

  13. Nel concludere questa Lettera il mio pensiero va ai diletti fratelli i Patriarchi, i Vescovi, i Sacerdoti e i Diaconi, i Monaci e le Monache, gli uomini e le donne delle Chiese d'Oriente. Sulla soglia del terzo millennio noi tutti sentiamo giungere alle nostre Sedi il grido degli uomini, schiacciati dal peso di minacce gravi eppure forse persino a loro insaputa, desiderosi di conoscere la storia d'amore voluta da Dio. Quegli uomini sentono che un raggio di luce, se accolto, può ancora disperdere le tenebre dall'orizzonte della tenerezza del Padre. Maria, «Madre dell'astro che non tramonta», «aurora del mistico giorno», «oriente del Sole di gloria», ci addita l'Orientale Lumen. Da Oriente ogni giorno torna a sorgere il sole della speranza, la luce che restituisce al genere umano la sua esistenza. Da Oriente, secondo una bella immagine, tornerà il nostro Salvatore (cfr. Mt 24,27). Gli uomini e le donne d'Oriente sono per noi segno del Signore che torna. Noi non possiamo dimenticarli. Ora che il millennio si chiude e il nostro sguardo è tutto rivolto al Sole che sorge, li ritroviamo con gratitudine sul percorso del nostro sguardo e del nostro cuore.

  14. L'eco del Vangelo, parola che non delude, continua a risuonare con forza, indebolita solo dalla nostra separazione: Cristo grida, ma l'uomo stenta a sentire la sua voce perché noi non riusciamo a trasmettere parole unanimi. Ascoltiamo insieme l'invocazione degli uomini che vogliono udire intera la Parola di Dio. Le parole dell'Occidente hanno bisogno delle parole dell'Oriente perché la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili ricchezze. Le nostre parole si incontreranno per sempre nella Gerusalemme del cielo, ma invochiamo e vogliamo che quell'incontro sia anticipato nella Santa Chiesa che ancora cammina verso la pienezza del Regno. Voglia Dio far breve il tempo e lo spazio. L'uomo del terzo millennio possa godere di questa scoperta, finalmente raggiunto da una parola concorde e per questo pienamente credibile, proclamata da fratelli che si amano e si ringraziano per le ricchezze che reciprocamente si donano. E così noi ci presenteremo a Dio con le mani pure della riconciliazione e gli uomini del mondo avranno una solida ragione in più per credere e per sperare.

 

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Caratteri salienti della spiritualità dell'Oriente cristiano

 

Scrive Pàvel Nikolàjevič Evdokìmov che:

«la tradizione orientale non ha mai fatto una netta distinzione fra "mistico" e "teologico", cioè tra l'esperienza personale dei misteri divini e il dogma professato dalla Chiesa. Essa non ha mai conosciuto alcun divorzio tra la teologia e la spiritualità, né la devotio moderna con le sue forme di pietà individuale. L'esperienza mistica vive il contenuto della fede comune e la teologia lo ordina e lo riduce a sistema. Così la vita di ogni fedele, asceta o mistico, è strutturata dall'elemento dogmatico della liturgia e la dottrina riferisce l'esperienza intima della verità vissuta dai santi e dai Padri della Chiesa. La teologia è mistica e la vita mistica è teologica; questa è il vertice della teologia, teologia per eccellenza, contemplazione della trinità».

Come è stato riferito in altre pagine (ad es., Concetti fondamentali relativi alla mistica), fin dal IV secolo i Padri attuano un'identificazione fra il mistero della salvezza e la sostanza dei sacramenti e viene pertanto assimilata la vita mistica alla vita cristiana. L'ascesi è l'atteggiamento di dono totale di sé a Cristo. Il martire è l'asceta per eccellenza. Ma l'ascesi costituisce non il fine, ma il mezzo per giungere, se Dio lo vuole, allo stato di unità nuziale tra Dio e l'anima umana. Questo gradi infatti dipende dalla grazia di Dio; non tutti gli asceti sono mistici, anche se i mistici sono comunque asceti. E non esiste una tecnica in grado di rendersi padroni dell'esperienza di Dio: l'unico mezzo avanzato, l'esichía, coltiva il raccoglimento silenzioso. L'uomo si prostra in quella profonda umiltà orante che è il tremore dell'anima davanti alla porta del regno, porta che non si apre che sotto la spinta dell'atto libero di Dio.

Si precisano dunque alcuni caratteri tipici della spiritualità che connota il mondo orientale:

  • L'oggetto inconoscibile dell'esperienza mistica

  • La deificazione dell'essere umano

  • La visione di Dio

  • la vita ascetica

  • La salita mistica.

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1. L'OGGETTO INCONOSCIBILE DELL'ESPERIENZA MISTICA

L'Oriente sa che Dio rimane un mistero impenetrabile. Forte di questa convinzione, nega radicalmente la visione dell'essenza divina, eternamente trascendente. Un cerchio di silenzio è come tracciato intorno all'abisso intradivino, intorno a Dio in se stesso. Scrive Gregorio di Nissa che «i concetti creano degli idoli di Dio; soltanto lo stupore percepisce qualcosa». Continua Evdokìmov affermando che «lo stupore è quel senso ben preciso della invalicabile distanza, che si situa al di là di ogni conoscenza, al di là anche della non-conoscenza, fino alla più alta cima delle Scritture mistiche, là dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili della teologia si rivelano nella tenebra più che luminosa del silenzio (cfr. Dionigi). Non si tratta dell'impotente debolezza umana, ma dell'insondabile e inconoscibile profondità dell'essenza divina. L'oscurità inerente alla fede protegge il mistero inviolabile della prossimità di Dio».

 

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2. LA DEIFICAZIONE DELL'ESSERE UMANO

L'Antropologia orientale è stata definita come l'ontologia della deificazione (théosis). Con i suoi sacramenti e con la sua liturgia, la Chiesa appare il luogo di questa metamorfosi che testimonia la vita di Dio nell'umano. Dio si fa uomo perché l'uomo diventi Dio, ossia l'uomo diviene, secondo la grazia, ciò che Dio è secondo la natura. Il culmine dell'azione sacramentale, l'eucaristia, è proprio questo penetrare delle energie divine nella natura dell'uomo, trasfigurandola.

 

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3. LA VISIONE DI DIO

Afferma Evdokìmov che ogni visione di Dio è trinitaria; nello Spirito Santo noi vediamo l'immagine del Figlio e per lui, l'archetipo abissale, il Padre. Per Gregorio di Nazianzio è la contemplazione delle tre luci che formano una sola luce, lo splendore riunito della Trinità che sorpassa l'intelletto: «Trinità, di cui perfino le ombre confuse mi riempiono di emozione». Gregorio di Nissa afferma: «Così è vero, nel tempo stesso, che il cuore puro vede Dio e che nessuno ha mai visto Dio. Infatti, ciò che è invisibile per natura diviene visibile nelle sue energie, che in certo qual modo si sprigionano dalla sua natura». La visione è dunque interiorizzata; l'anima contempla nella sua immagine purificata, come in uno specchio, la luce divina, mentre Dio resta inaccessibile nella sua natura. Qui l'esperienza mistica è centrata sull'inabitazione del Verbo nell'anima e sulla tensione d'amore (epéctasi) verso la natura inaccessibile di Dio. Atanasio il Sinaita, riferendosi alla "visione faccia a faccia" di 1Cor 13,12, precisa che è detto "persona a persona" e non "natura a natura". Non è la natura che vede la Natura, ma è la persona che vede la Persona. È la risposta ortodossa agli argomenti iconoclasti: l'immagine è sempre dissimile dal prototipo "quanto all'essenza" ma gli è simile "quanto all'ipóstasi e al nome". Si tratta dell'Ipóstasi del Verbo incarnato e non la sua natura divina o umana che viene rappresentata sulle icone di Cristo. Si tratta dunque d'una comunione con la Persona di Cristo, nella quale le energie delle due nature, la creata e l'increata, si compenetrano. Così il culto delle icone inizia già la visione di Dio. «Vedere realmente Dio è non essere mai sazio di questo desiderio», scrive Gregorio di Nissa.

 

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4. LA VITA ASCETICA

L'ascetismo può essere visto come lotta invisibile, incessante e senza respiro, da un lato; dall'altro è l'illuminazione, l'acquisto di doni, il passaggio allo stato carismatico. L'asceta inizia, scrive Evdokìmov, con la visione della propria realtà umana. Conoscere se stessi è fondamentale perché «nessuno può conoscere Dio se prima non ha conosciuto se stesso». L'ascesi è un'esplorazione dei propri abissi, spesso popolati di mostri. Dopo questa conoscenza della propria profondità, l'anima aspira realmente alla divina misericordia. L'umiltà inviluppa tutta la durata della vita ascetica. L'attenzione è attirata alla sorgente spirituale del male; questo non viene dalla natura ma si compie nello spirito. Lo sforzo ascetico converte le passioni e le fa convergere verso l'attesa silenziosa del momento in cui Dio riveste l'anima della forma divina.  

 

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5. LA SALITA MISTICA

La via mistica raggiunge i vertici della libertà dei figli di Dio; ma interiormente essa è sostenuta e strutturata dal dogma vissuto nella liturgia e nei sacramenti, poiché fuori della Chiesa non c'è mistica. Occorre però precisare che l'amore mistico è il meno organizzabile e controllabile. Mentre la vita ascetica possiede delle tecniche precise, quella mistica non ne possiede alcuna. Il cuore, scrive Evdokìmov, si apre in tutta la misura della sua ricettività verso la proiezione nell'uomo del mistero dell'incarnazione e dell'inabitazione del Verbo. Lo stato mistico mostra il superamento della condizione stessa della creatura. Dio è più intimo all'uomo di quanto non lo sia l'uomo a se stesso, e la vita nel divino è più soprannaturalmente naturale all'uomo che la vita nell'umano.

 

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La mistica dell'Oriente cristiano

 

Fra i caratteri salienti della mistica dell'Oriente cristiano troviamo i seguenti:

 

1. MISTICA DELLA PERSONA

La grandezza dell'uomo, secondo i Padri della Chiesa, è tale perché egli è immagine di Dio. In Genesi 1,26, si precisa la struttura iconica del suo essere, il suo legame e la sua somiglianza con Dio. Dio ha voluto creare l'uomo come un'immagine della propria natura, manifestando il suo volto con caratteri umani. Dio si rivela però in tre Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. Il grande mistero che supera ogni intelletto consiste nel fatto che le tre Persone costituiscono un solo Dio, una sola natura assoluta. Da una prospettiva analogica bisogna vedere l'uomo; questi è comprensibile solo nella luce della Trinità. La sua persona ha la sua prima origine nella libertà divina, nella vocazione irripetibile data da Dio, che si realizza nelle libere relazioni con le altre persone. L'amore che crea le relazioni fa parte costitutiva della persona umana. Da ciò si comprende come la persona umana è un mistero conosciuto pienamente solo da Dio.

 

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2. LA "KENOSI" DI CRISTO

La kenosi di Cristo è un termine biblico: egli, uguale a Dio, si è abbassato fino a morire in croce per la nostra salvezza. Dopo la caduta dell'uomo, l'abisso fra la natura divina e quella umana è diventato talmente profondo che l'incarnazione del Verbo è una croce che prende su di sé, pertanto la kenosi del Dio assolutamente impassibile diventa sofferenza. Ma il fine dell'incarnazione è portare la felicità divina in questa sofferenza umana. Il Cristo sofferente è tutt'uno con il Cristo glorioso, in quanto la sofferenza stessa, per mezzo di lui, diventa gloriosa. Per questo si parla di una mistica della sofferenza, soprattutto in ambito russo.

 

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3. MISTICA DELLA SOFFERENZA

La riflessione sulla sofferenza e sulla morte risveglia, da sempre, una riflessione di tipo metafisico o religioso. La sofferenza è legata all'esistenza stessa della persona e della coscienza personale. L'espressione di Dostoevskij «la sofferenza è un bene, perché tutto espia» riassume la lunga tradizione degli strastoterpcy russi ("coloro che soffrono la passione"), ossia di coloro che accettano di patire ogni sorta di persecuzioni ingiuste, riconoscendovi i segni di un'elezione speciale per la purificazione del mondo. Se la sofferenza e la morte acquistano un valore positivo questo è solo per mezzo dell'unione con la morte di Cristo. Quali sono dunque le condizioni per essere sicuri di morire con Cristo, affinché la morte sia un segno di vittoria? Secondo la tradizione, la morte che santifica, è per eccellenza il martirio, il dare la propria vita per la fede in Cristo.

 

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4. LA CONOSCENZA SPIRITUALE

La ricerca della Verità è universale, ma molte sono le vie per farlo. La verità per il mondo cristiano orientale (il termine slavo istina esprime sia "ciò che esiste" sia "ciò che respira") significa entrare in contatto con una realtà vivente, concreta e dinamica. La verità si trova sempre al di là delle considerazioni razionali, è quindi intuitiva e mistica. L'amore è considerato come un principio della conoscenza della verità. Scrive Pavel Florenskij: «La conoscenza effettiva della Verità è nell'amore e non è concepibile che nell'amore. Viceversa, la conoscenza della Verità si manifesta come amore».

 

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5. LA MISTICA DELLA BELLEZZA

Questo amore è una forza che unisce. Se è il principio della conoscenza della Verità, consegue che tutto ciò che sappiamo deve essere unito. Come superare invece le distinzioni del mondo occidentale fra conoscenza empirica, metafisica e mistica? Nel concetto della Bellezza. La visione estetica non è dunque l'evidenza di una idea chiara e distinta dall'altra, ma la visione dell'uno nell'altro. Soloviev porta un esempio concreto per rappresentare questo concetto. Il carbone e il diamante sono uguali dal punto di vista chimico. Perché il carbone viene considerato brutto e il diamante tesoro della bellezza? Nel primo non si vede altro che il carbone, mentre nel diamante si riflette la luce del cielo. L'uomo diventa capace di vedere il mondo come bello quando allarga progressivamente il suo orizzonte ed acquista l'arte di vedere uno nell'altro. All'inizio questa visione è oscura e limitata, ma essa si illumina fino a vedere l'uno nel tutto e tutto nell'uno, la Bellezza della Trinità nelle cose create, vertice della contemplazione spirituale.

 

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6. LO SPLENDORE DELLE ICONE

Nella spiritualità di tutto l'Oriente cristiano, l'icona occupa un posto privilegiato. Per quanto i pittori non avessero elaborato una teologia delle icone, tuttavia vivevano un'esperienza di tipo mistico. Legata intimamente all'economia della salvezza, l'immagine sacra mette in rilievo i due aspetti principali dell'opera di redenzione di Cristo: la predicazione della verità e la comunicazione della grazia di Dio. Così il concilio di Nicea del 787 paragona la pittura alla predicazione della fede: «Noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni della chiesa, sia scritte che orali. Una di queste riguarda la raffigurazione del modello mediante una immagine, in quanto si accordi con la lettera del messaggio evangelico, in quanto serva a confermare la vera e non fantomatica incarnazione del Verbo di Dio e procuri a noi analogo vantaggio, perché le cose rinviano l'una all'altra di ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano. Le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio; infatti quanto più frequentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta di vera adorazione [latria], riservata dalla nostra fede solo alla natura divina; l'onore reso all'immagine, in realtà, appartiene a colui che è rappresentato e chi venera l'immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto». Le icone diventano un luogo di incontro fra il mondo celeste di Dio, dei suoi santi, e il mondo radunato sulla terra nella Chiesa.

 

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7. LA VISIONE DEL COSMO

Ogni cosa visibile è simbolo di una realtà invisibile, ogni cosa diventa una "parola" detta da Dio a noi. Ma l'uomo davanti al mondo non è solo spettatore ma caricato di una responsabilità verso di esso che lo impegna alla sua purificazione dalle forze del male e a santificare il cosmo intero. Santificarlo significa vivificarlo, mediante lo Spirito che è datore di vita. La realtà sacramentale suggerisce proprio questa trasformazione: la natura materiale (acqua, vino, pane, olio) comunica la vita spirituale agli uomini. L'Incarnazione non è un fatto avvenuto, ma una realtà che sta progressivamente avvenendo. 

 

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8. LA MISTICA LITURGICA

La liturgia occupa un posto fondamentale nei paesi dell'Oriente cristiano, il centro della pietà. La liturgia costituisce il luogo della rivelazione e della visibilità dei dogmi. Come icona vivente la liturgia manifesta i due aspetti dell'iconografia sacra: insegna i misteri e li rende presenti. Nella liturgia Dio scende verso di noi con il suo Verbo divino e l'uomo sale con la sua parola verso Dio. Il senso della parola eccklesía è quello di convocazione sacra del popolo in vista della riunione liturgica. La Chiesa, unione dei fedeli in Spirito, per mezzo della Parola, trova nei riti la sua impressione concreta e diviene in seguito una espressione, il risultato della pietà di un gruppo. La liturgia è regolatrice della vita spirituale, essa fornisce le parole e i gesti, le forme di devozione persino ai temperamenti più individualisti. La Chiesa entra nella storia come una mistica apparizione di Cristo, essa è l'icona vivente del Salvatore, come Lui stesso è immagine del Padre. La gloria di Dio è Dio stesso in quanto si rivela nella sua maestà e nella sua potenza, splendore della sua santità. La liturgia evoca tutte le grandi opere di Dio realizzate in Gesù; attraverso le sue parole e i suoi riti simbolici traspare la gloria celeste del Salvatore, resa visibile sulla terra.

 

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9. LA MISTICA DEL CUORE

Il cuore e i suoi sentimenti, come lo adoperano gli autori spirituali, non può essere considerata una facoltà dell'uomo in mezzo alle altre. Amare Dio con tutto il cuore significa cercarlo con tutta la propria anima, con tutto il proprio spirito e con tutte le proprie forze (cfr. Mt 22,37; Mc 12,33). Il "cuore" unifica i sentimenti dell'uomo, sta a significa l'uomo nella sua integrità. Il senso dell'integrità è anche il senso dell'eternità. La preghiera, infatti, non è un momento, ma uno stato, una disposizione abituale (katastasis). Questo stato di preghiera è lo stato di tutta la vita spirituale, una disposizione stabile del cuore. Ogni asceta ha sempre cercato di avere il cuore stabilmente rivolto al Signore, attraverso lo sforzo di rigettare ogni pensiero cattivo che viene dal di fuori e di conservare il paradiso del cuore nello stato di innocenza. Il cuore che non subisce più impressioni dal di fuori diventa sorgente di ispirazione sotto forma di pensieri interiori. Questi sono pensiero che provengono da Dio e saper ascoltare queste ispirazioni dello Spirito è ciò che si chiama "preghiera del cuore". Evdokìmov ne dà la seguente definizione: «L'intelletto associato al cuore e reso alla sua nudità pre-concettuale supera la ragione discorsiva, abbandona le armonie dei giudizi e postula la sopraelevazione di se stesso a dei livelli sempre più profondi fino a diventare il luogo di Dio».

 

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LA PREGHIERA DEL CUORE (cenni)

Il termine esicasmo (dal greco hesychía, quiete) designa la tradizione mistica della preghiera contemplativa nell'Oriente cristiano. Nei suoi fondamenti teologici, l'esicasmo si rifà agli autori dei secoli IV-VII, come Gregorio di Nissa, Evagrio Pontico, Diadoco di Foticea, Massimo il Confessore e soprattutto Gregorio Palamàs, monaco del monte Athos.

Scrive Marcello Brunini (op.cit., p.77ss):

«L'uomo è sospinto verso il mistero da ogni evento della vita e della storia. Nella commozione o nel gesto dell'amore, nell'incanto continuo della bellezza umana e cosmica, nella lotta per la giustizia, nella sofferenza e nella morte, ogni uomo è chiamato ad aprirsi alla preghiera. L'uomo è un essere unitario che si esprime nel corpo, nell'anima e nello spirito. La preghiera corporale è compiuta con le labbra, la lingua o il corpo. Consiste nella lettura di brani scritturistici o nella recita di determinate preghiere. Si esprime nell'inginocchiarsi, nello stare in piedi, seduti, nell'inchinarsi. È questo il primo gradino dell'orazione. Ogni preghiera verbale deve farsi preghiera della mente. Questo secondo momento è ciò che viene chiamato considerazione spirituale, riflessione, meditazione. La riflessione meditativa serve come preparazione alla Preghiera del cuore. Quando l'orazione diviene un "sospiro" del cuore verso Dio allora siamo nell'autentica preghiera spirituale. Solo a questo stadio la preghiera si fa veramente Preghiera del cuore, cioè orazione di tutto l'uomo: del suo corpo, della sua anima, del suo spirito.»

Gesù nell'annunciare il Regno dei cieli, spesso ripete che bisogna pregare senza stancarsi (cfr. Lc 18,1). Paolo nella 1Ts 5,17 afferma che bisogna pregare incessantemente. La preghiera continua è dunque un comando di Gesù, che è stato assunto nella tradizione patristica e monastica orientale come una vera e propria opera da compiere. Per facilitare la continuità dell'orazione, sono apparse brevi formule di preghiera, piccole frasi spesso con parole di supplica. Tra queste diverse formule si affermò la Preghiera di Gesù. Essa si esprime nell'invocazione, ripetuta incessantemente e legata al ritmo del respiro, del Nome di Gesù. Il contenuto dell'invocazione può essere semplicemente «Gesù», ma in generale viene inserito in una frase più ampia che recita: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me», a volte con l'aggiunta di «abbi pietà di me, il peccatore».

Con una formula molto breve, si esprime un atto di fede nella messianicità divina di Cristo e se ne implora la sua misericordia sull'uomo che si confessa peccatore. La divisione della preghiera in tre gradi (delle labbra, della mente, del cuore) si applica alla Preghiera di Gesù.

 

«All'inizio questa è una semplice preghiera vocale. Le parole vengono pronunciate ad alta voce oppure sommessamente o silenziosamente dalle labbra e dalla lingua. Mentre si recita la formula, la nostra attenzione è richiamata a sostare sul significato delle parole. L'attenta ripetizione della Preghiera del cuore può anche dimostrarsi un compito arduo e spossante che tuttavia va condotto avanti con umiltà perseverante. Con il passare del tempo si fa sempre più intensa. La mente allora, la ripete senza il concorso delle labbra o della lingua. A questa accresciuta interiorità si affianca una maggiore facilità di attenzione e di concentrazione. La preghiera acquisisce un ritmo suo proprio. A volte canta in noi spontaneamente senza nessun atto cosciente di volontà. Infine la preghiera si fa strada nel cuore e da lì viene permeata tutta la personalità. Il suo ritmo si identifica sempre più con il battito del cuore, finché giunge ad essere incessante. Lo sforzo e la fatica dell'inizio è ora divenuto un'inesauribile sorgente di pace e di gioia.»

Quando la Preghiera di Gesù staziona nel cuore essa «risuona senza tregua in fondo all'anima, prende il ritmo della respirazione; il nome di Gesù è in qualche modo connesso col respiro, si scolpisce nell'uomo e questi si tramuta, nel nome di Dio, in Cristo; l'uomo viene iniziato nel modo più diretto all'esperienza di san Paolo: "Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me" (Gal 2,20). L'invocazione frequente del Nome di Gesù introduce alla presenza di Dio; è la liturgia interiorizzata: "fa' della mia preghiera un sacramento" implora incessantemente ogni credente, ed a questo scopo la preghiera ideale bandisce gli elementi discorsivi (i pensieri) e diviene una parola sola, monologica, ed è il Nome di Gesù. Dio è presente a tutti, ma con la Preghiera del cuore, l'uomo diviene nuovamente presente alla presenza divina» (Evdokìmov, L'Ortodossia).

 

 

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