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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di Antonello Lotti

 

Platone mistico   (a cura di Federico Chiappetta *)

 

Jean Delville, La scuola di Platone

Jean Delville (1867-1953), La scuola di Platone, Parigi, Musée d'Orsay

 

 

«Gli uomini che amano il sapere sanno che la filosofia, prendendo la loro anima, dà ad essa consiglio e cerca di scioglierla, dimostrando che l’indagine che si conduce mediante gli occhi è piena di inganni, e così anche l’indagine che si conduce mediante gli orecchi e gli altri sensi, persuadendola ad abbandonare questi, se non per quel tanto che è necessario far uso di essi, ed esortandola a raccogliersi in se stessa e non credere a nient’altro che a se stessa
(Platone, Fedone, parla Socrate, 83 A)

 

 


(*) N.B. Questa pagina è il frutto del lavoro di Federico Chiappetta. Ecco come si presenta:

Mi chiamo Federico Chiappetta, sono nato a Milano nel 1990. Ho studiato filosofia nella mia città. Il mio interesse verte sulle problematiche in comune tra filosofia e religione. Amo inoltre moltissimo la poesia e la canzone d’autore. Condivido con Antonello, il curatore di Mistica.info, l’amore per il pensiero e la spiritualità, in particolare, di Meister Eckhart. Grazie a Eckhart mi sto affacciando al mondo della mistica, universo spesso maltrattato e sempre trascurato, di cui il sito offre una dettagliata, appassionata e precisa panoramica.


 

 

Indice

 

 

 

Bibliografia

 

L’opera omnia di Platone può essere letta nelle seguenti edizioni:

  • Giovanni Reale (cur.), Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 1997, coll. Il pensiero occidentale
    [Edizione senza testo a fronte, ma con introduzione e note molto puntuali e dettagliate]

  • Gabriele Giannantoni (cur.), Platone. Opere complete, Laterza, Bari-Roma, 1982-1984
    [Edizione con testo a fronte]

  • Giuseppe Cambiano e Francesco Adorno (cur.), Platone. Dialoghi, Utet, Torino, 1995-2008
    [Edizione con testo a fronte]

 

Dell’immensa letteratura critica dedicata a Platone segnaliamo soltanto alcuni studi attinenti alla prospettiva interpretativa con cui ci accostiamo all’opera platonica e ai quali siamo debitori:

 

  • Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1975

  • Giorgio Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano 2009 [ scritto nel 1939 ]

  • Giorgio Colli, Platone politico, Adelphi, Milano 2007 [ scritto nel 1937 ]

  • Marco Vannini, Introduzione alla mistica, Morcelliana, Brescia 2000

  • Marco Vannini, Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone Weil, Mondadori, Milano 1999

  • Simone Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Roma 1984

  • Giovanni Reale, Il pensiero antico, Vita e Pensiero, Milano 2001

 

 

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Nota Biografica

 

Ci serviamo dell’introduzione di Giovanni Reale a Platone. Tutti gli scritti e dello scritto di Giorgio Colli Platone politico.

 

  • Platone non è altro che un nomignolo, il vero nome del filosofo fu Aristocle, nome ereditato dal nonno. Ci sono tre ipotesi sull’origine del soprannome. Secondo la prima ‘Platone’ deriverebbe dal termine greco platos che significa ‘ampiezza’, ‘larghezza’; e sarebbe dovuto alla corporatura del filosofo. Secondo altri, invece, il nome deriverebbe dalla sua vasta fronte. La terza ipotesi, forse la più suggestiva, vorrebbe che il nomignolo derivasse dall’ampiezza della produzione e dello stile del filosofo. Quest’ultima non è tuttavia ritenuta credibile dagli studiosi che, per lo più, propendono per la prima ipotesi.

  • Platone è nato ad Atene nel 427 a.C. da famiglia aristocratica (nella Repubblica [V, 459 A], Platone descrive la sua casa come «piena di cani da caccia e di nobili uccelli». Ma vi sono anche altri riferimenti suoi e di altri). Ebbe due fratelli, Adimanto e Glaucone (presenti nella Repubblica), e una sorella, Potone. Secondo Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi (III, 1-2) Platone venne alla luce nello steso giorno in cui gli abitanti di Delo dicono sia nato Apollo.

  • Il padre di Platone (morto precocemente) faceva risalire la sua discendenza a Codro, ultimo leggendario re di Atene; sua madre vantava una discendenza da Solone, saggio legislatore al di sopra delle parti. Interessante riferire come secondo Diogene Laerzio e la tradizione quella di Platone sarebbe stata una “immacolata concezione” nella quale il dio Apollo si sarebbe sostituito al padre generando il figlio dalla vergine Perittione. Platone è considerato da certa tradizione greca “uomo divino”, dotato di un accesso alla conoscenza e alla virtù di natura sovraumana.

  • Nacque un anno dopo la morte di Pericle; Atene era straziata dalla guerra del Peloponneso e dalla inefficienza degli strateghi che si curanavano del proprio interesse personale piuttosto che di quello della Polis, ci riferiamo in particolare a Cleone, che Tucidide descrive come l’anti-Pericle.

  • Intorno al 407 a.C. divenne discepolo di Socrate. Alcune fonti riferiscono che il filosofo avrebbe bruciato le sue composizioni poetiche e le sue opere pittoriche. Non possiamo soffermarci lungamente sul rapporto col maestro Socrate (consiglio a questo proposito la Lezione 1 e la Lezione 2 di Vegetti e la prima parte dello scritto di Colli Platone politico), riportiamo però un aneddoto di Diogene Laerzio: «[Socrate] vide in sogno di avere posato sulle sue ginocchia un giovane cigno, che subito mise le ali e volò via cantando dolcemente; il giorno dopo gli si presentò Platone, nel quale egli disse di aver riconosciuto l’uccello del sogno» (III, 5). Possiamo ricordare che il cigno era l’uccello sacro di Apollo. Prima di diventare discepolo di Socrate, Platone era stato per qualche tempo seguace dell’eracliteo Cratilo (Aristotele, Metafisica, I, A 6).

  • Nel 399 Socrate venne condannato a morte con l’accusa di empietà e di corruzione dei giovani (si tenga presente quel magnifico resoconto che è l’Apologia di Socrate). La morte di Socrate fu per Platone un’esperienza fortemente drammatica e incise su tutta la sua vita e sul suo pensiero; da questa data in poi, per Colli, Platone avverte come insanabile l’opposizione fra il mondo ideale e quello reale. Socrate viene sublimato e investito di luce sovrumana, la sua morte eroica e giusta lo trasfigura agli occhi del nostro. Platone, temendo ripercussioni, lasciò Atene e si rifugiò a Megara (che già conosceva avendo partecipato alla battaglia del 409), presso Euclide. Seguì un periodo di viaggi e trasferimenti: Cirene, Creta, Egitto (sono stati fatti diversi lavori, anche in rete, sul soggiorno di Platone in Egitto e l’influenza delle conoscenze di queste zone sull’opera del nostro. Certamente bisogna ribadire, basandoci su Reale e altri, che Platone, pure influenzato da queste dottrine, ha la forza teoretica di trasformarle radicalmente. Questa grande capacità teoretica è lo specifico della filosofia greca e del suo spirito). 

  • L’infanzia e la giovinezza di Platone caddero nel periodo drammatico della guerra del Peloponneso, alla fine della quale in Atene fu instaurato il governo dei Trenta tiranni (fra i quali era presente anche Crizia, zio di Platone). Platone fu invitato a collaborare, ma essendone molto deluso, declinò la proposta. Vi si riferisce nella Lettera VII (ritenuta quasi unanimemente autentica): «una costituzione aborrita da molti» (324 C).

  • Fu deluso anche dalla fazione democratica, sotto la quale avvenne il processo e la condanna a morte del maestro. La fazione democratica aveva potuto conoscerla bene, dal momento che dopo la morte del padre Platone fu allevato nella casa di Pirilampo, amico e collaboratore di Pericle.

  • Gli anni fra i viaggi di cui sopra e il primo viaggio in Sicilia sono anni di crisi, amarezza e solitudine nella vita del filosofo. Indicativo di questo periodo è il Gorgia; in cui Platone rivela una novità di atteggiamento. Se nei dialoghi precedenti (non si tocchi l’annosa questione della cronologia dei dialoghi, si veda per questo l’introduzione di Reale a Tutti gli scritti) trovavamo un Socrate probabilmente vicino a quello storico, nel Gorgia scompare per fare spazio al discepolo (sempre sotto le vesti socratiche). È un Socrate che afferma di conoscere la verità e che grida con tutte le sue forze contro i sogghignanti sofisti, come vuole Colli. Nel Gorgia è importante l’influenza pitagorica; alcuni studiosi lo datano addirittura dopo il primo viaggio in Sicilia, Colli ritiene vero il contrario.

  • Nel 388 a.C. Platone si recò in Italia meridionale per conoscere le comunità dei Pitagorici e Archita. Quindi fu invitato in Sicilia dal tiranno Dionigi I; i rapporti fra i due furono tutt’altro che facili. Conobbe anche Dione, parente del tiranno, che secondo Platone aveva le doti necessarie per essere l’ideale re-filosofo.

  • Dionigi I ostacolò il ritorno in patria di Platone, che venne fatto prigioniero ad Egina (in guerra con Atene). Per fortuna di Platone ad Egina era di passaggio Anniceride, un vecchio amico, che lo riscattò.

  • Ritornato ad Atene, nel 387 a.C. acquistò un ginnasio e un parco dedicato all’eroe Accademo; la scuola che fondò, in onore dell’eroe, si chiamò Accademia. Il 387 a.C. è per questo un anno fondamentale per la storia della filosofia.

  • Nel 367 a.C. Platone compì il suo secondo viaggio in Sicilia. Dionigi II era succeduto al padre. Dione aveva garantito che Dionigi II fosse migliore del padre, e aveva convinto così Platone ad intraprendere il viaggio. Dionigi II, invece, esiliò Dione e fece prigioniero Platone che fu liberato solo nel 365 a.C.

  • Nel 361 a.C. Platone tornò a Siracusa una terza volta per persuadere Dionigi II a richiamare Dione dall’esilio; anche questa volta le vicende presero una piega drammatica e fu necessario l’intervento di Archita per liberare Platone.

  • Platone, tornato ad Atene nel 360 a.C., vi rimase dirigendo l’Accademia fino al 347 a.C. quando morì. Fu sepolto nel giardino dell’Accademia presso un tempietto dedicato alle Muse che egli stesso aveva fatto costruire. Ben presto fu venerato dagli allievi e non solo come “uomo divino”; ed iniziò a circolare la leggenda della sua discendenza apollinea.

 

Si tenga presente che per maggiori informazioni sulla vita e sull’opera di Platone si può fare riferimento ai seguenti testi:

  • Francesco Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Bari-Roma 1978

  • Franco Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009

  • Mario Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003

  • Giuseppe Cambiano e Massimo Mori, Le stelle di Talete (volume I), Laterza, Bari-Roma 2004

 

 

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Raffaello Sanzio, La scuola di Atene, part.

Raffaello Sanzio (1483-1520), La scuola di Atene, 1509-1511, particolare
Città del Vaticano, Stanza della Segnatura

 

 

Platone mistico

 

Si vuole illustrare come, fra le molteplici e discordanti interpretazioni di Platone, si possa riscontrare una linea che ne metta in risalto il suo misticismo. Gli autori che seguiremo da vicino sono Giorgio Colli, Simone Weil e Marco Vannini.

 

Qualsiasi studioso o anche semplice lettore di Platone è ben consapevole che si ha a che fare con uno spirito fortemente religioso e che come sosteneva Simone Weil la filosofia platonica sia una incessante ricerca di mediazione fra uomo e Dio o, se si vuole, il divino. Platone non sarebbe soltanto filosofo ma anche vaso di raccolta della antica tradizione religiosa e di pensiero ed inoltre “mistico autentico” e “padre della mistica occidentale”, stando sempre a Simone Weil.

Da parte sua Colli sottolinea come la formazione del pensiero platonico abbia origine nel misticismo presocratico; e che le sue concezioni filosofiche e politiche altro non siano che l’oggettivazione, se si vuole la razionalizzazione, della sua interiorità mistica.

Per contestualizzare il pensiero di questo grande padre del pensiero occidentale vogliamo riferire come Colli legge l’incontro di Platone coll’indiscusso maestro, Socrate. Socrate, lasciando da parte Eraclito, fu la prima grande personalità filosofica, di grande fascino sia per Platone che per i contemporanei. Egli ricercò con il suo operato e con la sua stessa vita la perfezione nel comportamento politico di ogni uomo e questo poteva avvenire soltanto attraverso la mediazione della ragione. Se gli uomini sono tutti diversi (sotto moltissimi punti di vista) è pure vero che ciò che tutti accomuna, secondo Socrate, è la ragione. Socrate si rivolse dunque alla sua interiorità (intesa soltanto come ragione) e cercò di far compiere questa ‘conversione’ a tutti gli uomini.

È bene informare il lettore che Colli si serve di due categorie (fondamentali per comprendere i suoi scritti): apollineo/politicità e dionisiaco/misticismo. Colli deriva queste due categorie da Nietzsche, ma ne trasforma, in parte, il significato. Dall’urto di queste due componenti per Colli sorse il miracolo della filosofia greca. Il misticismo dei Presocratici e di Platone nacque dal movimento religioso dionisiaco, a causa di un più forte avvertimento del dolore dell’umanità; sorse così il pessimismo greco, il pessimismo dionisiaco. Il Dionisiaco spinge l’uomo ad entrare in sé; la concezione politica e apollinea infatti portava con sé moltissimo dolore. Allora «l’uomo dionisiaco dovette superare la propria passionalità annegandola in una passionalità suprema, al punto da perdere il senso della personalità» (Colli, Filosofi sovrumani). Questo aspetto dionisiaco non sarebbe altro che l’impulso a superare tutto ciò che è umano. Tensione questa che si appagherebbe nella serenità della conoscenza raggiunta, e nella estrema solitudine. Ma originario per un greco è l’istinto politico, quindi una volta toccato il solitario vertice teoretico, deve esprimere la sua intima esperienza. Scrive ancora Colli: «Nella solitudine essi sono giunti a dei sentimenti supremi, nudi di immagini e di razionalità, lontani dalle idee comuni dell’umanità, e non sanno tradurli in parole». Necessario per un greco è poi il movimento dalla interiorità al mondo, e nella ricerca di questa espressione è necessaria la razionalità, terreno sul quale qualsiasi greco sapeva di poter essere compreso. Le dottrine dei Presocratici e di Platone sono «una legislazione data all’universo». La politicità originaria richiede espressione visiva, plastica della esperienza dionisiaca, della gemma regalata loro dalla solitudine. Il Dionisiaco è un movimento centripeto che tende alla interiorizzazione e all’individualismo supremo ed eroico. È il venire a coincidere con la realtà universale. L’Apollineo invece è un movimento centrifugo che tende ad affermare la personalità singola (radice del soggettivismo in questo), provenendo da una esperienza dionisiaca esprime la personalità di una creazione bella. In Socrate il dionisiaco non fu tale da oscurare la sua serena visione apollinea della realtà, ma trovava comunque espressione nella ricerca socratica di una forma universale di sophrosyne (moderazione, autocontrollo), che rendesse attuabile quella perfezione nel comportamento politico. Socrate nelle sue ricerche non giunse mai e lo spirito di insoddisfazione è spirito dionisiaco; eppure lambì il suo ideale con la sua vita e la sua morte, quell’ideale che non era riuscito ad esprimere. Il fenomeno divino in lui, il daimònion sarebbe il volto del dionisiaco. Una forza misteriosa di cui non sa dare spiegazione ma di cui è cosciente. Socrate è un unicum in tutta la storia della grecità. Platone nel Simposio fa dire ad Alcibiade: «non è simile a nessuno degli uomini» (Simposio, 221 C). Platone da Socrate ricevette il desiderio portante di una città di uomini perfetti ma anche il pessimismo sulla possibilità di una vita collettiva felice (che nel discepolo sempre si andò radicalizzando). Il pessimismo socratico si può evincere dalle sue ultime parole: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!» (Fedone, 118 A). Asclepio è il dio della medicina, che lo avrebbe guarito dalla malattia della vita. Inoltre il dionisiaco in Socrate si potrebbe trovare anche nel fatto che durante gli ultimi giorni di vita abbia composto versi, contro al suo carattere eminentemente prosaico. «Socrate ha coscienza di incarnare un personaggio tragico, [...] si sente un individuo dionisiaco che domina il mondo con la bellezza della sua morte» (Colli).

Abbiamo così messo a fuoco la figura del maestro di Platone, secondo l’ottica di Colli.

 

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Seguiamo come Colli tratteggia l’evoluzione spirituale di Platone. Socrate in qualche modo corregge la natura platonica tendente alla pazzia dionisiaca, infatti il giovane Platone scriveva versi tragici e ditirambi a Dioniso. Il maestro fa conoscere al giovane Platone la serenità apollinea, Socrate mette l’allievo nell’ordine di idee che la più degna attività dell’uomo è quella politica ed educativa. Alla morte del maestro Platone rimane solo, e da solo difende la memoria del maestro. La disfatta totale risveglia quella natura dionisiaca sopita da Socrate. Caratterialmente Platone è più vicino ai Presocratici che non a Socrate; Platone ha coscienza della sua superiorità rispetto agli uomini, questo lo induce al disprezzo (posizione che ricorda da vicino quella di Eraclito). Lo sdegno che Platone matura passa attraverso i grandi del passato, i padri per la sua spiritualità, Eraclito, Pitagora, Empedocle. Si rende conto che la solitudine che si trova a dover fronteggiare è la strada verso la più alta conoscenza; Platone ha il coraggio di questo eroismo.

«Alla conoscenza mistica giunge seguendo il suo impulso dionisiaco. […] L’anima lascia ciò che la circonda e si volge ad indagare sé» (Colli). Se per Socrate il “conosci te stesso” voleva dire trovare una posizione di equilibrio entro la Polis, tracciare il confine fra la propria libertà e quella dei concittadini; per Platone, come per Eraclito, l’«indagine della propria interiorità è slancio verso l’infinito». In questo movimento l’anima raccoglie in sé tutto il mondo. «L’isolamento svuota l’anima dei contenuti razionali; lo stato dionisiaco è pura interiorità». In questo modo l’anima si libera da tutti i limiti; è indipendente dal mondo e dal divenire. L’anima per la prima volta è libera, autè kath’hautén, ovvero essa per se stessa. Il percorso dell’anima verso la solitudine è descritto in Fedone, 64 C-65 C (che riportiamo nella antologia). L’anima, una volta terminato l’itinerario che la rende essa per se stessa, può intuire sé come essenza e contemplare le essenze delle altre cose. L’essenza è la vera realtà universale. E l’anima, osserva Colli, è synethroisméne, ‘raccolta in sé’ (Fedone, 83 A). Il dionisiaco, il processo che stiamo descrivendo, portato all’estremo è infinità pura; ecco allora l’indicibilità dell’intuizione del mistico. L’anima è indipendente e staccata dall’umano. Può così conoscere le essenze di tutte le cose. Platone, per fondare la sua dottrina, deve compiere un passo ulteriore; deve affermare che la natura dell’anima è sugghenés, ‘della medesima stirpe’, a quella delle idee. (Fedone, 79 D). L’anima sola, raccolta e libera diventa allora capace di contemplazione. Nei passi citati del Fedone, l’anima nuda, sola, viene anche associata alla condizione di morte; Simone Weil associa questi passi al tema mistico della morte dell’io. Per Colli la teoria delle idee nasce come traduzione metafisica di questa esperienza. Ecco quanto descrivevamo prima; la dottrina delle idee sarebbe oggettivazione di questa esperienza, che a buon diritto può esser detta mistica. Le idee si colgono «con lo spirito puro per se stesso» (Fedone, 66 A), Platone tocca qui l’esigenza del distacco assoluto dalla sensibilità. Ma «questa conoscenza è passionalità dionisiaca, sovrumana» (Colli). Ecco la mistica scomparsa del soggetto; e la divinità che si fa presente nella impersonalità del soggetto. L’anima si fa logos universale. Platone arriva addirittura a paragonare i suoi insegnamenti a quelli dei misteri dionisiaci (Fedone, 69 C-D e Fedone 81 A). In Platone si riscontra anche l’amore del mistico per il sensibile; prima del distacco il mistico cerca tutti i modi di amare il sensibile. Colli mette in rilievo l’importanza del sensibile nell’itinerario platonico. Al termine di questo itinerario l’anima è essa per se stessa e si espande nell’universale che non ha limiti, che è continuo. Platone è riluttante a parlare del suo misticismo e ne mette in primo piano l’oggettivazione. L’elevazione oltre il sensibile non è mortificazione della carne bensì impulso morale-conoscitivo che percepisce l’insufficienza di ciò che è terreno. È tensione ad una conoscenza e una forma di vita superiore, in qualche modo quella che Socrate aveva iniziato a tratteggiare.

Ora tocchiamo alcuni punti essenziali del Fedro, uno dei dialoghi platonici più belli e commentati. Abbiamo visto come nel Fedone la solitudine sia la vera via per la conoscenza (vicino ad Eraclito e a Nietzsche); Platone scorge un’altra via meno dolorosa, quella dell’amore. Platone constata che l’oggetto amato è qualcosa che l’amante, il conoscitore, di ferma a contemplare. «Ogni mistico in effetti tende a una perfezione che è staticità» (Colli). Nel sensibile si ama ciò che rimanda ad una superiore perfezione. In questo senso gli oggetti sensibili sono fondamentali per la vera conoscenza, si veda Fedro 249 B. Per il mistico, scrive Colli, il distacco dal sensibile non è avvertito come doloroso, ma è necessario per una ri-comprensione che possa unificare in una sfera superiore. «Il Fedro è una lode della follia dionisiaca» (Fedro, 244-245), per Platone la follia è un modo di possedere più intimamente la propria personalità. Il sensibile è necessario all’amore nella sua ascesa (vedremo anche nel Simposio). Il Fedro contiene anche un passo molto importante per Colli, Platone afferma infatti che l’uomo può divinizzarsi nella conoscenza, essendo in relazione con quelle realtà per le quali anche dio stesso è divino (Fedro, 249). Assomiglia a Dio chi è più giusto; occorre sforzarsi di sfuggire da quaggiù. Il tema già presente nel Fedone della fuga del mondo per diventare simile a Dio (omoiosis). Nel Fedone in effetti la ricerca della verità era esercizio preparatorio alla morte; la morte è il distacco con cui l’anima cerca di essere essa sola per se stessa. Poco prima Platone aveva affermato nella pazzia amorosa e poetica l’anima sente la propria essenza una con l’essenza universale, suprema (Fedro, 247 B-C). Questa essenza universale è caratterizzata da puro fulgore. Entro questo fulgore le immagini (le idee) sono tenute assieme dalla luce.

 

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Altro testo platonico centrale per la mistica è il Simposio. I convenuti, come noto, discutono su cosa sia Amore, il discorso culmina con l’intervento di Socrate che riferisce quanto gli aveva detto la sacerdotessa Diotima (letteralmente ‘colei che onora Dio’); e dunque questo intervento socratico ha la veste di una rivelazione. È uno dei discorsi platonici più noti quello che fa Socrate: Eros non è un Dio, bensì un demone che media fra gli uomini e gli dei, affinché il tutto sia connesso con le parti. Eros riveste lo stesso ruolo che riveste la filosofia. Eros è la personificazione del filosofo. Il cammino di Amore, nota Vannini, è un cammino di accrescimento per gradi: vengono amati i corpi belli, quindi le anime belle, la bellezza nelle leggi, la bellezza nella conoscenza e, infine, il Bello-in-sé. Sono come dei gradini che conducono dal molteplice all’uno. Il Bello-in-sé non è un oggetto o una qualità fra le cose della terra e del cielo; ma è in-sé e per-sé. Questa conoscenza del Bello non è una conoscenza razionale, si veda a proposito Simposio 211 A-D. La visione del Bello è exáiphnes, subitanea, ‘all’improvviso’ (Simposio, 210 E), «come un dono di grazia» suggerisce Vannini. Il passo appena letto potrebbe essere avvicinato al commento che Simone Weil fa su Repubblica, VI, 492 A-493 A: «la grazia è l’unica fonte di salvezza, la salvezza viene da Dio e non dall’uomo». Colli nota accortamente il fatto che Diotima riservi dei dubbi sul fatto che Socrate possa seguire il suo discorso (Simposio, 210 A); mettendo così in luce la natura mistica di questa conoscenza. Per Diotima quando si contempla il Bello la vita diviene per l’uomo degna di esser vissuta. Inoltre colui che contempla il divino diventa amico di Dio e immortale. Nel Simposio Vannini rintraccia alcuni punti fondamentali per il cammino della mistica, l’unità del tutto (umano e divino) per la mediazione del demone. Amore mette in contatto Dio e l’uomo (Dio è il Bene/Bello oltre l’essere). Inoltre il percorso verso la Bellezza è un percorso intrapreso da Amore e conoscenza che come volontà ed intelletto sono complementari. Il desiderio profondo che si annida in questo itinerario è la contemplazione del Bene e da qui la generazione del logos (che nota Vannini sarà poi lo specifico di Eckhart). L’itinerario si struttura in una serie di passaggi, da un bello inferiore, ad uno superiore. La Bellezza ultima è per Platone théion, il divino-in-sé, una pura luce. Questo Bene, oltre l’essere, non è una cosa fra le altre, ma è ciò che permette la realtà. La meta dell’itinerario è il synéinai (‘essere insieme’) al divino. Soltanto così la vita si fa degna di essere vissuta. Tale uomo è thofilés (‘amico di Dio’). È distacco, purificazione e non meschino disimpegno; tanto più che nella lettura di Colli abbiamo visto l’oggettivazione di queste esperienze mistiche. E in fondo, dobbiamo dirlo, grande immagine di questo, come di tutto il pensiero platonico (Reale), è il mito della caverna (Repubblica, VII, 514 B-520 A). La situazione umana è di ignoranza, di menzogna; occorre la conversio, l’epistrophé di tutta l’anima. La filosofia è percorso di purificazione (secondo l’antica tesi pitagorica); purificazione dalle vane opinioni attraverso il logos che conduce all’Uno. La filosofia platonica per Vannini è operazione morale e intellettuale di distacco; nella ‘pianura della verità’ l’uomo è puro e bello, ha le caratteristiche di Dio. La conversione, il distacco, avviene per ‘sorte divina’, e permette di grado in grado l’ascesa al Bene, la cui immagine sensibile è il Sole. Il Sole in effetti non è una cosa fra le cose, ma ciò che permette la visione delle cose stesse. Il Bene permette di tenere insieme le idee, il Bene è l’Uno; vertice del suo insegnamento è l’esperienza dell’Uno. Si dovrebbe studiare quanto la interpretazione della scuola di Tubinga-Milano di Platone e la proposta della Dottrina dei Principi sia avvicinabile alla lettura mistica di Platone. L’esperienza del Bene è il sapere supremo ed universale. Alla luce di quanto detto basandosi sul mito della biga alata nel Fedro (246 A-249 D), si può affermare che il cammino dell’anima nella vita umana è un ritorno. In effetti, osserva Vannini, «la mistica, l’esperienza dell’Uno, non può pensare la vita umana fuori dall’Uno». La bellezza sensibile ridesta all’anima ciò che ha contemplato; allora l’anima intraprende il ritorno.

Platone, inoltre, è colui che conia il termine ‘teologia’ per distinguere il suo discorso dal discorso dei poeti. La teologia per Platone consiste nel sapere che Dio è sommamente giusto, si veda Repubblica, 379 A. Dio è totalmente buono, causa unica del bene. L’anima nel suo itinerario deve sfuggire al mondo di quaggiù per farsi ‘amica’ e ‘simile’ a Dio, il divino. È decisiva la conversione al mondo del Bene, questo è il vero centro irradiante del pensiero platonico. Simone Weil legge la Repubblica come un autentico testo mistico che tratta in primo luogo dell’aspirazione dell’anima a ricongiungersi a Dio. La città ideale non sarebbe altro che il simbolo di questo avvenuto ricongiungimento, fra anima e Dio. Dio è buono e da lui può venire solo il bene. La somiglianza a Dio avviene solo nella giustizia; ma la vera giustizia è solo di origine divina, si veda Repubblica, VI, 493 A-D. Ma, tornando alla lettura di Colli, se è vero che nella Repubblica la verità mistica colta è oggettivata, ovvero resa logos, nel principio eminentemente politico del Bene; rimane pur sempre vero che questa verità è una conoscenza che nasce nell’anima in modo subitaneo, come il ‘risplendere di una luce’ (immagine poi cara alla mistica, suggerisce Colli). L’uomo conosce nella sua vita momenti di gioia, in gioventù, quando scopre la verità, «poi per tutta la vita soffre, nel tentativo di comunicarla, soltanto delusione». La verità non razionale persiste in lui, l’uomo ne è abitato, ma ciò che può scrivere è soltanto un gioco, Fedro, 276 D e anche Lettera VII, 343 A e sempre Lettera VII, 344 C-D. Scrive Colli: «Il segreto di Platone va cercato oltre i suoi dialoghi, occorre metterlo in relazione con i Presocratici e con la sua vita». Potremmo chiudere questo discorso, di certo parziale, ripetendo, con Simone Weil, che «Platone è un mistico autentico, e addirittura il padre della mistica occidentale» (La Grecia e le intuizioni precristiane).

   

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Platone, busto

Platone, busto

 

 

BREVE ANTOLOGIA

I brani scelti sono quelli citati sopra, o altri considerati interessanti per quanto detto; la traduzione è di Giovanni Reale.

 

Simposio, 221 C

Parla Alcibiade: «Di molte e di altre straordinarie cose si potrebbe continuare a lodare Socrate. Ma per queste altre qualità si potrebbero dire le stesse cose anche di altri. Invece, del fatto che egli non sia simile a nessuno degli uomini, né degli antichi né dei contemporanei, questa è la cosa degna di ogni meraviglia.»

 

Fedone, 118 A

Le ultime parole di Socrate: «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!»

 

Fedone, 64 C-65 C

Il percorso dell’anima verso la solitudine

Parla Socrate: «Ragioniamo, dunque, tra noi e lasciamo andare la gente. Riteniamo noi che la morte sia qualche cosa?»

Simmia: «Certo»

Socrate: «E riteniamo che sia altro che non una separazione dell’anima dal corpo? E che essere morto non sia altro che questo: da un lato, l’essere il corpo, separatosi dall’anima, da sé solo, e dall’altro, l’essere l’anima, separatasi dal corpo, da sé sola? O dobbiamo ritenere che la morte sia qualcos’altro e non questo?»

Simmia: «No, questo»

Socrate: «Guarda ora, o carissimo, se anche tu sei del mio parere; infatti, da quello che ora diremo, penso, risulterà chiaro ciò che noi ricerchiamo. Ti pare che sia degno di un filosofo avere cura dei piaceri di questo tipo, vale a dire dei cibi e delle bevande?»

Simmia: «Assolutamente no, o Socrate»

Socrate: «E dei piaceri di amore?»

Simmia: «Niente affatto»

Socrate: «E che ne dici delle altre cure del corpo? Ti pare che il filosofo le tenga in pregio? Per esempio, il possesso di bei mantelli, di bei calzari e degli altri ornamenti del corpo, ti pare che egli li abbia in pregio o in dispregio, se non per quel poco che è costretto a farne uso?»

Simmia: «Mi pare che non li apprezzi chi è veramente filosofo»

Socrate: «E, dunque non ti pare che la preoccupazione del filosofo non sia rivolta al corpo; ma che anzi, per quanto egli può, si ritragga da quello e si rivolga, invece, all’anima?»

Simmia: «Mi pare di sì»

Socrate: «E allora, non è evidente, innanzi tutto, che il filosofo, diversamente dagli altri uomini, per quanto riguarda questo genere di cose, cerca di liberare l’anima dal corpo, quanto più gli è possibile?»

Simmia: «È chiaro»

Socrate: «E la gente, poi, o Simmia, crede che, per colui che di tali cose non gode e non partecipa, non valga la pena di vivere, e che colui che non si cura dei piaceri che si hanno per mezzo del corpo, tenda, in certo senso, a star vicino alla morte?»

Simmia: «Verissimo quello che dici»

Socrate: «E che dici, poi, dell’acquisto della saggezza? Il corpo è di ostacolo, oppure no, se noi lo prendiamo come compagno nella ricerca di essa? Voglio dire, ad esempio, questo: la vista e l’udito hanno per gli uomini qualche valore di verità? O non ci dicono continuamente anche i poeti codeste cose, ossia che noi con gli occhi non vediamo nulla di sicuro e con le orecchie non sentiamo nulla di sicuro? Ma se questi sensi del corpo non sono sicuri né chiari, tanto meno lo saranno gli altri, perché, a paragone di questi, tutti gli altri hanno un valore minore. O non ti sembra?

Simmia: «Certamente»

Socrate: «Allora, quando l’anima coglie il vero? Infatti, quando essa tenta di indagare qualcosa insieme al corpo, è evidente che è tratta in inganno da esso»

Simmia: «Dici il vero»

Socrate: «E non è forse nel ragionamento, se mai in qualche parte, che all’anima si manifesta qualcuno degli esseri?

Simmia: «Sì»

Socrate: «Allora, l’anima non ragiona forse nel modo migliore, quando nessuno di questi sensi la turbi, né la vista, né l’udito, né il piacere, né il dolore, ma quando si raccolga il più possibile in se stessa, lasciando il corpo, e, rompendo il contatto e la comunanza col corpo nella misura in cui può, si protenda verso l’essere

Simmia: «È così»

 

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Fedone, 83 A

Parla Socrate; l’anima del filosofo si libera dalle passioni del corpo

«…ebbene, come dicevamo, questi uomini che amano il sapere sanno che la filosofia, prendendo la loro anima che si trova in tali condizioni, dà ad essa consiglio e cerca di scioglierla, dimostrando che l’indagine che si conduce mediante gli occhi è piena di inganni, e così anche l’indagine che si conduce mediante gli orecchi e gli altri sensi, persuadendola ad abbandonare questi, se non per quel tanto che è necessario far uso di essi, ed esortandola a raccogliersi in se stessa e non credere a nient’altro che a se stessa…»

 

Fedone, 79 D

Parla Socrate; anima è sugghenés alle idee

«Ma quando l’anima, restando in sé sola e per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, in quanto è ad esso congenere, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato all’anima si chiama intelligenza»

 

Fedone, 66 A

Parla Socrate; l’anima coglie l’essere quando si libera dal corpo

«E non è forse vero che potrà fare questo nella maniera più pura colui il quale, per quanto è possibile, si accosta a ciascuna realtà con la ragione stessa, senza mettere innanzi al suo ragionare la vista, e senza prendere a compagno del suo pensiero alcun altro senso dl corpo e, valendosi della pura ragione in sé e per sé, intraprende a fare ricerca di ciascuno degli esseri nella sua purezza in sé e per sé, dopo essersi separato il più possibile dagli occhi e dagli orecchi e, in una parola, da tutto il corpo, in quanto esso turba l’anima e non le lascia acquistare verità e saggezza, quando ha comunione con essa? Non è forse costui, o Simmia, colui che, più di chiunque altro, avrà la possibilità di attingere l’essere?»

 

Fedone, 69 C-D

Parla Socrate; si riferisce ai misteri

«E si dà il caso che non siano uomini da poco coloro che istituirono i misteri: e in verità già dai tempi antichi ci hanno rivelato per enigmi che colui che giungerà all’Ade senza essersi iniziato e senza essersi purificato, giacerà in mezzo al fango; invece colui che si è iniziato e si è purificato, giungendo colà, abiterà con gli dei. Gli interpreti dei misteri dicono che ‘i portatori di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi’ [molti sono coloro che nelle cerimonie portano il tirso, ma pochi sanno aderire interiormente al dio Dioniso, ossia sanno sentire il dio in sé e farsi uno con lui]. E costoro, io penso, non sono se non coloro che praticano rettamente la filosofia. E, anche io, per essere fra questi, non ho tralasciato nessuna cosa in vita mia, per quanto mi fu possibile, anzi vi ho messo ogni cura. E se io vi abbia messo la giusta cura e ne abbia tratto qualche frutto, noi lo sapremo chiaramente quando arriveremo là, cioè, se il dio voglia, tra poco, come credo»

 

Fedone, 81 A

Socrate ancora si riferisce agli iniziati

«E allora, un’anima che si è preparata in tal modo, non se ne andrà verso ciò che le assomiglia, verso ciò che è invisibile, divino, immortale, intelligente, dove, una volta giunta, le toccherà di essere veramente felice, libera dagli erramenti, dalle stoltezze, dalle paure, dai selvaggi amori e dagli altri mali umani, passando tutto il resto del tempo con gli dèi, come si racconta degli iniziati?»

 

Fedro, 249 B

Parla Socrate; importanza del sensibile anche per la vera conoscenza; contesto del ritorno delle anime nei corpi, dopo un tempo determinato (metempsicosi)

«Al millesimo anno, poi, sia le une che le altre [quelle anime che hanno seguito la Giustizia e quelle che non l’hanno seguita], giunte al momento del sorteggio e della scelta della seconda vita terrena, operano tale scelta, ciascuna scegliendo secondo ciò che vuole. A questo punto, un’anima umana può passare anche in una vita di bestia, e chi era stato una volta uomo può tornare ancora una volta da animale ad essere uomo. In effetti, l’anima che non ha mai contemplato la verità non potrà mai giungere alla forma d’uomo. Bisogna, infatti, che l’uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata Idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta con il pensiero»

 

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Fedro, 249 C-E

Parla Socrate; l’uomo si divinizza nella conoscenza; nessi fra la reminiscenza e la ‘mania’ dell’amore

«Perciò giustamente solo l’anima del filosofo mette le ali. Infatti con il ricordo, nella misura in cui gli è possibile, egli è sempre in rapporto con quelle realtà, in relazione alle quali anche un dio è divino. Un uomo che si serva di tali reminiscenze in modo retto, in quanto è sempre iniziato a misteri perfetti, diventa, lui solo, veramente perfetto. Però, in quanto si allontana dalle occupazioni umane e si rivolge al divino, viene accusato dai più di essere uscito di senno. Ma sfugge ai più che egli, invece, è invasato da un dio. È questa la conclusione cui perviene tutto il discorso sulla quarta forma di mania per la quale, quando uno veda la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali, e desideroso di volare, ma rimanendo incapace, guardando verso l’alto come un uccello e non prendendosi cura delle cose di quaggiù, riceve l’accusa di trovarsi in uno stato di mania»

 

Fedro, 244 A-245 C

Socrate parla; “Fedro come lode alla follia dionisiaca” (Colli)

«Invece, i beni più grandi ci provengono mediante una mania che ci viene data per concessione divina […]. In terzo luogo viene l’invasamento e la mania che proviene dalle Muse, che, impossessatasi di un’anima tenera e pura, la desta e la trae fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie, e, rendendo onore ad innumerevoli opere degli antichi, istruisce i posteri. Ma colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, pensando che potrà essere valido poeta in conseguenza dell’arte, rimane incompleto, e la poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quella di coloro che sono posseduti da mania. […] Dobbiamo dimostrare come per nostra grandissima fortuna una mania di questo genere ci viene data dagli dèi»

 

Fedro, 247 B-D

Socrate, nella follia amorosa e poetica l’anima si sente una con l’essenza universale

«Infatti, allorché le anime che sono dette immortali pervengono alla sommità del cielo, procedendo al di fuori, si posano sulla volta del cielo, e la rotazione del cielo le trasporta così posate, ed esse contemplano le cose che stanno al di fuori del cielo. L’Iperuranio, il luogo sopraceleste, nessuno dei poeti di quaggiù lo cantò mai, né mai lo canterà in modo degno. […] L’essere che realmente è, senza colore, privo di figura e non visibile, e che può essere contemplato solo dalla guida dell’anima, ossia l’intelletto, e intorno a cui verte la conoscenza vera, occupa tale luogo. Ora, poiché la ragione di un dio è nutrita da una intelligenza e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui prema di conoscere ciò che le conviene, quando vede dopo un certo tempo l’essere, si allieta, e, contemplando la verità, se ne nutre e ne gode, finché la rotazione del cielo non l’abbia riportata allo stesso punto»

 

Repubblica, VI, 492 A

Parla Socrate; Simone Weil commenta dicendo che «la salvezza viene da Dio e non dall’uomo»

«Dunque, io sono convinto che la natura del filosofo, così come l’abbiamo supposta, quando si incontri con la giusta educazione, è necessario che con la crescita raggiunga ogni forma di virtù; se invece, per il fatto di non essere stata seminata e piantata nel giusto ambiente è male allevata, tende nella direzione opposta, a meno che un dio non accorra in suo soccorso»

 

Simposio, 211 A-B

Parla Diotima a Socrate, la conoscenza del Bello non è una conoscenza razionale

«Chi sia stato educato fino a questo punto alle cose d’amore, contemplando una dopo l’altra e nel modo giusto le cose belle, scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura meraviglioso, proprio quello, o Socrate, a motivo del quale sono state sostenute tutte le fatiche di prima: in primo luogo, qualcosa che sempre è, e che non nasce né perisce, non cresce né diminuisce, e inoltre non è da un lato bello e dall’altro brutto, né talora bello e talora no, né bello in relazione ad una cosa e brutto in relazione ad un’altra, né bello in una parte e brutto in un’altra, né in quanto bello per alcuni e brutto per altri. E neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o come delle mani, né come alcun’altra delle cose di cui il corpo partecipa; né si mostrerà come un discorso e come una scienza, né come qualcosa che è in qualcos’altro, ad esempio in un essere vivente, oppure in terra o in cielo, o in qualcos’altro, ma si manifesterà in se stesso, per se stesso, con se stesso, come forma unica che sempre è. Invece , tutte le altre cose belle partecipano di quello in un modo tale che, anche se esse nascono e periscono, quello in nulla diventa maggiore o minore, né patisce nulla»

 

Simposio, 210 A

Diotima: «Parlerò io e metterò tutto il mio impegno, e tu cerca di seguirmi, se ne sei capace»

 

Simposio, 210 E

Parla Diotima; la visione subitanea del Bello

«Ora cerca di fare attenzione quanto più ti è possibile. Chi sia stato educato fino a questo punto rispetto alle cose di amore, contemplando una dopo l’altra e nel modo giusto le cose belle, costui, pervenendo ormai al termine delle cose d’amore, scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura meraviglioso, proprio quello, o Socrate, a motivo del quale sono state sostenute tutte le fatiche di prima […]»

 

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Repubblica, II, 379 B

Dio è buono ed è causa di soli beni, altra è la causa dei mali

Socrate: «Dunque, siccome nella realtà dio è buono, così va raffigurato»

Adimanto: «Come no?»

Socrate: «Ma non c’è bene che sia nocivo; o non sei di quest’avviso?»

Adimanto: «A me non sembra»

Socrate: «E potrebbe mai ciò che non è nocivo recar danno?»

Adimanto: «Assolutamente no»

Socrate: «E ciò che non reca danno potrebbe fare del male?»

Adimanto: «Neppure questo è possibile»

Socrate: «E ciò che non fa male potrebbe essere all’origine di un qualche male?»

Adimanto: «E come potrebbe?»

Socrate: «E il bene non è forse qualcosa di utile?»

Adimanto: «Sì»

Socrate: «Allora dal bene non deriva ogni cosa, bensì esso è causa solo di effetti positivi, e di quelli negativi non è causa»

[...]

Socrate: «Di conseguenza dio, in quanto è buono, non potrebbe essere responsabile di tutti gli avvenimenti, come i più sostengono; al contrario, delle vicende umane solo una minima parte gli può essere addebitata, dalla maggior parte, invece, è incolpevole. Per noi uomini, infatti, i beni sono molto più scarsi dei mali, e se dei primi non si deve trovare nessun’altra causa <al di fuori di dio>, dei secondi ne andrà assolutamente trovata un’altra che non sia dio»

 

Fedro, 276 D

Socrate; ciò che è scritto è soltanto un gioco

«E quando gli altri si dedicheranno ad altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri simili a questi, egli [chi ha la scienza del giusto, del bello e del buono] allora, come sembra, invece che in quelli passerà la sua vita dilettandosi nelle cose che io dico»

 

Il mito della caverna, contenuto nel settimo libro della Repubblica, può essere letto al link:

http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/PLATONE_ IL MITO DELLA CAVERNA (.htm 

 

Il mito della biga alata, contenuto nel Fedro, si trova al link:

http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/PLATONE_ IL MITO DELLA BIGA ALAT.htm

 

 

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