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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di Antonello Lotti

 

Mistica, vita spirituale e psicologia

 

Luxor, Volto di una delle statue colossali nel cortile di Ramesse II

Luxor, Volto di una delle statue colossali nel cortile di Ramesse II

 

 

«La conoscenza dello spirito è la più concreta delle conoscenze, e perciò la più alta e difficile. Conosci te stesso, questo precetto assoluto non ha – né preso per sé né dove lo si incontra storicamente espresso – il significato di una conoscenza di sé medesimo come delle proprie capacità particolari (carattere, inclinazioni e debolezze dell’individuo), ma significa invece la conoscenza di ciò che è la verità dell’uomo, della verità in sé e per sé, dell’essenza stessa in quanto spirito.» 
(G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. II, § 377)

 

 

Indice

 

 

 

Bibliografia ragionata

 

Il presente elenco alfabetico è basato sulle opere consultate e non pretende di essere completo relativamente al tema della pagina. Come sempre, suggerisco un percorso che andrà ulteriormente approfondito personalmente:

  • Klaus Berger, Psicologia storica del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1994

    Più che di psicologia, si intende qui parlare di esperienze umane. Infatti, non è un testo di psicologia dei personaggi del Nuovo Testamento, né una ricostruzione dei profili psicologici di Gesù e dei discepoli. L'Autore, che è professore di teologia del N.T. intende comprendere alcuni passaggi attraverso una interpretazione non consueta, di stampo psicologico in senso molto generale. Interessante dal punto di vista di arricchimento di una esegesi più ordinaria.

  • Maurice Bellet, L'estasi della vita, EDB, Bologna 1996

    Filosofo con formazione psicoanalitica è un Autore di molte opere sulla situazione della religione nella società attuale. Il titolo evoca un'espressione di Francesco di Sales che riporta alla necessità di vivere il proprio mondo interiore e la propria vita quotidiana come estasi di fronte all'infinita possibilità che può assumere davanti a Dio. Non è un testo facile né di immediata comprensione, ma affascinante per la tematica esplorata in modo comunque originale.

  • Eugen Drewermann, Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, Brescia 1992

    L'opera è una sintesi di tre volumi editi a partire dal 1982 da Drewermann, teologo e psicoterapeuta. Ha suscitato molto scandalo all'uscita in quanto l'Autore intende dimostrare l'importanza di una fattiva collaborazione fra scienze umane e teologia morale cristiana. A leggerla oggi, lo scandalo appare del tutto scomparso. Non solo, ma alcune enunciazioni o classificazioni appaiono, soprattutto per la psicologia o la psichiatria attuali, completamente superate. 

  • Eugen Drewermann, Parola che salva, parola che guarisce. La forza liberatrice della fede, Queriniana, Brescia 1997

    Il libro è un insieme di interviste rilasciate da Drewermann distribuite in tre sezioni di cui la terza attiene in maniera speciale alla nostra tematica. Gli si domanda infatti quale sia il rapporto fra psicoanalisi e teologia e in particolare come attingere contributi validi da entrambi i campi al fine di liberare l'uomo dalle proprie paure e dalle proprie angosce per vivere una vita in pienezza.

  • UMBERTO GALIMBERTI, Gli equivoci dell'anima, Feltrinelli, Milano 1997 (10°)

    La parola anima, nell'attraversare i più svariati sistemi di pensiero (filosofico, religioso, antropologico, psicologico)genera una serie di equivoci in cui si nascondono variazioni potenti di significato. L'Autore muove da Platone analizzando il significato dell'anima secondo due direttrici: da un lato, quello della ragione e il governo di sé, dall'altro con l'abisso della follia e la dissoluzione dell'individuo. 

  • Luis Jorge González, Psicologia dei mistici. Sviluppo umano in pienezza, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001

    Il testo non è di psicologia, né solo di teologia, o di spiritualità. Si pone come un tentativo di applicare le conoscenze della psicologia attuale alla comprensione della psicologia vissuta e usata dai mistici. L'Autore, carmelitano, indica un percorso di psicologia mistica, e lascia intendere che i mistici non sono solo coloro che hanno percorso la propria vita attraverso rinunce, sforzi, lotte e purificazioni, ma anche e soprattutto attraverso un amore senza confini, che ha permesso loro uno sviluppo pienamente umano.

  • Benito Goya, Psicologia e vita spirituale. Sinfonia a due mani, EDB, Bologna 2000

    L'Autore, carmelitano, insegna in alcune Università romane. Lo scopo del libro è di portare alla convinzione che una fede adulta deve procedere all'unisono con la maturità umana (psicologica). Per cui è scorretto e improduttivo separare le due cose che devono invece giocare la loro parte come in una sinfonia.

  • Anselm Grün, Lacerazioni. Il cammino verso l'unità personale, Edizioni Messaggero, Padova 2001

    L'Autore è un monaco benedettino tedesco che dirige un centro di spiritualità nei pressi di Würzburg. Conferenziere, psicoterapeuta e scrittore di moltissimi libri tradotti anche in italiano, che hanno un successo notevole. Si può dire che ha scritto di tutto, dalla biblica alla teologia, dalla spiritualità alla psicologia. In questo volume, attingendo alla tradizione degli antichi monaci del deserto e alle conoscenze della moderna psicologia, analizza la condizione di molti contemporanei, frammentati interiormente, invitando a riscoprire la presenza del divino nell'intimo del cuore umano, che rende nuovamente rendere unita la persona.

  • Anselm Grün, Il libro dell'arte della vita, Queriniana, Brescia 2003

    Brevi meditazioni al confine fra spirituale e psicologico che costituiscono un invito alla riflessione e al cambiamento interiore, per vivere una vita più vera ed intensa e pervenire, nei limiti del possibile, alla felicità. La vita è un'arte che va appresa soprattutto nel ridimensionare le pretese del mondo e personali verso se stessi, evitando di lasciarsi prendere dalla frenesia dei tempi attuali e cercando ciò che davvero è importante per la vita.

  • Anselm Grün, La cura dell'anima. L'esperienza di Dio tra fede e psicologia, Paoline, Milano 2004

    Il libro è una lunga intervista al monaco benedettino da parte di Jan Paulas e Jaroslaw Šebek. Parla della propria vita, infanzia e giovinezza, del Concilio Vaticano II, della vita religiosa, si sofferma sulla preghiera, sulla Chiesa da rinnovare, sull'amore di Dio e ovviamente sulla fede e la psicologia. 

  • Willigis Jäger, L'onda è il mare, Appunti di Viaggio, Roma 2004

    L'Autore, monaco benedettino nato nel 1925 in Germania, ha coltivato nel corso degli ultimi anni una passione per lo Zen, fino a diventarne maestro nel 1996. Nel 2001 la Congregazione per la dottrina della fede ha deciso di vietargli lo svolgimento di qualunque attività pubblica (discorsi, corsi o pubblicazioni). In questo suo libro, che è una lunga intervista, egli tratteggia il senso di una vita mistica realizzabile attraverso il contributo delle filosofie orientali, in particolare lo Zen. In queste culture, Dio non è visto come qualcosa di estraneo o distante dall'uomo, ma un tutto onnicomprensivo di Dio, spirito, materia. 

  • ALDO STELLA, Per una concezione filosofica dello "psichico", Borla, Roma 1992

    L'Autore ha inteso indagare in senso filosofico sul tema dello "psichico", precisando alcuni concetti di fondo come esperienza, realtà, coscienza, analisi, dialogo, sapere. Vale la pena di leggere tutti i suoi scritti, basati su una riflessione teoretica che restituisce una diversa luce ai temi della psicologia, della psicoanalisi e della vita interiore. Le sue riflessioni asciutte, rigorose e precise, aprono comunque ad un senso di trascendenza percepibile da tutti coloro che sono alla ricerca della Verità.

  • Marco Vannini, La morte dell'anima. Dalla mistica alla psicologia, Casa editrice Le Lettere, Firenze 2003

    L'Autore è conosciuto avendo curato traduzioni di opere di molti mistici: Eckhart, Taulero, Silesius, Gerson, Fénelon, etc. In questo testo tende a sottolineare come il recupero dell'esperienza mistica sia indispensabile alla costituzione di un vero sapere dell'anima, cui la psicologia, ferma allo studio di un "io" limitato dai propri legami, non può portare. La tradizione mistica e filosofica (da Cartesio a Hegel) ha invece posto le basi per la scoperta del fondo dell'anima – che è il superamento dell'"io" semplice e limitato – , ossia il luogo ideale dove l'anima umana si unisce indissolubilmente a Dio.

 

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Introduzione e precisazione

 

Per alcuni, il termine «psicologia» risalirebbe al riformatore ed umanista tedesco Philippe Schwarzherde (grecizzato in Filippo Melantone, 1497-1560), riferendosi genericamente allo studio della psiche. Per altri invece al logico del XVI secolo, Rodolfo Goclenio, professore a Marburgo, ormai dimenticato. È comunque nella seconda metà dell'Ottocento che con William Wundt l'indagine psicologica si stacca dalla filosofia speculativa per aprirsi alla metodologia delle scienze naturali, adottando criteri di sperimentazione e di quantificazione. La psicologia scientifica ha sostituito il concetto di psiche con quello di comportamento. Il comportamento non è solo quello osservabile dall'esterno, ma è l'insieme dei processi psicologici, consci ed inconsci, attraverso i quali la persona costruisce le proprie risposte. Visto in questa ottica, è chiaro che la psicologia si interessa dei comportamenti in genere e, nell'ambito delle proprie metodologie, si può occupare anche dei comportamenti mistici sia a livello psico-fisiologico (come risposta organica dell'individuo, ad es. nell'estasi) che clinico (colloqui, racconto di esperienze, etc.). Quello, insomma, che un tempo era riservato alla teologia spirituale, ora può essere svolto anche da un altro versante, scientifico, dalla psicologia. E non sono mancati casi di religiosi legati alla psicologia scientifica, come ad es., P. Agostino Gemelli, il quale era allo stesso tempo frate e psicologo, con tutti i limiti in entrambi i campi. 

Che la psicologia possa servire alla teologia è una questione molto interessante e dibattuta. Da diverso tempo, ormai, negli ordini religiosi sono invalse pratiche di psicologia applicata alle vocazioni, al discernimento, alla direzione spirituale. Molti sacerdoti e religiosi sono formati con insegnamenti di psicologia, hanno titoli scientifici, sono laureati in psicologia o hanno seguito appositi corsi. Un esame psicologico viene richiesto per essere ammessi in molte congregazioni religiose e si richiede l'aiuto dello psicologo per problematiche legate alla vita consacrata (anche con psicoterapie). Non ultimo, il caso di molti sacerdoti, religiosi, uomini di spiritualità che scrivono libri di grande successo su temi al confine fra lo spirituale e lo psicologico (Drewermann, Grün, Jäger, Bellet). D'altronde, tale discrimine non è così preciso come si vorrebbe (soprattutto da parte della psicologia). Fino a che punto, infatti, è possibile giudicare un'esperienza spirituale con criteri scientifici legati alla psicologia? Ovviamente la psicologia afferma che è possibile. Studiando i comportamenti (tutti i comportamenti), la psicologia non può che prendere atto che ne esiste anche uno spirituale (dalle varie gradazioni, dal semplice affermare di credere in Dio alle esperienze mistiche) e connotarlo secondo le proprie coordinate metodologiche.

In particolare, da quando si è imposto il manuale diagnostico-statistico dei disturbi mentali (DSM) dall'America a tutto il mondo, la psicologia si è trasformata sempre più in psichiatria della mente. Se si fa caso ai vari disturbi elencati si vede che è difficilissimo non rientrare in alcune o molte delle tipologie descritte. A maggior ragione, quando si voglia analizzare alcuni comportamenti mistici. Nel libro citato nella pagina dei FENOMENI STRAORDINARI NEI MISTICI, Armando De Vincentiis, psicologo, traccia alcune osservazioni psicopatologiche dei processi estatici e non solo (accorpando stimmate a possessioni), dando per conclusione la seguente: «Con le loro manifestazioni psicofisiche quali stimmate, estasi o possessioni, le patologie a carattere religioso rappresentano un interessante rompicapo per la psicologia e la medicina psicosomatica» (pag. 93). Egli mette insieme estasi, stimmate e possessioni diaboliche e le definisce chiaramente «patologie a carattere religioso». D'altro lato, ammette si tratti di un rompicapo per la psicologia, ossia di un problema che non è ben definito e tanto meno univoco ed invoca una modalità di approccio multilaterale fra medicina, psicologia ed antropologia, finora mai realizzato. 

Appare dunque chiaro come un certo approccio positivista sia alla psicologia che alla spiritualità sia non solo dannoso allo spirito (che non è per nulla compreso e tanto meno aiutato), ma anche fuorviante per una presunta risoluzione di problemi che comunque rimarranno sempre. Il margine di non comprensibile probabilmente è tale perché tale deve rimanere e né la psicologia, né la teologia potranno mai esaurire la loro competenza. L'unica cosa è come sempre avere un atteggiamento umile di fronte a ciò che non si conosce, né per esperienza personale, né per resoconti o studi effettuati da altri. Tale umiltà intelligente (da parte della psicologia nei confronti della spiritualità e della teologia nel saper discernere l'effettivo apporto della psicologia) è solo il primo passo per esplorare ancora di più le profondità dell'animo umano, secondo la lezione delle grandi figure spirituali, così come dei contributi che scienze diverse (psicologia, medicina, antropologia, sociologia) possono apportare.

 

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Il concetto di Anima (Psiche) e mente

 

Seguendo le indicazioni fornite da U. Galimberti, nel suo Dizionario di psicologia, possiamo dire che, partendo dall'Orfismo (vedi pagina dedicata ai CULTI MISTERICI), Platone elabora il concetto di anima (dal greco ànemos, vento) ponendo una distinzione col corpo, dando avvio al dualismo antropologico che fino ad allora era ignoto alle varie culture (ad es. a quella ebraica). Tale concezione entrò nell'ambito cristiano grazie anche alla traduzione in greco dei testi della Bibbia. Aristotele si oppose al concetto sostanziale di anima, che egli pensò più come forma (entélecheia) del corpo, ossia come principio che determina la corporeità. Tommaso d'Aquino compose la contrapposizione definendo l'anima come sostanza riconoscendole la sola funzione intellettiva, attribuendo al corpo la funzione sensitiva e vegetativa. Si parla di anima come di una sostanza incompleta. È di per sé sussistente poiché svolge operazioni sue proprie (autoriflessione), sebbene non eserciti da sola tutte le sue operazioni (ad es., sentire non è possibile senza il corpo). 

R. Descartes definì in modo ancora più evidente un dualismo psicofisico (nelle forme della res cogitans e res extensa) che condizionerà la psicologia nelle sue espressioni. La parola mente acquista una sua rilevanza semantica proprio con Cartesio: alla res extensa appartengono tutte le cose materiali caratterizzate dall'estensione e dal movimento (meccanicismo) che seguono la legge deterministica della causalità (determinismo), mentre alla res cogitans appartiene il pensiero che sfugge al meccanicismo e al determinismo. Solo con E. Husserl e poi con L. Biswanger tale concetto sarà demolito, definendolo un «errore seducente», ma anche un «cancro della psicologia». 

Accanto all'itinerario cartesiano, esisteva il modello empirista di D. Hume, il quale aveva pensato l'anima come un fascio di eventi psichici in continuo flusso e movimento che traevano origine dalle impressioni sensoriali. Da questo modello trasse spunto l'ipotesi positivista, per cui l'anima è l'insieme degli stati di coscienza che risultano dall'associarsi di elementi più semplici (elementarismo) e quella fisicalista che sostiene, attraverso J.J.C. Smart e R. Carnap, il carattere puramente nominale della parola anima cui non corrisponde alcun contenuto scientificamente indicabile. In ambito psicologico, solo C.G. Jung ha usato molto la parola anima che egli impiega in due accezioni: una generale, dove si intende l'interiorità dell'uomo in contrapposizione alla sua maschera esteriore, e una specifica, dove l'anima è la parte controsessuale del maschio, ossia il femminile come componente  inconscia. 

Infine, il termine coscienza ha, per la filosofia, il significato di un «rapporto dell'anima con se stessa, di una relazione intrinseca all'uomo interiore o spirituale, per il quale egli può conoscersi in modo immediato e privilegiato e perciò giudicarsi in modo sicuro e infallibile» (Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia). 

 

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Il primato della  Coscienza

 

Per introdurre una critica all'evoluzione, a parer mio, negativa del concetto di anima (psiche) e di mente, vale la pena citare quanto affermato in modo pregnante da Aldo Stella nel suo volume Medicare e meditare. Fondamenti teorici per una scienza unificata della salute, alle pagine 221-223 e 336: 

«La conoscenza della mente è stata inizialmente una conoscenza filosofica: la psicologia è figlia della filosofia. La mente, da un punto di vista filosofico, è essenzialmente pensiero, coscienza, sì che ogni conoscenza di fatto comparente non può non riferirsi al pensiero, che ne costituisce senso e valore. [...] Senza il pensiero, senza la coscienza, niente sarebbe; tutto ciò che si pone, si pone in virtù della coscienza e del pensiero che consentono alle cose di determinarsi. Anche ciò che non è coscienza, l'oggetto, non sarebbe senza la coscienza che lo rileva. 

«Per esprimere il valore di fondamento che ha la coscienza, intesa in questo senso di condizione assoluta e incondizionata [...] basti una elementare osservazione: se, da un punto di vista cronologico, la coscienza viene per ultima, da un punto di vista ontologico, invece, essa viene per prima, perché il "prima" e il "poi" sono conseguenza del suo essere. Spazio e tempo - ma questo l'aveva già insegnato Kant - sono forme della coscienza, sì che essa, da questo punto di vista, risulta inconoscibile poiché costituisce il fondamento di ogni atto conoscitivo, e non è dato conoscere, riducendolo a contenuto, ciò che vale come condizione incondizionata dello stesso conoscere. La coscienza ripropone l'assolutezza del fondamento, che non può essere inglobato, mediante la relazione, nell'ordine delle determinazioni relative, cioè nell'ordine delle conoscenze. Se venisse inglobato in questo ordine, perderebbe il valore di fondamento assoluto, di condizione incondizionata. 

«La stessa cosa può venire espressa anche così: se la soggettività, intesa come Soggettività autentica e fondante, fosse ridotta a oggetto di conoscenza, essa cesserebbe di essere Soggettività fondante. [...] Se il soggetto viene disposto tra gli oggetti, cessa di essere Soggetto; ma, se non viene posto come un oggetto tra gli altri, esso non può venire conosciuto. L'esigenza della scienza moderna è precisamente quella di conoscere il soggetto nei modi e nelle forme che sono propri di una conoscenza oggettuale, riducendolo dunque a oggetto tra oggetti, poiché solo così è analizzabile, quantificabile, misurabile, calcolabile. [...] La scienza empirica è strutturalmente riduzionista, anche quando cerca di non esserlo, perché pone in essere la riduzione fondamentale: la riduzione del soggetto a oggetto, della coscienza, che è fondante, a un contenuto di coscienza, del pensiero, che è l'Atto per pensare, a un pensato o un insieme di pensieri pensati. E la conseguenza è precisamente questa: la coscienza si riduce a un insieme di "stati di coscienza", a un insieme di "elementi psichici" o di "funzioni psichiche". [...] Alla psicologia scientifica immane l'ideale riduzionistico e fisicalistico. 

«La coscienza è la figura che, meglio di ogni altra, indica l'esigenza ideale di trascendere il fattuale, ossia l'esigenza di oltrepassare l'ordine all'interno del quale, tuttavia, si continua a permanere. Ci si colloca, inevitabilmente, nell'ordine dell'esperienza, nell'ordine delle determinazioni, delle conoscenze, dei discorsi, ma si intende, innegabilmente, emergere oltre tale ordine, onde pervenire alla sua verità, al suo fondamento, al principio, alla condizione incondizionata della serie dei condizionamenti, all'incontraddittorio, che emerge sulla contraddizione.»

 


Nota: Per un ulteriore approfondimento sul tema della coscienza, cfr. anche il suo volume Cognizione e coscienza. Precisazioni su alcuni concetti di scienza cognitiva, alle pagine 181-217.


 

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L'anima in Eckhart (cenni)

 

Nel libro citato in Bibliografia, Marco Vannini rivolge una critica alla Chiesa: quella di aver tenuto distinta l'anima da Dio, avendo quindi ridotto l'anima (più precisamente il fondo dell'anima, citando Meister Eckhart) a mere facoltà. L'anima, invece, per i mistici e in particolare per Eckhart, è il luogo dell'incontro con Dio, in cui non esiste l'uomo e Dio, ma un unicum che trascende l'uomo come Dio. L'anima ha una sola vita con Dio e questa è la vera conoscenza di Dio. Conoscere Dio significa sperimentarlo, ossia viverlo totalmente. Seguendo quando affermato dall'Autore, esaminiamo dunque la posizione di Eckhart.

Eckhart non crea, attraverso i suoi scritti, una dottrina dell'anima, nonostante il fatto che sia il maggiore maestro dell'anima in occidente (da qui il titolo di Meister, "maestro", appunto). Nonostante ciò, egli parla spesso dell'anima. Nel suo Sermone "Il Signore ha teso la mano", afferma:  

«Quando predico, sono solito parlare del distacco e di come l'uomo debba essere libero da se stesso e da tutte le cose. Poi, che l'uomo deve essere nuovamente conformato al Bene semplice che è Dio. In terzo luogo, che si ricordi della grande nobiltà che Dio ha posto nell'anima, in modo da giungere in modo meraviglioso fino a Dio.»

Il suo insegnamento ha dunque l'anima (nobilitata da Dio) come centro essenziale, togliendo ogni altra gerarchia o sistematizzazione precedente, affermando l'impossibilità di definire il concetto di anima, che rimane «senza nome». In particolare, l'anima perde il suo nome quando si allontana da tutte le creature e si congiunge a Dio, essere increato. Dio la attira a sé in modo tale che essa viene ridotta a nulla, così come «il sole attira in sé l'aurora». L'anima che intende conoscere Dio deve dimenticarsi di se stessa, perdersi, ridursi in nulla, in modo che Dio la possa attirare a sé. Questa perdita dell'anima in Dio, in realtà, non è una  perdita nel senso ordinario del termine, in quanto proprio in Dio essa si ritrova. E si ritrova nel perdersi continuamente e nel continuo perdere Dio stesso o meglio la concezione umana di Dio che lega Dio in un mistero comprensibile e compreso e quindi nega Dio e la sua assolutezza. 

La chiave della predicazione eckhartiana rimane il distacco, che si esercita proprio su tutto e che apre ad una estrema serenità, ad una gioia profonda, che è quella dell'uomo che vive "senza perché". La gioia del vivere è interna alla vita stessa e non in presunti fini fuori di essa, su cui possiamo non saper nulla. La coscienza comune non sa nulla della gioia estatica che sta in questo fare il vuoto, liberarsi da tutte le opinioni, accettando in letizia il presente come un dono, ove ogni cosa diviene manifestazione della luce eterna. Il distacco è nell'atto di negare il valore di propri contenuti. Tale negazione di se stessi, con cui si rimuove ogni elemento accidentale, soggettivo, cancella attese, desideri, espressioni di volontà, speranze ed ogni altra passione dando all'uomo lo sguardo di Dio stesso. Nel perfetto distacco si ha dunque un'apertura completa all'essere. 

In realtà, non sono le immagini creaturali in quanto tali ad impedire la nascita di Dio nell'anima, in quanto la colpa non è dell'immagine né delle potenze dell'anima, quanto del nostro attaccamento. Siamo noi la causa di tutti i nostri ostacoli. Se l'uomo si libera da ciò, egli scopre nel fondo dell'anima il suo vero io. L'unione con Dio non è una divinizzazione dell'uomo o dell'io personale, ma la sua sostituzione con il vero io. Questa parentela con Dio, che conferisce all'anima la sua nobiltà, si comprende anche biblicamente, essendo l'uomo immagine di Dio. 

«L'essenza, ovvero il fondo dell'anima, è l'immagine di Dio nell'anima. Nel suo fondo l'anima porta la pura immagine di Dio, che è la capacità di accoglierlo. La conformità dell'anima con Dio, in quanto capacità di accoglierlo, significa la presenza di un "luogo" per la nascita di Dio nell'anima» (op.cit., p. 120).

 


NOTA: Per un approfondimento concettuale, si legga il testo di M. Vannini alle pagine 103-152. 


 

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Alcuni Contributi

 

I contributi qui presentati possono essere di diverso orientamento, proprio a testimonianza del fatto che siamo in un ambito molto controverso. Il lettore saprà sicuramente discernere il senso dei vari contributi.

 

ANSELM Grün

 

 

La Chiesa ha sicuramente perso competenza nel campo della cura delle anime. Si è occupata troppo poco dell'anima del singolo e ne ha studiato troppo poco la struttura per poterla aiutare in modo adeguato nel cammino che porta a diventare uomini. Dovrebbe riappropriarsi della saggezza dei padri del deserto, che fungevano allora da veri e propri terapeuti per le persone in ricerca. Esiste una perdita di rapporti interpersonali forti. Un tempo si poteva discutere di molte cose con l'amico o con l'amica, o anche con un sacerdote nel colloquio pastorale o nella confessione. Oggi tutto questo non è più così ovvio: si ha sempre meno tempo per se stessi e per un buono scambio di idee. Ciò vale anche per la cura delle anime: l'attività frenetica rende impossibile un dialogo profondo

Abbiamo lasciato che la confessione degenerasse in un rituale vuoto. Una vera confessione è fatta anche di dialogo e per molti oggi la confessione sarebbe sicuramente una buona occasione per parlare dei propri lati oscuri e delle proprie colpe e per sperimentare nell'assoluzione l'accettazione incondizionata da parte di Dio. Perciò non dobbiamo trovare nuove forme di confessione (per esempio il colloquio con il confessore), ma favorire anche la formazione psicologica dei curatori d'anime. Chi si confessa cerca infatti qualcuno che lo capisca e sappia aiutarlo con competenza lungo il cammino spirituale. Chi offre ad altri un'assistenza spirituale deve conoscere l'animo umano. La tradizione spirituale ha sicuramente accumulato una grande saggezza nel trattare la psiche umana, ma oggi le conoscenze spirituali devono essere legate alle conoscenze psicologiche per essere all'altezza dell'uomo moderno. Chi assiste spiritualmente le persone senza alcuna nozione di psicologia può anche condurle verso ideali e percorsi morbosi perché non è in grado di riconoscere in tempo tratti patologici, nevrosi, ferite interiori o idee sbagliate.

La psicologia non risolve i problemi religiosi, ma ci stimola ad analizzare la nostra fede per scoprire dove si fonda su idee infantili e dove c'invita alla fuga dalla realtà della nostra anima. Alcune psicologie mi hanno donato la fiducia nel mio cammino spirituale. Mi hanno mostrato che il mio cammino spirituale porta anche alla salute psichica e dà un senso alla mia vita. La psicologia mi aiuta a prendere coscienza di tutta la mia esistenza. Il mio rapporto con Dio può essere vivo soltanto se sono in grado i offrirgli tutto ciò che è nascosto in me. Incontro spesso persone devote che presentano a Dio soltanto una parte di sé, perché non sono in grado di offrirgli le ferite presenti nel loro intimo. Perciò non possono avere un rapporto vivo con Dio. 

Di fronte a molti interrogativi la Chiesa appare impotente, come ad esempio di fronte al fatto che la ricerca spirituale non passi per di là, oppure di fronte alla crescente secolarizzazione e al declino dei valori tradizionali. Ho l'impressione che in questi campi la Chiesa sia troppo poco in contatto con gli aneliti dell'uomo d'oggi. Secondo me, le si presenta invece una grande occasione, perché, attingendo dalla propria tradizione spirituale, avrebbe molto da offrire proprio alla nostra società, che vive oggi un grande disorientamento. Non deve però cedere alla tentazione di dare soltanto le vecchie risposte, che attirano solo le persone psichicamente labili, ma non chi sta davvero cercando.

Le risposte vecchie sono che gli uomini sperimentano in Gesù Cristo la salvezza e la redenzione e che Gesù raduna gli uomini per formare una comunità nuova. È vero, e proprio la possibilità di un modo nuovo di convivere è molto importante in questo nostro tempo; nell'epoca dell'individualismo dobbiamo però prendere molto sul serio il fatto che Gesù si rivolge a ciascuno individualmente. Gesù vuole rinfrancare il singolo, vuol fargli sentire che è amato incondizionatamente. Gesù vuole liberare gli uomini dalla loro paura e comunicare loro una fiducia incrollabile nella vicinanza salvifica e nell'amore di Dio. Annunciare questo messaggio agli uomini di ogni tempo e fare in modo che possano sperimentarlo è il compito duraturo della Chiesa, la quale non deve inventare un nuovo messaggio, bensì trovare semplicemente una nuova lingua per annunciare oggi l'antico messaggio della Bibbia. 

Per me sono importanti tre immagini, a proposito della Chiesa odierna. La Chiesa dovrebbe diventare un luogo che comunica agli uomini un'esperienza spirituale; è l'immagine della Chiesa mistica. Secondo, dovrebbe cercare lo spazio per trovare un tipo nuovo di comunità, cioè lo spazio per la comprensione tra gli uomini. Ciò vale tanto per la Chiesa universale tra tutti i popoli, quanto per le Chiese locali. Nella comunità locale, ricchi e poveri, fedeli progressisti e conservatori, gente del posto e immigrati dovrebbero incontrarsi e costruire una vera comunità. Oggi sono in molti a sentirsi soli e sperduti nella massa anonima. Questi dovrebbero trovare nella Chiesa la propria casa. Terzo, la Chiesa dovrebbe offrire la cultura esistenziale cristiana e un avviamento a una vita sana, il che comprende ovviamente anche sane abitudini di vita. In prima fila ci sono gli elementi che portano alla salvezza: la preghiera e la vita spirituale in genere, ma anche una giusta organizzazione delle giornate e rituali sani. Il Cristianesimo dovrebbe diventare una cultura visibile, in cui l'uomo prende coscienza della propria dignità.

 

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WILLIGIS JÄGER

 

 

L'immagine della mistica in Occidente è stata notevolmente distorta. In questo termine aleggia un'ombra di bigotteria e di esotismo, di segreto e di santità elitaria. E questo è proprio quello che la mistica non è. Ecco perché è importante, prima di tutto, spiegare cosa sia effettivamente la mistica, vale a dire null'altro che la realizzazione della realtà. Spiego. La realtà che noi consideriamo reale non è vera realtà. La vera realtà si dischiude ai nostri occhi solo quando abbandoniamo la consapevolezza abituale dello stato di veglia ed entriamo in una sfera di coscienza superiore, che - rispetto alla coscienza personale dell'Io - può essere definita come "coscienza transpersonale". In  molti rappresentati della psicologia avanzata troviamo una distinzione tra i diversi livelli di coscienza. Lo stadio di coscienza prepersonale, o preparazionale, è il livello del corpo e delle percezioni sensoriali, delle emozioni, di semplici cognizioni sotto forma di immagini e di simboli, e delle rappresentazioni mitiche, senza tuttavia una coscienza chiara. Questo livello corrisponde alla coscienza del nostro Io. A livello della coscienza transpersonale, l'essere umano supera la propria coscienza dell'Io, immergendosi in una realtà che trascende l'ego. Ciò avviene anche sotto forma di immagini e di simboli (visioni e profezie).

A livello di coscienza cosmica avviene l'esperienza mistica vera e propria: l'esperienza del vuoto, della "Divinità" senza predicati. Qui l'uomo fa esperienza del "puro essere", l'origine di tutto. È lo stadio che precede tutto quanto può crearsi. Ecco perché non si ha a che fare con un essere che è sostanza. Dionigi l'Areopagita l'ha espresso in modo meraviglioso in una poesia: "La causa prima di ogni cosa non è né essere né vita, poiché è stata lei stessa a creare l'essere e la vita. La causa prima non è neanche concetto o ragione. Perché è stata lei stessa a creare i concetti e la ragione". 

L'esperienza mistica è l'esperienza dell'unità di forma e vuoto, della propria identità con la Realtà Prima. Tale livello di coscienza è la meta della vita spirituale. Questa coscienza è l'esperienza mistica e colui al quale accade diventa un altro. Le sue concezioni religiose si trasformano. Compiere questo passo significa, in un certo senso, morire; perciò nella tradizioni mistica tale esperienza viene descritta come la "morte dell'Io".

Per la mistica non si tratta, comunque, di eliminare l'io o di combatterlo. Si tratta semplicemente di rimetterlo al proprio posto e di ridargli il peso che gli spetta. Ecco perché ci si sforza di riconoscere l'io per quello che è effettivamente: un centro organizzativo per la struttura personale dei singoli individui. Questo centro organizzativo ha un valore irrinunciabile per la nostra vita. È quanto ci rende umani. Questo è ovvio per la mistica. L'esperienza mistica, però, porta a l'uomo a non identificarsi più in prima istanza con questo Io palese, liberandolo ed aprendolo ad una realtà nella quale l'Io non è più predominante. 

Nel cogliersi come realtà superiore, l'ego non diventa "meno ego", ma "più ego". Ecco perché i mistici non provano un senso di perdita quando l'Io si tira indietro. Fanno esperienza di qualcosa di molto più prezioso, che non lascia nemmeno affiorare l'idea di una perdita. Di conseguenza, sono quasi sempre delle personalità forti. Molti mistici del passato avevano un Io così marcato, che hanno preferito finire sul rogo, piuttosto che tradire la propria convinzione. Per la mistica, nella vita non contano né la giustificazione, né l'appagamento dell'Io, né l'autorealizzazione. Si tratta esclusivamente di smascherare tutti i progetti dell'ego - anche o proprio soprattutto quelli religiosi - come transitori. Nella pratica contemplativa, quello che conta è ridurre anche la volontà, quand'anche si tratti di buona volontà. Finché compiamo gli atti religiosi o recitiamo le professioni di fede per ottenere un tornaconto personale, non siamo ancora avviati sul cammino della mistica. Ci irrigidiamo sullo schema del "Do ut des", del "non si dà nulla per nulla". 

Sarebbe troppo semplice accusare solo lo spirito dei tempi, senza accorgersi che questo non fa che seguire una tendenza che tutte le religioni affermate conoscono bene: la tendenza a costruire strutture che preparano la strada alla mentalità del baratto. Ogni volta che vengono emanate delle norme etiche e si esaltano le professioni di fede in quanto apportatrici di redenzione, è in agguato la grande tentazione di usare tali norme e professioni per tranquillizzare l'Io. In tal modo si è ben lontani dall'abbandonarlo, anzi, non si fa che rafforzarlo. Aggiungerei: l'ego si infila in una prigione autocostruita, nella quale alla fine non può che segnare il passo.

 

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EUGEN DREWERMANN

 

 

Subito dopo l'ordinazione sacerdotale fui destinato ad un luogo di cura e là feci un'esperienza molto viva: non ero in grado di dare la minima risposta a numerose domande che certe persone mi ponevano. Alcune mi parlavano delle difficoltà del loro matrimonio, altre erano sorprese dal fatto che, dopo alcuni giorni di permanenza in quel luogo, aveva cominciato ad essere tormentate da ansie oscure. Soffrivano fin nel fisico per sentimenti rimossi. Venivano degli studenti di teologia, che si ritenevano omosessuali. Tutti si aspettavano che, nella mia qualità di sacerdote e pastore d'anime, sapessi aiutarli in qualche modo a superare questi conflitti. Ma io non ero in grado di farlo.

Fu per me un doloroso conflitto. Volevo aiutare le persone, volevo comprenderle, soprattutto quelle che più chiaramente si tormentavano e più intensamente cercavano. E fui costretto a constatare: proprio per costoro sono meno preparato; al massimo posso aiutare coloro che si sono normalmente adattati, la gente comune, quelli che non hanno evidenti difficoltà, che si lasciano facilmente amministrare e governare, questi sì, ma non coloro a cui Gesù, per esempio, nel Nuovo Testamento si dedica in maniera incondizionata: gli emarginati, i sofferenti, i perduti, la centesima pecora, costoro non li posso proprio aiutare. Ciò mi fece molto riflettere e mi spinse a prendere questa decisione: devo ampliare lo studio della teologia con conoscenze che hanno a che fare con processi, che non compaiono nella immagine cristiana del mondo. Tutto il campo dell'inconscio viene represso a favore di un'immagine dell'uomo che si appella continuamente alla buona volontà e al pensiero chiaro, ma non sa rendere conto delle angosce, degli incubi, delle immagini oniriche della notte, delle cose che compiamo inconsciamente oltre le azioni, delle forme disperate della rimozione. A poco a poco cominciai a sospettare che questa immagine dell'uomo, che ci viene comunicata durante lo studio della teologia, sia così ridotta e unilaterale da provocare più danni che benefici.

La psicoanalisi è un modo di procedere per offrire possibilità di guarigione a uomini che soffrono di malattie nevrotiche, portandoli a prendere coscienza di determinate cose. Secondo me, con l'aiuto della psicoanalisi, che si è sviluppata ed è divenuta in fondo atea a livello teorico, comprendiamo quanto Gesù volle - allorché guariva uomini, cacciava demoni, liberava tante fronti umane dall'angoscia, imponeva le mani a uomini che non avevano mai avuto una possibilità - meglio che non con l'aiuto dei linguaggi che ci vengono insegnati nella teologia e che sfociano di continuo in concetti dottrinali bell'e pronti, che vengono imposti dall'esterno anziché divenire realmente utili per elaborare esperienze nel campo dell'angoscia, dei sentimenti di colpa, dei problemi della prima infanzia, di legami infantili residui, di una condotta complessiva inibita.

Dio non si è sicuramente sbagliato quando ha affidato a noi uomini una gran quantità di immagini, le quali ci dicono come egli è. Ritengo che sia molto riduttivo pensare che egli si comunicherebbe solo in una religione speciale nella religione giudeo-cristiana. Ciò non può essere, perché fintanto che esistono uomini essi sono in cammino verso Dio. E già il fatto che essi lo cercano mostra che egli ha infuso nel loro cuore il desiderio e la nostalgia di sé, e lo ha fatto mediante una ricchezza di immagini che noi chiamiamo archetipi e che ci aiutano ad orientarci. 

Tale livello della realtà religiosa è insito in ogni uomo e costituisce una lingua universale, che serve a tutte le religioni per intendersi. Specifica del cristianesimo è la concentrazione sulla problematica dell'angoscia presente nella vita dell'uomo. Questo è il campo in cui possiamo essere tranquillizzati solo ponendoci di fronte ad altre persone, e per questo abbiamo assolutamente bisogno di Gesù come persona e di Dio come persona. 
Dal punto di vista della psicologia del profondo, posso solo confermare che le vie che conducono gli uomini a se stessi non sono astratte, ma corrono lungo determinate immagini preesistenti. Chiunque percorre le vie della propria guarigione le incontra. Il cristianesimo sottolinea che le immagini in sé e per sé non posseggono qualità redentrici, bensì solo l'atmosfera di fiducia, atmosfera che è verbale, legata alle persone e storica. L'unità di questa fiducia, che si lega ad una persona precisa, a Gesù di Nazareth, ed è poi sufficientemente forte da liberare la ricchezza di immagini presente nell'anima, è quella che permette a noi uomini di vivere in maniera integrale. In questo il cristianesimo avrebbe un compito grandioso, qui risiede secondo me la sua verità.

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MARCO VANNINI

 

 

La psicologia si presenta oggi come una sorta di tuttologia, dove però la totalità è senza capo né coda, dal momento che manca l'essenziale, ovvero la conoscenza di se stessi. Nei confronti della conoscenza di se stessi lo psicologo certo sorride di compatimento, come di fronte a un'idea da fanciulli di cui conosce l'origine e la natura religiosa (conosci te stesso, e conoscerai te stesso e Dio), per cui sono da vedere due cose fondamentali: la prima è il perché soggettivo di questa apparente modestia e saggezza, che rifiuta come sciocco e presuntuoso l'obiettivo della conoscenza di se stessi; la seconda è il motivo storico, oggettivo, per cui si è giunti a tale situazione. Ovviamente i due motivi si intrecciano dialetticamente. 

Quanto al primo punto, la rinuncia alla conoscenza di se stessi dipende dal terrore di scendere al di sotto delle potenze, nel fondo dell'anima, ove è il nulla. Non occorre scomodare qui la mistica per definizione: basta prendere in considerazione un autore che non viene considerato mistico, ovvero Nietzsche. Fu infatti la sua penetrante critica a mostrare la debolezza della psicologia - del suo tempo, ma, in anticipo, anche del nostro. Non gli fu difficile mostrare che, come non esistono i dati, i fatti, se non nella misura in cui sono scelti da noi, ovvero già come frutto di una selezione, di una interpretazione, così l'interpretazione stessa, la filosofia, è frutto di qualcosa di cui non rendiamo ragione per disonestà, ovvero perché vittima noi stessi di oscuri, torbidi, inconfessabili legami e moventi i quali, peraltro, si riconducono a uno solo: l'affermatività dell'io, che è quella che Nietzsche chiama "volontà di potenza". Il filosofo tedesco ha ben ragione nel dichiarare che la psicologia, deve essere una morfologia della volontà di potenza, altrimenti non vale nulla. 

Così ci troviamo oggi di fronte alla terribile afflictio animarum che deriva dalla perdita di Dio e dell'anima, ridotta a povera psiche. Se si arresta all'alterità di Dio, senza riconoscersi come spirito, la religione non ha infatti più logos, non ha più metafisica, e non meraviglia perciò che il sentimentalismo della "fede" di cui essa consta conduca direttamente alla psicologia, ove non solo non c'è più scienza dell'anima, ma neppure cura animarum. La scomparsa del "fondo" dell'anima e la sua riduzione alle "potenze" ha portato di fatto alla negazione dell'essenza umana, risolta nell'insieme dei rapporti sociali in cui l'uomo è inserito storicamente, con la scomparsa del concetto stesso di verità e la sua riduzione a quello di operatività, ovvero, in ultima analisi, appunto di potenza, di forza; ma senza verità, senza concetto, non v'è conoscenza e neppure possibilità di cura. 

La scienza dell'anima fa infatti tutt'uno con la cura dell'anima, in quanto salus è il risultato della conoscenza di noi stessi, ovvero della conoscenza di Dio. Salus, salvezza e salute insieme, è una cosa soltanto: riconoscersi come spirito nello Spirito. Questa è anzi, potremmo dire paradossalmente, la vera scienza della natura umana, se è vero che la natura è essenzialmente ed anche etimologicamente, spirito e l'inesperienza dello spirito è l'ignoranza della natura, con la conseguente incapacità di curarla. Aver separato salus, salvezza, da salute, significa di fatto aver perduto non solo la conoscenza di noi stessi, ma anche la capacità di aver cura dell'anima. Non meraviglia perciò che, perduta l'essenza, la psicologia si sia da un lato frammentata in mille pezzi, inseguendo le mille possibilità di rapporti in cui l'uomo è inserito, e, dall'altro e di conseguenza, pensi la salute dell'anima come equilibrio di tali rapporti: una concezione tutta interna al sociale, alla situazione, da cui dipende e con cui naufraga.

 

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ALDO STELLA

 

 

La contrapposizione di asserti (ovverosia la contrapposizione di soggetti che si fanno portatori di punti di vista antitetici) configura una dinamica che può venire definita polemica, stante il fatto che in essa si fa valere la volontà (che potrei definire di «onnipotenza») che un punto di vista si affermi sopraffacendo l'altro.

Il dialogo, invece, si struttura come confronto che intende questionare proprio la pregiudiziale dei punti di vista, ché i dialoganti sono orientati non all'affermazione delle proprie opinioni, bensì al convenire su una verità che non può non emergere oltre i punti di vista (= gli asserti), come loro deassolutizzazione in atto, ossia come mediazione intrinseca di quell'immediatezza che sembra costituire l'asserto nel suo imporsi formale.

Il polemos non ha una ratio: esso si costituisce seguendo una logica meccanica, quella incentrata sulla affermazione dell'ego. Ratio, di contro, è espressione che va riservata al dialogo. Il dialogo ha una ratio effettiva, ché esso è volto al convergere e al fondersi in unità (ratio è espressione latina che traduce l'espressione greca logos) di elementi apparentemente e inizialmente eterogenei.

Fine del dialogo è, dunque, il cum-venire, evocato da quel vero, non immediatamente presente, ma inteso e ricercato da ciascuno dei dialoganti. In virtù della consapevolezza che il vero non può non essere e che solo il vero è vero fine del dialogo, ciascun dialogante trasforma la propria identità: se tale identità tende inizialmente ad esprimersi come aggressiva volontà di autoaffermazione, in virtù della coscienza essa si apre alla differenza, perché è in grado di riconoscere in essa la condizione imprescindibile del proprio porsi come identità. Identità e differenza non possono non subordinarsi al vero che le fonda, sì che, se l'apertura è di fatto apertura verso l'altro che si sta dinnanzi, in effetti non può non essere apertura alla verità, che è condizione verticale di ogni apertura orizzontale.

Se si tiene presente il fatto, incontestabile, che ogni disturbo psichico e non solo psichico è, fondamentalmente, una assolutizzazione (o una sua conseguenza), ossia esso vale come l'assunzione di una idea (o di un sistema di idee), di un problema, di un modo di essere, di un ricordo come se questi potessero venire astratti dalla rete di rinvii, che costituisce lo "psichico" nella sua struttura oltre che nella sua funzione, allora il dialogo non può non risultare l'unica vera forma di terapia, perché solo in virtù del dialogo l'io, mettendo in gioco se stesso e le proprie pretese (= gli asserti nei quali di volta in volta si identifica), può recuperare l'innegabile consapevolezza del valore trascendentale dell'assoluto.

Riconoscere che solo l'assoluto è vero consente, infatti, di ricondurre entro limiti determinati ogni enfatizzazione ed ogni ipervalorizzazione di ciò che è e rimane solo relativo, incluso lo stesso io. L'io con i suoi affetti, le sue emozioni, le sue opinioni, i suoi bisogni, le sue volizioni (di venire riconosciuto, di affermarsi, di conservarsi accanitamente in vita, etc.) non è fondamento a se stesso e, pertanto, non può assolutizzarsi. L'io deve saper riconoscere la propria autentica struttura, che è tensione verso il fondamento, sì che la sua intenzione di verità non può non relativizzare ogni pretesa di assolutezza.

Fine autentico del dialogo, dunque, è il trascendere il mondo della doxa, affidandosi a quell'intentio veritatis che impone a ciascun dialogante di ritornare su se stesso, riflettendo e mettendo in discussione l'acritica assunzione di una certezza quale verità. Solo allorché l'io discute se stesso egli inizia effettivamente a dialogare e così crea le condizioni per evolvere e, dunque, per perseguire il proprio effettivo interesse. Interesse effettivo non è affermare il proprio punto di vista, riducendo al silenzio ogni punto di vista che appaia diverso, ma è quello di dilatare il proprio orizzonte andando oltre i limiti che di volta in volta connotano la dimensione empirica dell'io.

Se mediante il dialogo ciò che inizialmente appariva certo risulta vieppiù problematico, allora ciò che emerge incoercibilmente è l'amore per il vero sapere, la filo-sofia come ricerca di un fondamento effettivo che vada al di là della relatività dei punti di vista. L'amore è affidamento, è speranza di venire posseduti dal vero. In questo capovolgimento, l'io recupera se stesso e ciò si realizza proprio allorché viene abbandonata la pretesa di conservarsi, accettandosi di perdersi nella verità. Recuperando se stesso, l'io recupera altresì il rapporto con i suoi simili e con il mondo che lo circonda, giacché viene meno il presupposto di ogni conflitto: la volontà di controllo, la pretesa di possedere qualcosa che deve venire sottratto a qualcuno.

Nella pacificazione, che nasce dalla coscienza della necessità di affidarsi al vero e di affidarsi senza nulla voler conservare per sé di contro all'altro e senza nulla voler portare con sé nello slancio verso la verità - ché solo della verità si ha veramente bisogno -, in tale pacificazione mi pare consista il fine di ogni autentica terapia, la quale, come indica il suo stesso etimo, è, propriamente, «servizio reso» alla verità.

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