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Mistica.Blog -
Pagine di mistica e spiritualità a cura di
Antonello Lotti
Agostino di Ippona
Pinturicchio
(1454-1513), Sant'Agostino e San Nicola, particolare
«Sia
dunque Cristo a parlare dentro di voi, in quanto dentro di voi non può
esserci nessun uomo, perché se qualcuno può mettersi al tuo fianco,
nessuno può entrare nel tuo cuore. E che nessun uomo stia nel tuo cuore;
nel tuo cuore stia solo Cristo!»
Agostino,
Opere,
Città Nuova, NBA Nuova Biblioteca Agostiniana (a cura di Agostino
Trapè), Roma 1965ss.
Di questa traduzione
sono reperibili diverse opere in versione economica nella collana
PBA Piccola Biblioteca Agostiniana, mentre alcune compaiono in altre
collane tutte senza testo a fronte, ma con buoni apparati
(introduzione, note, indici). Di esse cito:
Agostino,
La città di Dio, Città Nuova, Coll. Minima, Roma 1997
Agostino,
La Trinità, Città Nuova, Coll. Minima, Roma 1998
Agostino,
Amore assoluto e "terza navigazione", Rusconi Libri,
Milano 1994. Il volume riporta (con testo a fronte) il Commento
alla Prima Lettera di Giovanni (dieci discorsi) e il secondo
discorso del Commento al Vangelo di Giovanni (tutti a cura di
Giovanni Reale).
Agostino,
Soliloqui, Garzanti, Milano 1998
Wolfgang
Wieland, Agostino, sta in G.Ruhbach
- J.Sudbrack, Grandi mistici. Dal 300 al 1900, EDB,
Bologna 1987,2003, pagg. 65-95
Carlo
Cremona, Agostino di
Ippona. La ragione e la fede, Rusconi, Milano 1993
Agostino
Clerici, Itinerario cristiano. Sulle orme di Agostino di
Ippona, Figlie di San Paolo, Milano 1995
Alberto
Pincherle, Vita di sant'Agostino,
Laterza, Bari 2000
Remo
Piccolomini, Agostino si racconta. Introduzione a Le
Confessioni, Borla, Roma 2004
James J. O'Donnell,
Sant'Agostino. Storia di un uomo, Mondadori, Milano 2010
Nota
Biografica
È
interessante leggere la prefazione al volume Agostino, Soliloqui,
Garzanti, Milano 1998, e in particolare la biografia tratteggiata da Stefano
Pittaluga alle pagg. VII-XXXI, da
cui ho tratto, con opportuni adattamenti, parte di quanto segue:
Nasce
domenica 13 novembre 354 a Tagaste, in Numidia (oggi Sū
Dopo
gli studi a Tagaste e nella città di Madaura, il padre ha l'ambizione
di fargli frequentare la scuola di retorica di Cartagine, capitale
dell'Africa romana. Dal momento che il prestigio della scuola era
proporzionato al suo costo, per un anno Agostino deve interrompere gli
studi, in modo da permettere al padre di mettere da parte i soldi
necessari. Allora era il 370 ed Agostino ha sedici anni. Come
tutti gli adolescenti vive in modo irrequieto la sua età, coi primi
amori e le trasgressioni compiute con gli amici.
Nel
371 si trova a Cartagine per lo studio. Nella grande città, il
provinciale Agostino si perde. Frequenta gli spettacoli teatrali, ha
molti amici con cui si diverte anche in maniera grossolana. Ma il suo
impegno nella scuola di retorica è molto elevato. È il primo della
sua scuola e in questo periodo evita le compagnie degli amici, le loro
bravate, i loro scherzi grossolani. Apprezza i futuri vantaggi che gli
sarebbero derivati dal fatto che la società di quel tempo
privilegiava le scuole di eloquenza (la retorica era la più elevata
delle artes).
A
diciannove anni, legge per caso un'opera ora perduta di Cicerone, l'Hortensius:
si trattava di una esortazione alla filosofia, un "protrettico"
che impressiona in modo sostanziale il giovane Agostino. Si converte
dunque alla filosofia con entusiasmo. Si avvicina per la prima volta
alla Bibbia. Leggendola, si trova a disagio per lo stile che considera
infantile e grezzo del testo, indegno di un seguace di Cicerone.
Aderisce in questo periodo alla setta dei manichei, le cui dottrine
sulla perpetua lotta fra bene e male, gli sembrano offrire una
spiegazione razionale, scientifica, materialista dell'universo, più
consona al suo carattere e alla sua preparazione. Nel 372 il
padre muore. Ritorna a casa e nel frattempo prende con sé una donna
che gli dà anche un figlio, Adeodato, nato nel 373. Qui per
due anni insegna grammatica. La morte di un amico lo fa decidere a
ripartire per la città, alla ricerca di una sistemazione più
ambiziosa.
Torna
a Cartagine, dove apre una scuola di retorica e dove insegna
eloquenza. Qui legge Aristotele (le Categorie, probabilmente
nella traduzione di Mario Vittorino) e ne rimane deluso. Nello stesso
periodo rimane sempre legato al manicheismo e questo fino al 383
e quindi per nove anni. Un colloquio con il vescovo manicheo Fausto
gli fa comprendere la discrepanza fra la pretesa scientificità delle
tesi manichee e le scoperte astronomiche di quel tempo. All'incirca a
ventisei anni scrive il suo primo libro, De pulchro et apto, un
trattato di estetica, oggi perduto e si appassiona alle arti liberali.
Qui, tra la delusione delle convinzioni manichee e la sua ambizione,
sempre presente, prende la decisione, tenuta nascosta alla sua
famiglia, di partire per Roma nel 383.
L'esperienza
romana si rivela presto deludente: si ammala appena arrivato, gli
studenti spesso non pagano la retta. Frequenta un vecchio amico,
Alipio, assessore alle finanze italiche. Insieme a lui riprende a
frequentare gli ambienti manichei. D'altronde, nonostante il suo
scetticismo, i suoi dubbi sempre più forti, non era facile
distaccarsi da quella setta così potente. Infatti, si fece
raccomandare proprio da personaggi della stessa per un posto di magister
rhetoricae a Milano, una delle capitali dell'Impero. Al di là
della sua capacità oratoria, Quinto Aurelio Simmaco, senatore pagano,
pensava di potersi servire della sua presenza a Milano per combattere
l'allora vescovo Ambrogio e poter restaurare la religione romana
tradizionale proprio in quella città.
Ambrogio
lo accoglie nella sua città e lo riceve a colloquio, più per dovere
di circostanza che per effettivo bisogno di incontrare un oratore
ufficiale del regime, suo avversario. Qui, impegnato nei compiti
istituzionali e in particolare nelle commissioni dell'imperatrice
Giustina (panegirici e discorsi ufficiali) diviene sempre più oratore
ufficiale e sempre più insoddisfatto, nonostante avesse raggiunto
tutto ciò che fino ad allora ambiva. A Milano, lo raggiunge anche sua
madre, Monica. Insieme a lei va ad ascoltare i sermoni del vescovo
Ambrogio. Ne apprezza l'eloquenza, la forza trascinante, ma il suo
scetticismo gli impedisce di assorbirne la lezione spirituale.
Frequentando però ogni domenica i suoi sermoni, si trova ad
approfondire la conoscenza della fede cattolica, accorgendosi delle
false accuse manichee, viziate dal materialismo.
In
questo periodo spera di ottenere qualche carica pubblica, ma avrebbe
dovuto contrarre un buon matrimonio e soprattutto lasciare la
convivenza con la donna che amava. Su consiglio della madre, la
concubina dovette lasciarlo per far posto ad una fanciulla di buona
famiglia. Pur se con dolore profondo, Agostino obbedisce alla
madre.
Molte
delle idee che Ambrogio usava nei suoi sermoni erano desunte dagli
scritti dei filosofi neoplatonici, tra cui Plotino e Porfirio.
Agostino, già preso dal fascino dei sermoni, comincia a frequentare
circoli neoplatonici-cristiani della città, venendo a contatto con
personaggi colti ed importanti come Manlio Teodoro o Simpliciano.
Cominciò a leggere i capitoli iniziali del Vangelo di Giovanni e vi
trovò gli stessi concetti che condivideva con gli altri filosofi.
Oltre a Giovanni, legge Paolo. Era ormai arrivato a un passo dalla
conversione, conoscendo anche gli esempi di Mario Vittorino (che
Simpliciano aveva frequentato), le rinunce dei santi eremiti nel
deserto, come il monaco Antonio.
Un
giorno, così racconta, si trova nel giardino di casa, ancora
tormentato da tanti pensieri e dagli esempi avuti, e, in preda a
questa eccitazione disperata, gli giunge d'improvviso un canto di una
bambina, come di una cantilena "Prendi e leggi... Prendi e
leggi...". Si sforza invano di ricordare un canto del genere e
allora capisce che può essere un richiamo divino: prende il libro dell'apostolo
Paolo che aveva lasciato in giardino, posato su un tavolo, e legge il
brano della lettera ai Romani (13,13-14): "Comportiamoci
onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e
ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi
invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi
desideri." La lettura di questo verso, il primo incontrato
aprendo il libro, gli procura in quel momento una pace del cuore
profonda che cancella ogni incertezza.
Da
quel momento, a seguito della ritrovata pace e per alcuni problemi
legati alla salute, pensa di lasciare Milano e il clima di contrasto
politico e religioso fra Ambrogio e Giustina. Un professore milanese
di grammatica, Verecondo, non ancora cristiano, gli mise a
disposizione la sua villa a Cassiciaco (probabilmente Cassago nella
Brianza). Parte insieme ai suoi familiari, la madre Monica, il figlio
Adeodato, il fratello Navigio, i cugini e gli amici. Siamo nel 386.
All'inizio dell'inverno, torna a Milano, rassegna le sue dimissioni
dalla scuola di retorica, e si prepara a ricevere il battesimo. Nella
notte fra il 24 e il 25 aprile del 387, alla vigilia di Pasqua,
Agostino riceve insieme al figlio e all'amico Alipio il battesimo
dalle mani di Ambrogio. Vuole ora ritornare al suo paese natale e si
prepara alla volta di Ostia per l'imbarco. Qui la madre
improvvisamente si ammala e muore.
Rimane
a Roma per circa un anno venendo a contatto con ambienti ecclesiastici
e monastici. Alla fine del 388 ritorna in Africa, da Cartagine
fino a Tagaste. Qui si ferma per circa due anni, vivendo in una
comunità insieme al figlio e ai due amici Alipio ed Evodio. Qui, dove
pensa di ritrovare quella pace assaporata, si trova invece, a causa
della sua fama, al centro di altrettante dispute politico-religiose.
Nella primavera del 391 decide di cercare vicino ad Ippona un luogo
dove poter fondare un monastero. Entrato nella chiesa vescovile di
quella città viene riconosciuto e, secondo una prassi di allora,
viene presentato al vescovo Valerio affinché fosse ordinato
sacerdote. Pur non potendo condurre una vita ritirata, qui fonda un
monastero presso la chiesa.
A
Ippona, il vescovo Valerio era continuamente attaccato da eretici e
pagani. Egli, conoscendo le doti di Agostino, gli attribuì la
facoltà di predicare in sua presenza. Fu proprio grazie a lui che la
chiesa cattolica in Africa cominciò a risorgere. Nel 395
(forse 396) Agostino fu consacrato vescovo e poco dopo Valerio
morì. Tra il 396 e il 400 lottò contro il Manicheismo. Dal 400
al 411 si impegnò contro lo scisma dei donatisti. Dal 411
fino alla sua morte, polemizzò contro il Pelagianesimo.
Agostino,
che intanto aveva nominato nel 426 il suo successore, venne
sorpreso dalla morte sabato 28 agosto 430. Continuò fino alla fine
ad avere rapporti epistolari coi suoi amici, a predicare, a studiare,
a scrivere. Proprio sul letto di morte il suo interesse era rivolto ai
Salmi. Nello stesso tempo, la sua città era invasa dai vandali.
L’ultimo scritto fu una lettera (Lettera 228 ***), dettata
forse dal letto di morte, sui doveri dei sacerdoti di fronte
all’invasione barbarica. Sepolto presumibilmente nella Basilica
pacis – la cattedrale –, le sue ossa, in data incerta, furono
trasportate in Sardegna e da qui, verso il 725, a
Pavia nella Basilica di s. Pietro in Ciel d’Oro, dove
riposano.
***
Il testo della lettera 228, probabilmente l'ultima scritta da
Agostino, può essere scaricata in formato PDF compresso (116 Kb),
cliccando:
Il
primo catalogo delle opere di Agostino ci è fornito da Possidio (il quale
ha anche scritto una biografia). Il suo catalogo ragionato (indiculum)
ripartiva gli scritti in tre grandi sezioni: i libri propriamente detti,
le epistole e le omelie (tractatus). Il suo catalogo poi
distingueva le opere secondo i destinatari: ai pagani, agli ebrei, agli
astrologi, ai manichei, etc. Il pubblico di Possidio era sicuramente
costituito da persone interessate alle varie polemiche e alle controversie
religiose. L’edizione princeps complessiva
delle opere di S. Agostino fu stampata a Basilea da Giovanni Amerbach nel
Ovviamente,
qui non interessa illustrare una per una tutte le opere di Agostino, ma
solo dare conto di quelle che hanno più attinenza con la dottrina mistica.
Nell'Introduzione a Sant'Agostino, scritta da Agostino Trapè, sono elencate e
descritte le opere che in qualche modo richiamano proprio la dottrina
mistica del nostro. Cito in gran parte per la completezza
dell'informazione:
SOLILOQUI:
opera scritta nel 386-7 da Agostino nella solitudine di
Cassiciaco, mentre si
preparava al battesimo. Il primo libro di quest'opera, nella quale
Agostino discute con se stesso, comincia con una preghiera che è una
lunga litania di amore e contiene insieme filosofia, poesia e mistica.
Vi si trova la dedizione totale di Agostino a Dio ("Ormai te solo
io amo, te solo seguo..."), la meditazione delle perfezioni
divine riflesse nelle creature ("ti invoco, Dio verità... Dio
sapienza... Dio beatitudine... Dio bene e bellezza... Dio luce
intelligibile...") e infine l'aspirazione ad essere perfetto
amante e possessore beato della sapienza, ad essere per sempre abitatore
del regno beatissimo di Dio. Nel
corpo del libro vi è inoltre la lunga descrizione dell'ascesa verso
la sapienza che comprende tre momenti: la purificazione, la
contemplazione, la visione. La purificazione comprende a sua volta un
attento esame sulle virtù morali
– prudenza, temperanza, giustizia, fortezza
– e sull'amore della sapienza che diventa
ascensione contemplativa e dispone alla visione, a patto però che
l'amore sia esclusivo e ardente. Questo ardore e questa esclusività
non escludono che altri lo cerchino e ne godano insieme a noi, anzi lo
includono e lo fondano: gli amici ci saranno tanto più cari quanto più
in ciascuno sarà grande l'amore per l'amata comune. V'è
poi in questo libro il fondamento dell'ascensione contemplativa,
dell'amicizia cristiana e della vita religiosa cenobitica.
LA
GRANDEZZA DELL'ANIMA:
in questo trattato ci sono anche i gradi dell'ascesa verso la
contemplazione. Infatti la grandezza dell'anima dipende appunto
dai gradi della sua attività. Questi
vanno dall'animazione del corpo, alla "dimora" nella
contemplazione. Ma i primi tre
– animazione, sensazione, arte e cultura
– sono comuni ai buoni e ai cattivi, perché
appartengono all'ordine della natura, mentre gli altri quattro
appartengono solo ai buoni e costituiscono i veri gradi della vita
spirituale. Questi sono chiamati: virtù o purificazione, serenità o
costanza d'animo, orientamento verso la contemplazione o ingresso in
essa, dimora nella stessa contemplazione. Il primo grado importa un
lungo sforzo di purificazione o mortificazione che sottragga l'animo
al dominio dei sensi: "Mondare l'occhio dell'anima"; il
secondo indica la forza interiore o la quiete dell'anima pacificata
con se stessa, e vuol dire, perciò, "custodire e irrobustire la
sanità" raggiunta; il terzo contiene l'entrata nella luce della
contemplazione, cioè "dirigere lo sguardo, ormai sereno e
sicuro, sull'oggetto della visione"; il quarto finalmente è il
soggiorno, e perciò non tanto un grado quanto una dimora (mansio)
"nella visione e nella contemplazione della verità". Questi
quattro gradi corrispondono ai quattro stadi o condizioni della carità,
dei quali Agostino parla altrove identificando la carità con la
perfezione spirituale: carità iniziata, progredita, grande, perfetta.
Ecco un testo fondamentale: "Pertanto una carità iniziata è una
giustizia iniziata, un carità progredita è una giustizia progredita,
una carità grande è una giustizia grande, una carità perfetta è
una giustizia perfetta". Inutile
dire che qui giustizia equivale a perfezione, la quale,
identificandosi con l'amore, si misura con esso.
IL
LIBERO ARBITRIO:
scritta nel 387-8. Per quanto il tema centrale dell'opera sia quello dell'origine del
male e i problemi relativi (libertà, legge morale, esistenza di Dio,
prescienza divina), riporta alcune pagine sulla felicità che si
identifica con la contemplazione della verità, che è Dio, verità
sussistente e sommo bene. Della
contemplazione vengono descritte la giocondità, la felicità, la
libertà che produce nell'uomo. "Quando
– si chiede Agostino
– cala nel nostro spirito, senza alcun rumore,
un certo, per dir così, canoro e fecondo silenzio della verità,
potremmo noi cercare altra felicità e non godere di una tanto vera e
interiore?". Questa
descrizione si trova al termine dell'ascesa dell'anima a Dio o, come
si suol dire, della prova agostiniana dell'esistenza di Dio, segno
evidente che Agostino non separa mai l'ascensione dell'intelligenza da
quella del cuore, la filosofia dalla mistica. E se questo
atteggiamento è frutto delle sue letture neoplatoniche, è frutto
anche della sua adesione al cristianesimo che comanda di amare, e
quindi di cercare, Dio con tutto se stessi, perché Dio è la quiete
non solo della nostra intelligenza ma di tutto il nostro essere, il
termine del nostro godimento. Ne è controprova il fatto che più
tardi, divenuto presbitero e poi vescovo, dovendosi occupare più
intensamente dello studio e della spiegazione della Scrittura, collega
la contemplazione alle beatitudini evangeliche e ai doni dello Spirito
Santo.
IL
SERMONE DELLA MONTAGNA
e LA DOTTRINA
CRISTIANA: qui
Agostino offre un programma compiuto di vita ascetico-mistica fondata
sul rapporto tra le beatitudini, i doni dello Spirito Santo e le
petizioni del "Padre nostro". Il Sermone della montagna è
stato scritto nel 394. Le
beatitudini vanno dalla povertà di spirito o, com'egli intende,
dall'umiltà, che è il fondamento della vita spirituale, fino alla
beatitudine della pace, che ne è la perfezione, poiché "nella
pace è la perfezione" e "i pacifici... diventano regno di
Dio, nel quale tutto è ordinato". Alle beatitudini rispondono i
doni dello Spirito Santo, dei quali quelle sono il frutto. Anche i
doni dello Spirito Santo descrivono l'ascensione dell'anima verso la
perfezione. Difatti cominciano col timore, che è l'inizio della
sapienza, per giungere alla sapienza stessa, che è "la
contemplazione della verità che pacifica tutto l'uomo e lo rende
capace della somiglianza con Dio". Alle sette beatitudini
(Agostino riduce a sette le otto beatitudini di Mt 5, 3-11) e
ai sette doni dello Spirito Santo (Agostino nella enumerazione dei
doni segue
CONFESSIONI:
le Confessioni furono scritte fra il 397 e il 401.
Sono un libro autobiografico, filosofico,
teologico, poetico e mistico. Qui interessano i due ultimi aspetti.
Agostino, nelle Confessioni, è anche poeta. Gli studiosi non
hanno tralasciato d'illustrare quest'aspetto. È il suo senso di
poesia che dà alla realtà spirituale un volto ed una voce, alla
realtà sensibile un'anima ed un palpito, sicché, mentre la prima
viene accostata a noi senza perdere la sua immateriale purezza, la
seconda, senza che ne abbiamo la concretezza visibile, ci si fa scala
per salire a Dio. La poesia è l'espressione più alta delle
vibrazioni dell'anima, spesso della mistica. Così fu per Agostino. La
sua fu la poesia dell'amore, dell'amicizia, della bellezza, del
bisogno di Dio, della speranza; la poesia, per dirla con un sua
immagine, d'un "filo d'erba assetato": "Non abbandonare
i tuoi doni
– dice egli a Dio
–, non disdegnare questo tuo filo d'erba
assetato". Si
sa che le Confessioni sono una lettera a Dio, nella quale
Agostino narra, loda, ringrazia, adora, implora, canta; canta le
profondità abissali del cuore umano e le misericordie di Dio. L'uomo
e Dio: ecco i due temi sui quali tesse i tredici libri delle Confessioni.
Essi, scrive rileggendoli, "lodano Dio giusto e buono per i miei
mali e per i miei beni, e verso di lui sollevano l'intelligenza e il
cuore degli uomini". La
lode si trasforma spesso in preghiera d'implorazione o in ascesa
interiore fino alle vette più alte della contemplazione. Nelle Confessioni
ci sono le pagine più affascinanti dell'esperienza contemplativa
agostiniana, pagine che si collocano per la forza narrativa e mistica
tra le più belle della spiritualità cristiana. Aveva ragione uno
scrittore, che era insieme filosofo e poeta, di dire, riferendosi alla
narrazione dell'estasi di Ostia, che è una pagina di "profonda
poesia" e "una delle cose più vertiginose dello
spirito..."; con essa "nasceva per la prima volta la poesia
dell'estasi, il poema della comunicazione con Dio, la vertigine
sublime dell'altezza, lo stupendo ascendere dell'anima sino
all'assoluto Amore...".
LA
TRINITÀ:
i primi dodici libri vennero scritti fra il 399 e il 412,
mentre i restanti verso il 420. Si tratta di una grande opera in quindici libri. Molti la conoscono
come capolavoro di teologia, ma pochi sanno che lo è anche di
mistica. Lo scopo infatti che indusse Agostino a scriverlo fu duplice,
teologico e mistico: voleva contribuire ad illustrare alcuni grossi
problemi, contestati o insoluti, intorno al mistero trinitario e
insieme approfondire la conoscenza di sé e di Dio, conoscenza non
puramente teorica ma viva, sperimentale, affettiva. E ci riuscì. Egli
scrisse non solo scrutando con l'intelligenza, ma salendo con il cuore
verso il mistero. In
realtà nella sua opera non è soltanto l'esposizione biblica del
dogma, né soltanto la difesa, l'illustrazione, la formulazione, ma
anche la contemplazione del dogma. Tutta la struttura dell'opera è
concepita in funzione contemplativa; infatti vuole condurre il lettore
dagli umili inizi della fede fino alla visione sapienziale del mistero
trinitario, poiché "tutta la sua vita l'uomo deve ordinare a
ricordare, a conoscere, ad amare
ESPOSIZIONE
SUI SALMI: scritte
nel corso degli anni che vanno dal 392 al 416 (qualcuno
anche più tardi). Nelle Esposizioni
sui Salmi, un opus immensum, si può trovare di tutto
– filosofia, teologia, morale, ascetica,
spunti di vita quotidiana, eloquenza popolare, storia della Città di
Dio
–. In quest'opera si trovano in primo luogo le
forme più alte della preghiera, che sono quelle della preghiera di
lode, di adorazione, di ringraziamento, di giubilo, forme che
ricorrono secondo che i salmi cantano l'una o l'altra di esse. In
questi casi Agostino prende il volo e raggiunge le vette più alte. La
poesia dei salmi trova piena rispondenza nel suo animo, ne ridesta
l'alta fantasia, ne provoca la vibrante eloquenza. Non fa meraviglia
pertanto che le Esposizioni sui Salmi vibrino ancora della sua
esperienza personale, che era molto alta. Un esempio: l'esposizione del
salmo 41, 4, che mostra il pio fedele piangente di giorno e di notte
perché gli si ripete ad ogni istante: Dov'è il tuo Dio?. Questa
insistente e provocatoria domanda viene certamente dai pagani, i quali
irridono all'irrealtà di un Dio affatto invisibile e scherniscono chi
vi crede. La domanda offre l'opportunità ad Agostino per scrivere una
delle sue pagine più belle, nella quale mostra il cristiano
– si sa che egli legge i salmi in chiave
cristologica
–, che non crede solo in Dio ma vuole anche un
po' vederlo, benché disperi di poterlo mostrare a chi non ha occhi
per elevarsi tanto in alto. In cerca dunque del suo Dio considera la
terra, ma si accorge che non basta a soddisfare la sua sete: tutto
questo egli ammira, e loda, ma ha sete di Colui che ne è l'autore;
torna in se stesso e considera l'anima e tutte le virtù di cui le
anime, nella Chiesa, sono adornate, ma si accorge di nuovo che il suo
Dio è qualcosa di superiore all'anima, per quanto ornata di virtù;
sale infine sopra alla sua anima per giungere alla casa di Dio, là da
dove Dio crea e governa l'universo. Ivi c'è festa eterna. "Da
quella eterna e perpetua festa risuona un non so che di canoro e di
dolce alle orecchie del cuore, purché non sia disturbata dai rumori
del mondo". Quest'ascesa è sostenuta da "una certa
dolcezza, una non so quale nascosta e interiore delizia, come se dalla
casa di Dio risuonasse soavemente un organo". Non
tutte le Esposizioni sui salmi hanno pagine come queste, ma in
tutte o quasi si trovano sprazzi di luce così intensa da costringerci
a considerare questa come un'opera ricca di dottrina spirituale e
mistica, e perciò indispensabile per chi vuol conoscere, su questo
argomento, Agostino e il suo pensiero.
Per
la parte della dottrina mistica, sono debitore a Wolfgang Wieland
per il suo contributo nel volume citato in precedenza, oltre che ad alcuni
stralci di Agostino Trapè, come ulteriormente specificato.
Non
essendo principalmente un mistico (pur avendo chiara una chiamata alla
vita contemplativa), Agostino non tratta organicamente di
questa materia, ma ne fa cenni in diverse opere o in parti di opere.
Questo è ciò che è emerso nella
sezione
precedente. Pertanto, ricostruire un percorso mistico da alcuni brani
non è impegno facile, né corretto, poiché alcune conclusioni potrebbero
non riflettere pienamente il suo pensiero. Sta di fatto che i tratti
caratteristici della sua spiritualità fanno da sfondo ad ogni ulteriore
discorso in questo ambito e ad essi occorre pensare per meglio intendere
un qualunque disegno di percorso mistico in Agostino.
Sentire
Deum
Dio
è il centro del pensiero e dell'esperienza di Agostino: "Toccare un po'
Dio nello spirito è una grande felicità; ma comprenderlo è del tutto
impossibile". Dio rimane sempre inafferrabile e incomprensibile dal
pensiero umano. Dio rimane un mistero insondabile. È preferibile trovare
Dio senza capire, che capire senza trovarlo (cfr. Confessioni 1,6,10).
Se Dio è incomprensibile e inafferrabile, rimane pertanto indicibile.
Agostino conosce la difficoltà di comunicare le proprie esperienze
interiori che riguardano la verità divina. Egli preferirebbe tacere, ma
sa anche che di Dio bisogna parlare, se non altro per dire a chi sbaglia
come Dio non è. Ma diventa sempre più un'esigenza esistenziale, per
tutti coloro che hanno fatto esperienza del Dio vivente. Chi è stato
afferrato da Dio, deve parlare e non potrà mai dire abbastanza. Agostino
è stato afferrato da Dio. Vive ciò sulla base di un'esperienza intensa,
mistica della presenza di Dio. È un'esperienza che afferra tutto l'uomo.
Ardentior
affectus
Agostino
descrive l'esperienza mistica della presenza di Dio in molti modi: è
fondamentale il "sentire Dio" suscitato nell'uomo dall'amore;
infatti, chi entra in relazione con la forma di vita di Gesù Cristo,
caratterizzata dalla dedizione e dall'amore, un po' alla volta viene
trasformato interiormente e rinnovato nell'amore di Dio. In tal modo
diventa di nuovo simile a Dio, che è l'amore. E quanto più l'uomo
riacquista la sua somiglianza originaria con Dio, crescendo nell'amore,
tanto più inizia a sentire, nel suo amore e attraverso il suo amore, Dio,
il fondamento trascendente e intimo di esso (cfr. il brano in Antologia:
L'Ineffabile
in Dio). Agostino paragona ciò che l'uomo sperimenta e sente come
a una dolce melodia, un dolce sapore, un piacere misterioso e profondo che
riempie il suo cuore e lo conduce sulla via che porta alla casa di Dio.
All'uomo è comunque richiesto un impegno: allontanarsi dal baccano di
questo mondo, ridurre se stesso al silenzio e volgersi interamente e
totalmente a Dio. Da qui egli può riceve passivamente ogni ulteriore dono.
Intentio
– distensio
–
extentio
Fra
i metodi per avvicinarsi a Dio, la preghiera rimane il primo e
fondamentale.
Dio ha disposto che nella lotta fra il bene e il male
noi combattiamo più con la preghiera che con le nostre forze, perché
queste stesse forze, quante ce ne sono necessarie, le somministra a chi
combatte Colui che noi preghiamo. Perciò concludendo la lettera a Proba sulla preghiera
(n. 130) scrive: "Combatti con la preghiera per
vincere questo mondo; prega nella speranza, prega con fede e amore, prega
con costanza e pazienza, prega come una vedova di Cristo". Chi dunque
non si sente attratto da Cristo, preghi perché venga attratto. Per
Agostino, la preghiera è un discorso fatto a Dio. E riprendendo una
dottrina ormai tradizionale, afferma: "Quando leggi, Dio parla a te;
quando preghi tu parli a Dio". Quali sono i dati fondamentali di
questo atteggiamento? La conversione del cuore, l'intenzione,
l'attenzione, la purificazione, la comunione. La conversione ci rimanda
alla condizione dell'uomo allontanatosi da Dio a causa del peccato;
l'intenzione rimanda al suo dinamismo interiore per cui, pur disteso o
distratto nel tempo, si protende con insopprimibile anelito verso
l'eterno: intentio
– distensio
– extentio; l'attenzione rimanda
alla presenza dell'uomo in Dio e di Dio nell'uomo; la purificazione
rimanda all'adesione disordinata dell'uomo alle creature; la comunione
rimanda all'incontro a tu per tu nella fede con Dio."Nella preghiera
avviene la conversione del cuore verso Colui che è sempre pronto a dare
se noi siamo in grado di ricevere... Nella conversione poi avviene la
purificazione dell'occhio interiore, quando si escludono le cose che si
bramano temporalmente, e ciò affinché la pupilla del cuore possa
sopportare la luce semplice che risplende senza tramonto o mutazione; e
non solo sopportarla ma anche abitare in essa; e abitarvi non solo senza
fastidio ma anche con ineffabile gaudio, nel quale consiste la vita
veramente e genuinamente beata". Alla
natura della preghiera e in dipendenza da essa va congiunta la sua
prerogativa principale: l'interiorità. "Dobbiamo pregare col cuore,
non con le labbra". Di conseguenza, egli stabilisce un legame tra
desiderio e preghiera: "Il tuo stesso desiderio è la tua preghiera,
e il continuo desiderio è una continua preghiera".
L'amore
della verità cerca la quiete
Scrive
Agostino: "L'amore
della verità cerca la quiete della contemplazione, l'esigenza dell'amore
accetta le occupazioni dell'apostolato. Se nessuno c'impone questo
fardello, dobbiamo attendere alla ricerca e all'acquisto della verità; ma
se ci è imposto, dobbiamo accettarlo per dovere della carità. Però,
neppure in questo caso bisogna abbandonare il godimento della verità,
perché non avvenga che, sottrattaci questa dolcezza, si resti oppressi da
quella esigenza" (La città di Dio 19, 19). Citando da Agostino
Trapè, si può dire che il
discorso agostiniano sul primato della contemplazione si riduce: a) al
primato dell'amore della verità, che è il primato dell'amore di
Dio vivo e vero; b) all'eternità della vita contemplativa a differenza di
quella attiva, che dura solo in questa vita, dove ci sono i miseri che
hanno bisogno di misericordia; c) all'altezza dei doni che l'accompagnano:
è infatti legata al dono della sapienza, che il più alto dei doni dello
Spirito Santo, e alla beatitudine della pace, la più alta tra le
beatitudini. Inutile
dire che il vescovo d'Ippona, pur difendendo il primato della vita
contemplativa, insiste sull'accettazione degli impegni della vita attiva
quando i bisogni della Chiesa lo richiedono, cioè sulle esigenze
dell'amore. Per questo, con felice intuizione e profonda originalità,
insegna, attraverso la parola e l'esempio, a mettere insieme le scelte del
monachesimo (preghiera e lavoro) e quelle del sacerdozio. Su questo tema
Agostino ha toni ed accenti di commovente pietà. L'uomo di Dio
"cerchi la gioia del silenzio, predichi solo secondo il bisogno...;
godiamo dei beni interiori, negli esteriori sia la necessità non la
volontà a guidarci". Parlando al popolo delle fatiche
dell'apostolato e delle dolcezze della contemplazione, dice riferendosi a
quest'ultima: "Nessuno più di me amerebbe una vita così sicura e
tranquilla: niente di meglio, niente di più dolce che scrutare il divino
tesoro lontano dai rumori del mondo; è cosa dolce e buona. Invece
predicare, rimproverare, correggere, edificare, attendere ai bisogni di
ciascuno è un gran peso, un gran carico, una grande fatica. Chi non
rifuggirà da questa fatica? Ma mi spaventa il Vangelo". Ossia
quello che gli comandava di pascere il gregge di Cristo, che è pur sempre
un compito di amore, ma un amore che impedisce di soddisfare come si
vorrebbe un altro amore. Per questo comando del Vangelo, Agostino era
restato e restava sulla breccia, ma le sue preferenze erano ben
altre: "Chiamo Cristo a testimonio delle mie parole, che per quanto
riguarda il mio comodo preferirei molto più lavorare con le mie mani ogni
giorno ad ore determinate, come si fa nei monasteri ben governati, ed
avere poi le altre ore libere per leggere e pregare o per studiare
L'ascesa
verso
la contemplazione
La
via verso la contemplazione è lunga e faticosa, perché suppone le dure fatiche della purificazione,
delle quali è il premio "altissimo e segretissimo". Il termine
contemplazione è filosofico pur se è evangelico il suo contenuto. Agostino la
ricollega alla beatitudine dei puri di cuore, e afferma: "Tutta la
nostra opera in questa vita consiste nel purificare l'occhio del cuore
allo scopo di vedere Dio". Essa comprende quella assidua opera
ascetica che serve non a mortificare ma a riordinare l'amore.
"Nessuno vi dice: Non amate. Non sia mai! sareste pigri, morti,
detestabili, miseri se non amate. Amate, ma state attenti a che cosa
amate". Riordinare dunque l'amore, riportando ordine e pace dentro di
noi: a tale scopo sono necessarie le opere dell'ascetismo cristiano, nelle
quali occorre insistere in particolare nei primi passi della vita
spirituale. Soprattutto sono necessarie, per elevarsi progressivamente
verso la contemplazione, quelle opere che Agostino chiama le
"delizie" delle anime consacrate, e cioè: "la lettura
– che vuol dire studio, meditazione, ascolto della voce di Dio, dialogo con
Dio
–, l'orazione, la salmodia, i buoni pensieri, l'impegno in opere di
bene, l'attesa della vita futura, l'elevazione del cuore". Programma
ascetico-mistico nel quale si muovono appunto le persone che sono più in
alto nella vita dello spirito. Da queste opere nasce il silenzio, quel
prezioso silenzio interiore, che è per Agostino
– e non solo per lui
– la
condizione indispensabile per il colloquio con Dio e per la contemplazione
innamorata della bellezza divina. "La nostra anima ha bisogno di
solitudine. Se l'anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è
chiassosa: per vedere Dio è necessario il silenzio". Per questo egli
chiede appassionatamente a Dio questo silenzio: "Liberami, o mio Dio
– scrive nella preghiera con cui chiude il suo De Trinitate
–,
liberami dalla moltitudine di parole di cui soffro nell'interno della mia
anima... Infatti non tace il pensiero anche quando tace la lingua".
Frutto di questo silenzio, non vuoto ma pieno, è quello di raccogliere
tutte le potenze del nostro spirito in Dio. Ancora un testo agostiniano:
"Che cosa facciamo quando ci sforziamo di essere sapienti se non
raccogliere, per così dire, con la maggiore alacrità possibile, tutta la
nostra anima in ciò che tocchiamo con la mente, e metterla lì e
fissarcela stabilmente, di maniera che non goda più del suo bene privato
con il quale si è avvinta alle cose transitorie, ma, spogliatasi di tutti
gli affetti temporali e spaziali, afferri l'Essere ch'è uno ed è sempre
lo stesso?".
La
contemplazione
Se
l'ascesa è lunga e faticosa, la contemplazione invece, nel suo grado più
alto, è rapida e folgorante, simile a un baleno, un battito del cuore,
un'intuizione momentanea. Agostino la nota ogni volta che ne parla. "E pervenne (la mente) all'Essere stesso in un impeto di trepida visione". "La cogliemmo un poco (la fonte della sapienza), con tutto
l'impeto del cuore, e sospirammo". "Allietati da una
ineffabile dolcezza interiore, abbiamo potuto scorgere con l'occhio della
mente qualcosa d'immutabile, anche se per un momento solo e di sfuggita". "Una visione da non poterla sopportare lungamente". Ma
pur nella sua momentaneità, essa è insieme "conoscenza e dilezione
dell'Essere eterno e immutabile, Dio". Una conoscenza non nozionale,
dunque, ma sperimentale, cioè conoscenza amorosa e, pur nella sua oscurità,
piena di luce. Nella contemplazione, quale Agostino la descrive, vi sono
due elementi: la conoscenza e l'amore; importa infatti un "conoscere
le cose divine" e insieme "toccarle" con la punta del
cuore, un "raggiungerle", un "raccogliere" in esse
tutte le proprie facoltà e il proprio essere. Del resto è difficile
esprimere a parole questa sublime esperienza. Anche chi l'ha avuta la
esprime con difficoltà. Agostino non ha saputo dirci nulla di meglio, e
ha detto stupendamente che talvolta il Signore lo introduceva in un
sentimento interiore affatto sconosciuto, che se fosse cresciuto un poco sì
da esser pieno, questa vita non sarebbe stata più questa vita. Si avrebbe
torto però d'interpretare questa dottrina come una visione immediata di
Dio. Agostino lo esclude. La vita contemplativa, scrive, è vissuta qui in
terra nella fede, e solo "pochissimi (la vivono) in una qualche
visione della verità immutabile, come in uno specchio, in maniera
confusa, imperfettamente". Né dai testi si può dedurre che egli
stesso, Agostino, abbia qualche volta usufruito del privilegio della
visione immediata di Dio.
Breve
Antologia
Quella
che segue è una breve antologia tratta dalle opere di Agostino. Non è
facile citare dalla vastissima produzione. Probabilmente non sono le
scelte migliori, ma quelle con cui sono entrato in rapporto e che, leggendo, mi
sono sembrate più idonee a rappresentarlo in queste pagine. Invito sempre, come
altrove ho fatto in queste pagine, a leggere direttamente le opere per rendersi conto
della sua immensa profondità e della sua ineguagliabile ricchezza.
RITORNA
IN TE STESSO (La vera
religione ***, 39. 72)
C’è dunque
ancora qualcosa che non possa ricordare all’anima la primitiva bellezza
che ha perduto, dal momento che lo possono fare i suoi stessi vizi? La
sapienza divina pervade il creato da un confine all’altro; quindi, per
tramite suo, il sommo Artefice ha disposto tutte le sue opere in modo
ordinato, verso l’unico fine della bellezza. Nella sua bontà pertanto a
nessuna creatura, dalla più alta alla più bassa, ha negato la bellezza
che da Lui soltanto può venire, così che nessuno può allontanarsi dalla
verità senza portarne con sé una qualche immagine. Chiediti che cosa ti
attrae nel piacere fisico e troverai che non è niente altro che
l’armonia; infatti, mentre ciò che è in contrasto produce dolore, ciò
che è in armonia produce piacere. Riconosci quindi in cosa consista la
suprema armonia: non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità
abita nell’uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole,
trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che
trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il
lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la
ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa
con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione. Vedi
in ciò un’armonia insuperabile e fa’ in modo di essere in accordo con
essa. Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non
cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un
luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente, in modo
che l’uomo interiore potesse congiungersi con ciò che abita in lui non
nel basso piacere della carne, ma in quello supremo dello spirito.
***
Il testo completo de "La vera religione", in versione PDF
compresso (403 Kb), può essere scaricato qui:
MAI
SMETTERE DI CERCARE DIO
(La
Trinità, XV, 2. 2)
Dio stesso,
che cerchiamo, ci aiuterà, spero, perché il nostro sforzo non sia
infruttuoso e perché comprendiamo come lo scrittore santo abbia potuto
dire nel Salmo: Si rallegri il cuore di coloro che cercano Dio: cercate
Dio e siate forti; cercate sempre il suo volto [Sal 104, 2-4]. Sembra,
infatti, che ciò che si cerca sempre, non si trovi mai e come allora si
rallegrerà e non si rattristerà invece il cuore di coloro che cercano,
se non avranno potuto trovare ciò che cercano? Perché il Salmista non
dice: “Si rallegri il cuore di coloro che trovano”, ma: di
coloro che cercano il Signore [1 C 16, 10]?
E che tuttavia Dio Signore si possa trovare, quando lo si cerca, lo
testimonia il profeta Isaia, quando afferma: Cercate il Signore e
appena lo troverete, invocatelo; e quando si sarà avvicinato a voi,
l’empio abbandoni le sue vie e l’iniquo i suoi pensieri [Is 55,
6-7]. Se dunque,
cercandolo, si può trovare Dio, perché è scritto: Cercate sempre il
suo volto [Sal 104, 4]? Sarà forse che, anche una volta che lo si è
trovato, bisogna cercarlo ancora? È così infatti che bisogna cercare le
cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato nulla colui che
abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava. Perché
allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca, se non
perché non deve desistere, fino a quando progredisce nella ricerca
dell’incomprensibile e diventa sempre migliore cercando un bene così
grande, che si cerca per trovarlo e lo si trova per cercarlo? Perché lo
si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con
maggiore ardore. È in questo senso che si può intendere l’affermazione
che l’Ecclesiastico pone in bocca della Sapienza: Coloro che mi
mangiano avranno ancora fame e coloro che mi bevono avranno ancora sete
[Eccli 24, 29].
Mangiano infatti e bevono, perché trovano, e, poiché hanno fame e sete,
cercano ancora. La fede cerca, l’intelligenza trova; per questo il
Profeta dice: Se non crederete, non comprenderete [Is 7, 9].
E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato;
perché Dio guarda sui figli dell’uomo, come si canta nel Salmo
ispirato, per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca Dio
[Sal
13, 2]. Dunque
per questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio.
L'INEFFABILE
IN DIO
(Sul
Salmo 99, Esposizione, 6)
Sii
simile a Dio mediante la pietà e amalo col tuo pensiero! E, sapendo che i
suoi attributi invisibili si comprendono e si vedono attraverso le cose
create [cf. Rm 1, 20], osserva e
ammira le creature, ricercandone il Creatore. Se gli sei dissimile, sarai
respinto; se gli sei simile, gioirai. E quando nella tua somiglianza avrai
cominciato ad avvicinarti a Dio e a provare la sensazione di Dio, quanto
più aumenterà la carità (poiché anche la carità è Dio [cf. 1 Gv 4,
8]) tanto più sentirai un qualcosa che
tu dicevi e non dicevi. Difatti, prima d’assaporare queste sensazioni,
credevi di poter esprimere Dio a parole; quando cominci ad averne la
sensazione, ti accorgi che non sei in grado di esprimere ciò che provi.
Che se ti accorgerai di non saper esprimere quanto intendi, dovrai per
questo tacere e non lodare? Te ne resterai muto, senza lodare Dio, senza
ringraziare colui che ti si è voluto manifestare? Lo lodavi quando ne eri
in cerca; resterai muto quando lo hai trovato? Assolutamente no. Non sarai
così ingrato. A lui è dovuto l’onore, il rispetto, la lode più
grande. Rifletti a cosa tu sia: sei terra e cenere. Considera cosa ha
meritato di vedere uno come te. Nota gli estremi: colui che vede e
l’oggetto che vede; un uomo che vede Dio. Riconosco che tutto questo non
è merito d’uomo ma benevolenza di Dio. E allora loda chi ti ha usato
tale misericordia! Ma come dovrò lodare?, obietterai. Non so esprimere
nemmeno quel poco che ho potuto comprendere nella mia cognizione parziale,
ottenuta per via d’immagini e con lo specchio [cf. 1 Cor 13, 12]!
Ebbene, ascolta il salmo! Terra tutta, giubilate al Signore!
Comprenderai il giubilo di tutta la terra, se tu stesso giubili al
Signore. Giubila al Signore! Non disperdere il tuo giubilo su questi o sii
quegli oggetti. E nota infine che le cose create più o meno possono
essere tutte espresse a parole; Dio invece è l’unico ineffabile, lui
che disse una parola e tutto fu creato. Disse una parola e fummo creati
noi [cf. Sal 32, 9]; ma se noi proviamo a
parlare di lui, ne siamo incapaci. La Parola, mediante la quale noi fummo
creati, è il suo Figlio: quel Figlio il quale si rese debole come noi,
affinché noi deboli riuscissimo in qualche modo a parlarne. Alla parola
di Dio noi possiamo rispondere col giubilo; ma non abbiamo parola che
corrisponda a quella Parola. Pertanto giubilate al Signore, o terra
tutta!
I GRADI DELL'ANIMA (La grandezza dell'anima, 33.70-33.76)
Primo
grado: l’animazione 33. 70. A. - Magari potessimo interpellare entrambi sull’argomento un uomo non solo dotto, ma anche eloquente, veramente saggio e perfetto. Egli potrebbe spiegarci in modo eccellente, mediante l’esposizione e il dialogo, il valore dell’anima nel corpo, in sé e in relazione a Dio, al quale, dopo la purificazione, è assai vicina e nel quale ha il bene assoluto. Ma poiché a me in questa opera manca un altro, mi faccio coraggio per non mancare io a te. Ma ho questo vantaggio che mentre senza competenza espongo il valore dell’anima, prendo sicura coscienza del mio valore. E prima di tutto limito una tua attesa troppo ampia e illimitata. Non ti mettere in testa che io ti parli di ogni anima, parlerò soltanto di quella umana. Di essa soltanto dobbiamo interessarci, se abbiamo un interesse per noi. Prima di tutto dunque, ed è un fatto che tutti possiamo agevolmente verificare, l’anima con la sua presenza vivifica questo corpo terreno e mortale. Aduna e mantiene le parti del corpo nell’uno e non permette che si disgreghino e si alterino. Attiva la distribuzione del nutrimento nelle membra secondo eguaglianza, rendendo a ciascuno il suo. Del corpo conserva la misura conveniente, non solo nella forma, ma anche nell’attuare la crescenza e la generazione. È possibile tuttavia osservare che tali proprietà sono comuni all’uomo e alle piante. Anche di esse si dice infatti che vivono, si osserva e si deve ammettere che ciascuna di esse si mantiene nella propria specie, si nutrisce, cresce e si riproduce.
Secondo
grado: la sensazione 33. 71. Sali dunque il secondo gradino. Osserva il potere dell’anima nei sensi, nei quali si riscontra una più evidente manifestazione di vita. Non si deve infatti prendere in considerazione non saprei quale irriverente teoria, certamente grossolana e più legnosa degli alberi, di cui si assume la difesa, perché giunge a sostenere che la vite sente dolore, quando si coglie l’uva, e che le piante non solo sentono, quando si tagliano, ma addirittura vedono e odono. Di questo errore blasfemo si parlerà altrove. Per il momento, secondo quanto ho programmato, intendi quale sia il potere dell’anima nei sensi e nel movimento dell’essere più manifestamente animato, proprietà appunto che è impossibile avere in comune con esseri che sono immobilizzati dalle radici. L’anima si esplica come movimento nel tatto e con esso percepisce distintamente il caldo e il freddo, il ruvido e il liscio, il duro e il molle, il leggero e il pesante. Inoltre col gusto, l’odorato, l’udito e la vista distingue innumerevoli differenze di sapori, odori, suoni e forme. In tutte queste funzioni cerca e appetisce le cose che sono convenienti alla natura del suo corpo, respinge e rifugge da quelle che sono contrarie. Si isola dai sensi per un determinato spazio di tempo e rinnovandone le energie durante un certo periodo di ferie, per dir così, passa in rassegna dentro di sé, a frotte innumerevoli, le immagini degli oggetti che con i sensi ha immagazzinato. Sono appunto il sonno e i sogni. Talora anche, con l’esercizio disciplinato delle braccia e delle gambe, produce l’estetica del movimento e senza stancarsi regola l’armonia delle membra. Rientra nei suoi poteri il congiungimento sessuale e mediante il legame fondato sull’amore tende a costituire l’unità fra i due sessi. Provvede non solo alla generazione, ma anche all’allevamento, difesa e nutrimento della prole. Si lega, mediante l’esperienza, alle cose, fra cui il corpo vive e con cui essa lo sostenta e malvolentieri, come se fossero membra, se ne distacca. E la vivezza dell’esperienza, in quanto non è fratturata dalla distanza delle cose e dal flusso del tempo, si chiama memoria. Ma non si può negare che le funzioni suddette sono attuate dall’anima anche nelle bestie.
Terzo
grado: arti e cultura 33. 72. Innalzati quindi al terzo grado, che è già esclusivamente dell’uomo. Pensa alla memoria, non fondata nell’esperienza delle cose passate, ma nella trasmissione documentata di innumerevoli fatti stabilmente conservati, alle tante tecniche artigianali, alla coltivazione dei campi, alla costruzione di città, alle svariate meraviglie di edifici e monumenti, all’invenzione di tanti segni dell’alfabeto, della parola, della mimica, della musica di vario genere, della pittura e scultura, a tanti idiomi, a tanti istituti, a tante cose nuove e rinnovate, a tanti libri e monumenti simili per trasmettere la memoria del passato e a tanta cura della posterità per conservarla, ai diversi ranghi delle cariche, dei poteri, degli onori e dignità nella famiglia, nello stato, in pace e in guerra, nei riti profani e sacri, alla dialettica del ragionare e del dedurre, ai fiumi d’eloquenza, alla varietà delle poesie, alle mille diverse finzioni dello spettacolo e della comica, alla conoscenza della musica, all’esattezza della geometria, alle leggi dell’aritmetica, alla congettura del passato e del futuro dal presente. Grandi cose ed esclusivamente umane. Ma questa è ancora capacità comune ai dotti e agli indotti, ai buoni e ai cattivi.
Quarto
grado: purificazione e virtù 33. 73. Lèvati quindi con lo sguardo al quarto grado, da cui iniziano la vita morale e la dignità spirituale. Da questo punto l’anima ardisce reputarsi superiore non solo al proprio corpo ma, se è vero che muove una qualche parte dell’universo, allo stesso universo visibile, a non considerare propri i beni del corpo e a disprezzarli con criterio nel raffronto col proprio potere e bellezza. E nell’atto che ne prende diletto, inizia gradualmente a separarsi dalle contaminazioni, a purificarsi totalmente e a rendersi pienamente monda e ornata, a fortificarsi contro tutte le cose, che tendono a distoglierla da un fermo proposito, a onorare l’umana convivenza e a non volere che si faccia agli altri ciò che non si vuole per sé, a seguire gli autorevoli insegnamenti dei saggi e a credere che sono per lei come parola di Dio. In tale attività eccellente dell’anima esistono ancora lo sforzo e un grande aspro conflitto contro le difficoltà e le lusinghe del mondo. Nell’esercizio della purificazione infatti rimane in sottofondo il timore della morte, il più delle volte non grande, talora fortissimo. Non è tanto grande, allorché si crede con fermezza, dato che avere visione intellettuale di tale verità è consentito all’anima soltanto al sommo grado della purificazione, che l’universo è governato con si grande provvidenza e giustizia di Dio, che a nessun individuo può sopravvenire la morte fuori dell’equità, anche se per caso fosse un iniquo a infliggerla. Si può temere invece fortemente la morte in questo grado, quando la fede nella verità suddetta è tanto meno ferma, quanto è più assillante la ricerca, e tanto meno se ne ha visione, quanto minore, a causa del timore, è la serenità indispensabile per investigare verità tanto arcane. In seguito l’anima gradualmente avverte, per il fatto stesso del suo profitto, la differenza esistente fra lo stato di purificazione e di contaminazione. Tanto più teme allora che, dopo la morte del corpo, Dio potrebbe esser meno clemente di lei nel vederla non purificata. Niente poi è più difficile della conciliazione fra il timore della. morte e la moderazione nelle soddisfazioni sensibili, come i pericoli stessi richiedono. Ma l’anima ha tanto valore che anche questo è possibile con l’aiuto della giustizia del sommo vero Dio, dalla quale è conservato e ordinato l’universo. Ad essa è dovuto non solo che il tutto esista, ma esista in maniera che meglio non sarebbe assolutamente possibile. E ad essa l’anima si affida con pietà e sicurezza per aiuto e perfezionamento nell’opera tanto difficile della propria purificazione.
Quinto
grado: costanza e serenità 33. 74. Quando è stato ottenuto questo risultato, cioè allorché si sarà resa libera dalla sensibilità e monda dalle contaminazioni, l’anima si raccoglie in sé con piena serenità, non teme più nulla per sé e non si angustia per un qualsiasi suo motivo. È dunque il quinto grado, poiché altro è effettuare la purificazione ed altro è il possederla, altro è l’atto con cui l’anima si riscatta dalla contaminazione e altro con cui non sopporta di tornare a contaminarsi. In questo grado ha la piena coscienza del proprio valore. In tale coscienza, con immensa e incredibile confidenza si muove verso Dio, cioè alla contemplazione della verità e a quell’altissimo arcano premio, per cui ha tanto sofferto.
Sesto
grado: verso la contemplazione 33. 75. Ma quest’atto, cioè la tendenza ad avere intelligenza degli oggetti che sono al sommo grado della intelligibilità, è lo sguardo supremo dell’anima, perché altro più perfetto, migliore e più diretto non ne ha. È quindi il sesto grado dell’atto stesso. Altro è infatti che sia puro l’occhio dell’anima perché il suo sguardo non sia vano e presuntuoso e la sua visione erronea, altro è mantenere stabile la sanità ed altro dirigere lo sguardo, ormai sereno e sicuro, sull’oggetto della visione. Ma vi sono alcuni che pretendono di farlo prima della purificazione e guarigione. Ma saranno talmente abbacinati dalla luce ideale di verità da esser costretti a pensare che non solo in essa non v’è alcun bene ma un grande male, a negarle il nome di verità e a rifugiarsi con un certo gusto e soddisfazione degni di compatimento nelle proprie tenebre, che la loro infermità può sopportare, rinnegandone la cura. Quindi per divina ispirazione e proprio a proposito dice il Profeta: O Dio, crea in me un cuore mondo e rinnova dentro di me uno spirito ben orientato (Sal 50, 12). Lo spirito ben orientato è, credo, quello per cui l’anima non può smarrirsi per errore nella ricerca della verità. Ma esso non può essere rinnovato in noi senza la purificazione del cuore, cioè se prima il pensiero stesso non si è contenuto e disciolto dalle insozzanti brame delle cose caduche.
Settimo
grado: nella contemplazione 33. 76. Il settimo ed ultimo grado consiste nella contemplazione intellettuale della verità. Non è un grado, ma uno stato definitivo che si raggiunge attraverso i vari gradi. E quale sia la gioia, quale il godimento nel possesso del sommo e vero bene e di quale imperitura serenità sia il palpito, io non saprei dire. L’hanno detto, nei limiti in cui giudicarono di poterlo dire, anime grandi e incomparabili. E noi riteniamo che hanno veduto e vedono tuttora quell’oggetto. Ed ora oso dirti quanto segue. Se noi siamo perseveranti nel tenere il cammino che Dio ci ordina e che noi abbiamo intrapreso, giungeremo, con l’aiuto della divina provvidenza, alla ragione suprema o sommo fattore o sommo principio dell’universo o, se si vuole, altro nome, con cui un essere tanto grande si possa più convenientemente designare. Quando ne abbiamo puro pensiero, vedremo veramente quanto sotto il sole tutte le cose siano illusioni degli illusi (cf. Qo 1, 2). L’illusione è appunto apparenza e per illusi s’intendono tanto gli illusi dall’apparenza, quanto quelli che illudono o anche gli uni e gli altri. Si può anche giudicare la differenza esistente fra le cose apparenti e quelle intelligibili, e come tuttavia anche le prime siano state create da Dio e siano piuttosto un non-essere in confronto con le altre, sebbene considerate in sé siano mirabili e belle. Allora conosceremo quanto siano intelligibili gli oggetti, dei quali ci è stata richiesta la fede, con quanto salutare bontà siamo stati nutriti presso la madre Chiesa, quale sia il giovamento del latte, che l’Apostolo ha predicato di aver dato in bevanda ai piccoli (cf. 1 Cor 3, 2; Eb 5, 12; 1 Pt 2, 2). E prendere tale alimento è molto giovevole, finché si è nutriti dalla madre; disonorevole quando si è grandi; respingerlo, se è indispensabile, è degno di compatimento; disprezzarlo dopo averlo preso o odiarlo è delitto ed empietà; mungerlo e dispensarlo per l’uso è opera molto lodevole e caritativa. Vedremo anche l’indefinito divenire e fluire della natura nell’attuare l’ordinamento divino, con tanta evidenza che accetteremo pure, con maggiore certezza di quella, con cui al tramonto si crede che il sole tornerà a levarsi, la resurrezione dei morti, da alcuni accolta con qualche riluttanza, da altri del tutto negata. Ci sono alcuni, i quali scherniscono la dottrina che, per modello e inizio della nostra salvezza, il Figlio di Dio potentissimo eterno e immutabile ha assunto l’umanità, è nato da una vergine e gli altri aspetti misteriosi dell’avvenimento. Ma noi potremmo ribattere lo scherno, come faremmo con quei fanciulli, i quali, nell’osservare un pittore che mentre dipinge guarda dei disegni, non riuscissero a pensare che è possibile dipingere un uomo anche se il pittore non osserva un’altra pittura. V’è tanto godimento nella contemplazione della verità, nei limiti in cui è possibile contemplarla, tanta purità, tanta perfezione, tanta certezza dell’oggetto, da far pensare che non s’era mai avuta scienza di qualche cosa, quando sembrava di averne. E affinché l’anima sia meno ostacolata nell’aderire tutta al tutto della verità, la morte, che prima si temeva, è desiderata come definitiva ricompensa, in quanto fuga totale e liberazione dal corpo.
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