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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di
Antonello Lotti
Concetti fondamentali relativi
alla mistica
Icona
della Risurrezione
«Io
lodo il distacco ancor più di ogni misericordia, giacché la misericordia
in null'altro consiste se non nel fatto che l'uomo esce da se stesso per
andare verso le miserie del prossimo, e così il cuore ne riceve
turbamento. Sinché qualcosa è in grado di turbare l'uomo, egli non è
tal quale dovrebbe essere.»
Opere
di riferimento generale:
Luigi
Borriello et al. (cur.),
Dizionario di mistica, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1998
Stefano
De Fiores, Tullo Goffi (cur.),
Nuovo dizionario di spiritualità, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo
1989
Michael
Downey (ediz. italiana a cura di Luigi Borriello), Nuovo
Dizionario di spiritualità, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 2003
Antonio
Royo Marín, Teologia
della perfezione cristiana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo
1987
Charles
André Bernard, Teologia
Spirituale, Edizioni Paoline, Roma 1982
Federico
Ruiz, Le vie dello spirito. Sintesi di teologia spirituale,
EDB, Bologna 1999
C.Vladimir
Truhlar, L'esperienza
mistica - Saggio di teologia spirituale, Città Nuova Editrice,
Roma 1984
Adolfo
Tanquerey,
Compendio di Teologia Ascetica e Mistica, Società di S.
Giovanni Evangelista, Desclée e Ci, Roma-Tournai-Parigi 1928, opera introvabile, che può essere letto
per intero, grazie alla preziosa opera di Martin Guy. Si può scaricare
da qui zippato:
Herbert Vorgrimler, Nuovo dizionario teologico, EDB, Bologna 2004
AA.VV.,
Dizionario teologico enciclopedico, Edizioni Piemme, Milano
2004
Il
termine abbandono può avere due significati con valenza sia attiva
(l'anima che si abbandona a Dio) che passiva (l'anima abbandonata da
Dio). Il termine prende il via dal verbo latino derelinquere da
cui l'italiano derelizione, termine che designa l'anima in un
grado già avanzato del suo cammino mistico di perfezione. In questo
senso rappresenta l'abbandono da parte di Dio, almeno in apparenza, nel
cammino spirituale che lascia nell'anima un senso di solitudine,
aridità, desolazione. Si tratta in realtà di una prova che Dio
permette all'anima al fine di una purificazione estrema. Dio resta
silenzioso, non gratifica l'anima, anzi la conduce come in un deserto
senza luce, senza consolazione alcuna. Si verifica quasi un'esperienza
di morte cui il Padre consegna l'anima, ripetendo così quanto successo
col suo Figlio. I vari mistici hanno descritto quest'esperienza di
desolazione interiore: Teresa d'Avila parla della lotta ascetica propria
di un cammino di perfezione che passa attraverso tappe e gradi di
orazione. Giovanni della Croce insegna che un'anima che vuol giungere
alla perfezione deve passare attraverso due forme principali di notti.
Egli parla di
notte perché è come se l'anima dovesse camminare nel
buio assoluto. La notte oscura - egli afferma - è un influsso di Dio
nell'anima, che la purifica nella sua imperfezione ed ignoranza
abituale, natura e spirituale, dove Dio la istruisce in segreto nella
perfezione dell'amore, senza che essa faccia nulla e comprenda cosa sia
questa contemplazione (cfr. Notte oscura, II, 5,1). Altri autori
spirituali, come Francesco di Sales, parlano di imitazione di Gesù
Cristo come strada per la perfezione. Il massimo dell'amore consiste nel
rimettersi interamente a lui, come il Cristo in croce fra le braccia del
Padre, nel perfetto amore realizzato tramite l'esperienza della
desolazione. Alla base c'è la fede nell'amorosa sapienza di Dio che
dona infinitamente la vita alle sue creature.
Termine
aristotelico (éxis, in latino habitus) che indica la disposizione costante
ad
essere o ad agire in un certo modo. Differisce dall'abitudine (anche se
spesso vengono assimilati) perché
questa, fondandosi prevalentemente su una ripetizione meccanica, non
esige una presa di posizione mentale o volontaristica. Tommaso d'Aquino
la definisce come «una qualità, per se stessa stabile e difficile da
rimuovere, che ha il fine di assistere l'operazione di una facoltà e
facilitare tale operazione». La Scolastica distingue fra:
abiti
naturali (acquisiti dalla persona e frutto della libertà): gli abiti naturali possono essere intellettuali,
se facilitano allo spirito le operazioni concettuali essenziali , o morali,
se sostengono i principi fondamentali del comportamento;
abiti soprannaturali o infusi provenienti dalla
grazia divina, veri e stabili.
L'adorazione
è un atto esterno della
virtù della religione con cui testimoniamo
l'onore e la il rispetto che merita la divinità. Sebbene faccia
astrazione dal corpo (in quanto anche gli angeli adorano), nell'uomo si
manifesta con atti esterni del corpo. Questi implicano l'adorazione
interna che è comunque quella principale. Il termine esprime
rispetto, riconoscenza, sudditanza, venerazione, timore reverenziale
verso una persona o una realtà considerata superiore. Solitamente
comunque è un termine usato per designare l'atteggiamento fondamentale
della creatura verso il suo Creatore e quindi è riservato ai rapporti
dell'uomo con Dio. Etimologicamente, la parola deriva da un gesto
concreto che ne dimostra il rapporto: ad os dei romani si
riferiva al gesto di portare le dita alle labbra e poi mandare con le
stesse dita un saluto o un bacio alla persona venerata. I gesti di
adorazione sono molto diversificati nelle varie culture. Il gesto
esterno pu essere l'inginocchiarsi, il prostrarsi, il chinare il capo,
il baciare il suolo o anche compiere danze rituali o sacrifici
propiziatori. L'adorazione dunque consiste nell'atto (interiore ma anche
esteriore) in cui tutta la persona, corpo ed anima, riconosce la sua
dipendenza totale da Dio. L'adorazione viene inclusa nella categoria di
culto denominata latria, quel culto che spetta a Dio solo e a
nessun altro. Questo viene distinto dalla dulia, che consiste in
un atto di venerazione nei confronti dei santi. Una forma particolare di
venerazione è quella dovuta alla Vergine Maria, che viene chiamata iperdulia.
È
la tendenza di un ente verso qualcosa ad esso conveniente.
Psicologicamente sta ad indicare la tendenza, l'inclinazione naturale a
desiderare e cercare il proprio appagamento in un oggetto esterno, colto
confusamente dalla coscienza come piacevole e rispondente ai bisogni
vitali di cui il soggetto sperimenta la carenza. Può essere:
NATURALE:
tendenza di qualsiasi cosa al suo fine (verso la propria completezza
entitativa);
SENSITIVO:
detto anche elicito, indica la
potenza
(v.) per la quale un soggetto tende verso un bene conosciuto
attraverso i sensi;
RAZIONALE:
potenza per la quale un soggetto razionale tende verso un bene
conosciuto attraverso la ragione.
Giovanni
della Croce distingue due specie di appetito: il primo, volontario,
è connotato da una componente viziosa e sta ad indicare una tendenza o
inclinazione disordinata dell'affettività, con la partecipazione della
volontà. Consiste in ogni inclinazione naturale in quanto si oppone
alla legge della ragione e della fede e in quanto resiste e si ribella
alla vita spirituale. In questo senso forma una categoria morale
negativa. Il secondo, che ha una connotazione morale positiva, indica
soprattutto il desiderio.
Etimologicamente
il termine ascesi significa esercizio,
allenamento e si applica sia all'esercizio fisico sia alla riflessione
filosofica. Ben presto, però, questa parola è venuta a significare gli
sforzi mediante i quali si vuole riuscire a progredire nella vita morale e
religiosa. Questi sforzi spesso, ma non necessariamente, sono metodici.
Stando alla generalità dei casi, l'ascesi spirituale da un lato impone
una disciplina corporale, dall'altro suppone degli esercizi di orazione
mentale sottoposti a metodi più o meno stretti. Partendo dalla
necessità, per l'uomo, di uno sforzo per conseguire la perfezione, tutte
le spiritualità parlano di ascesi e di vita ascetica: ogni persona
spirituale deve praticare «esercizi spirituali». Anche nella vita
cristiana è necessario lo sforzo umano per cooperare alla grazia divina e
disporsi a ricevere un incremento di vita spirituale; e poiché questo
sforzo di purificazione e di cooperazione non è mai completo ed è quindi
necessariamente permanente, alcuni autori includono sotto il nome di
«ascetica» tutta la teologia spirituale.
Il
termine "contemplare", cioè guardare a lungo con stupore e
ammirazione, è composto di due parole cum e templum; cum
= con indica simultaneità e contemporaneità, comunanza e unione; templum
= spazio celeste, spazio circoscritto dal cielo abbracciato dallo sguardo,
o tempio consacrato a una divinità. Insieme, le due parole assumono il
significato di "abitare questo spazio celeste o tempio divino".
Nella filosofia greca antica il termine è sinonimo di intuizione
razionale. A partire da Plotino, questa attività risulta essere distinta
dall'intuizione, attraverso cui si conosce l'oggetto. Successivamente, i
Padri della chiesa presero a considera la contemplazione come riflessione
dell'anima su se stessa e della sua graduale purificazione per accostarsi
a Dio. Nel corso del tempo, si vanno delineando due correnti: l'intellettualismo,
di derivazione tomista, che considera la contemplazione come un'azione
dell'intelletto che genera l'amore; l'altra, detta volontarismo,
rappresentato da Bonaventura e Duns Scoto che invece considera la
contemplazione come amore e frutto di amore. In ultima analisi, la
contemplazione viene ad indicare una forma superiore di conoscenza
caratterizzata dalla semplicità dell'atto, di conseguenza essa si
realizza in un atto di semplice intuizione della verità (simplex
intuitus veritatis) o di riposo tranquillo sull'oggetto conosciuto: contuitus,
fruitio, possessio veritatis. Di qui, l'insistenza nel recuperare,
nella vita spirituale, quel gusto della contemplazione, quale stupore o
meraviglia, altra denominazione della fede, dinanzi al Mistero
trascendente di Dio. Allora la contemplazione è lo stupore che genera il
silenzio quasi abbagliato che segue l'ascolto dell'ineffabile Dio. È il
silenzio contemplativo, che non è assenza di parole o di suoni, ma
pienezza della Parola e dell'armonia suprema (da M.Herraiz, voce
"Contemplazione" in Dizionario di mistica, op.cit., p.
338-339).
A.Tanquerey
scrive che la contemplazione "non è che pensare a Dio in modo
continuo e fissare così amorosamente lo sguardo su di lui". Egli distingue
una contemplazione naturale da quella soprannaturale:
1.
Contemplazione naturale: contemplare
in generale significa guardare un oggetto con ammirazione. C'è una
contemplazione naturale, che può essere sensibile, immaginativa o
intellettuale. 1) È sensibile, quando si guarda a lungo e con ammirazione
un bello spettacolo, per esempio, l'immensità del mare o una maestosa
catena di monti. 2) Si chiama immaginativa, quando uno colla fantasia
si rappresenta a lungo, con ammirazione ed affetto, cosa o persona amata.
3) Si dice intellettuale o filosofica, quando si fissa la mente con
ammirazione e con sguardo complessivo su qualche grande sintesi
filosofica, per esempio, sull'Essere assolutamente semplice ed immutabile,
principio e fine di tutti gli esseri.
2.
Contemplazione soprannaturale:
della contemplazione soprannaturale bisogna esporre la nozione e le
specie:
A)
Nozione. La parola contemplazione indica, in senso proprio, un atto
di semplice vista intellettuale, astraendo dai vari elementi affettivi o
immaginativi che l'accompagnano; ma, quando l'oggetto contemplato è bello
ed amabile, l'atto si associa ad ammirazione e amore. Per estensione si
chiama contemplazione un'orazione che ha per qualità speciale il
predominio di questo semplice sguardo; onde non è necessario che questo
atto duri tutto il tempo dell'orazione, basta che sia frequente e
accompagnato da affetti. L'orazione contemplativa si distingue quindi
dall'orazione discorsiva, perché esclude i lunghi ragionamenti; e
dall'orazione affettiva, perché esclude la molteplicità degli atti che
qualificano quest'ultima. Si può dunque definirla: una vista semplice e
affettuosa di Dio o delle cose divine; e più brevemente simplex
intuitus veritatis, come dice S. Tommaso.
B)
Specie. Si possono distinguere tre specie di contemplazione: la
contemplazione acquisita, la contemplazione infusa e la contemplazione
mista.
a)
La contemplazione acquisita non è in fondo che orazione affettiva
semplificata e si può definire: una contemplazione in cui la
semplificazione degli atti intellettuali ed affettivi è il frutto della
nostra attività aiutata dalla grazia. Spesso anche i doni dello Spirito
Santo vi intervengono in modo latente, massime quello della scienza,
dell'intelletto e della sapienza, per aiutarci a fissare amorosamente lo
sguardo su Dio.
b)
La contemplazione infusa o passiva è essenzialmente gratuita, e non
possiamo procurarcela con i nostri sforzi, aiutati dalla grazia ordinaria.
Onde si può definirla: una contemplazione in cui la semplificazione degli
atti intellettuali ed affettivi risulta da una grazia speciale, grazia
operante, che s'impossessa di noi e ci fa ricevere lumi ed affetti che Dio
opera in noi col nostro consenso. È quindi detta infusa, non perché
proceda dalle virtù infuse, procedendone anche la contemplazione
acquisita, ma perché non è in nostro potere il produrre questi atti,
data pure la grazia ordinaria; non è però Dio solo che opera in noi,
perché lo fa col libero nostro consenso, in quanto che noi liberamente
riceviamo ciò che egli ci dà. Se l'anima, sotto l'influsso di questa
grazia operante, è detta passiva, gli è perché riceve doni divini, ma,
ricevendoli, vi dà il suo consenso, come appresso spiegheremo. Da
S. Teresa è chiamata soprannaturale, perché è tale per doppio
ragione, primo per lo stesso titolo degli altri atti soprannaturali, e poi
perché Dio opera in noi in modo specialissimo.
c)
Si distingue pure una contemplazione mista. Vedremo infatti appresso che
la contemplazione infusa è talvolta brevissima; onde può accadere che,
in una stessa orazione, gli atti dovuti all'attività nostra si alternino
con gli atti prodotti sotto l'azione speciale della grazia operante; cosa
che avviene specialmente a quelli che cominciano ad entrare nella
contemplazione infusa. La contemplazione è allora mista, ossia
alternativamente attiva e passiva; ma generalmente viene classificata
nella contemplazione infusa, di cui è, a così dire, il primo
grado.
Scrive
A.Tanquerey che lo Spirito Santo che abita nell'anima, vi produce,
oltre alla grazia abituale, abiti soprannaturali che perfezionano
le nostre facoltà e le rendono capaci di produrre atti soprannaturali
sotto l'impulso della grazia attuale. Questi abiti sono le virtù e i
doni: la differenza fondamentale non deriva dall'oggetto materiale o dal
campo d'azione che è lo stesso, ma dal diverso modo di operare
nell'anima. Dio può operare in noi in due modi:
a) adattandosi
al modo umano di agire delle nostre facoltà; il che fa nelle virtù,
aiutandoci a riflettere e a cercare i mezzi migliori per giungere allo
scopo; a rendere soprannaturali queste operazioni ci dà le grazie
attuali, ma lascia che incominciamo noi secondo le regole della prudenza o
della ragione illuminata dalla fede; onde siamo noi che operiamo sotto
l'impulso delle grazia;
b)
ma, per mezzo dei doni, Dio opera pure in una maniera superiore al
modo umano. Comincia lui per il primo: prima che abbiamo avuto il tempo di
riflettere e di consultare le regole della prudenza, ci manda istinti
divini, illustrazioni e ispirazioni, che operano in noi senza
deliberazione da parte nostra, non però senza il nostro consenso. Tale
grazia, che sollecita in modo soave e ottiene efficacemente il nostro
consenso, può essere chiamata grazia operante; sotto di lei noi
siamo più passivi che attivi e la nostra attività consiste soprattutto a
consentire liberamente all'operazione di Dio, a lasciarci guidare dallo
Spirito Santo, a seguirne prontamente e generosamente le ispirazioni. Si
può concludere che i doni dello Spirito Santo sono abiti
soprannaturali che danno alle facoltà tale docilità da obbedire
prontamente alle ispirazioni della grazia. Ma questa docilità non è
in principio che semplice ricettività, che ha bisogno di essere coltivata
per giungere al pieno suo sviluppo.
Se
si studiano i doni, in corrispondenza alle virtù da essi perfezionate, si
distinguono:
1.
il dono del consiglio perfeziona
la virtù della prudenza, facendoci giudicare prontamente e sicuramente,
per una specie di intuizione soprannaturale, ciò che conviene fare,
specialmente nei casi difficili;
2.
il dono della pietà perfeziona
la virtù della religione, che è annessa alla giustizia, producendo nel
cuore un affetto filiale a Dio e una tenera devozione alle persone o alle
cose divine, per farci compiere con santa premura i doveri religiosi;
3.
il dono della fortezza che perfeziona
la virtù della temperanza; è un dono che attribuisce alla volontà un
impulso ed una energia che la rendono capace di operare o di soffrire
lietamente e intrepidamente grandi cose, superando tutti gli ostacoli;
4.
il dono del timore: non si
tratta di quella paura di Dio che, al ricordarci dei nostri peccati, ci
inquieta, ci attrista, ci conturba. Non si tratta neppure del timore
dell'inferno, che basta per abbozzare una conversione ma non per dar
compimento alla nostra santificazione. Si tratta del timore riverenziale e
filiale che ci fa paventare ogni offesa di Dio. Il dono del timore
perfeziona nello stesso tempo le virtù della speranza e della temperanza:
la virtù della speranza, facendoci paventare di dispiacere a Dio e di
essere da lui separati; la virtù della temperanza, staccandoci dai falsi
diletti che potrebbero farci perdere Dio. Può quindi definirsi un dono
che inclina la volontà al rispetto filiale di Dio, ci allontana dal
peccato perché gli dispiace, e ci fa sperare nel potente suo aiuto;
5.
col dono della scienza
siamo ai tre doni intellettuali che più direttamente concorrono alla
contemplazione: il dono della scienza, che ci fa giudicar rettamente delle
cose create nelle loro relazioni con Dio; il dono dell'intelletto, che ci
palesa l'intima armonia delle verità rivelate; il dono della sapienza,
che ce le fa giudicare, apprezzare, gustare. Tutti e tre hanno questo di
comune, che ci danno una conoscenza sperimentale o quasi sperimentale,
perché ci fanno conoscere le cose divine non per via di ragionamento ma
per mezzo di una luce superiore che ce le fa afferrare come se ne avessimo
l'esperienza. Questa luce, comunicataci dallo Spirito Santo, è certamente
la luce della fede, ma più attiva e più illuminante che non sia
abitualmente e che ci dà come una specie di intuizione di queste verità,
simile a quella che abbiamo dei primi principi. La scienza di cui qui
parliamo, non è la scienza filosofica che si acquista con la ragione,
neppure la scienza teologica che si acquista col lavorio della ragione sui
dati della fede, ma la scienza dei Santi che ci fa giustamente giudicare
delle cose create nelle loro relazioni con Dio. Si può quindi definire il
dono della scienza un dono che, sotto l'azione illuminatrice dello Spirito
Santo, perfeziona la virtù della fede, facendoci conoscere le cose create
nelle loro relazioni con Dio;
6.
il dono dell'intelletto
si distingue da quello della scienza perché l'oggetto ne è molto più
vasto: non si restringe alle sole cose create ma si estende a tutte le
verità rivelate; inoltre lo sguardo ne è più profondo, facendoci
penetrare (intus legere, "leggere dentro") l'intimo
significato delle verità rivelate. Non ci fa certamente comprendere i
misteri, ma ci fa capire che, nonostante la loro oscurità, sono
credibili, che bene armonizzano tra loro e con ciò che vi è di più
nobile nella umana ragione, onde conferma i motivi di credibilità. Può
dunque essere definito: un dono che, sotto l'azione illuminatrice dello
Spirito Santo, ci dà una penetrante intuizione delle verità rivelate,
senza però svelarcene il mistero. Il che si rileverà anche meglio dalla
sua azione nell'anima;
7.
il dono della sapienza: è un dono
che perfeziona la virtù della carità, e risiede nello stesso tempo
nell'intelletto e nella volontà perché effonde nell'anima luce ed amore.
Onde viene meritamente considerato come il più perfetto dei doni, quello
in cui si compendiano tutti gli altri, a quel modo che la carità
comprende tutte le virtù. Il dono della sapienza si può quindi definire
un dono che, perfezionando le virtù della carità, ci fa discernere e
giudicare Dio e le cose divine nei loro più alti principi e ce li fa
gustare. Differisce
quindi dal dono dell'intelletto, che ci fa conoscere le verità divine in
se stesse e nelle mutue loro relazioni ma non nelle loro cause più alte,
e che non ce le fa amare e assaporare.
Scrive
A.Tanquerey che ci sono tre fasi principali nell'estasi: l'estasi
semplice, il ratto e il volo dello spirito.
1.
L'estasi semplice è una
specie di deliquio (perdita temporanea di coscienza) che avviene
dolcemente, provocando nell'anima come una ferita, dolorosa e deliziosa
nello stesso tempo: lo Sposo le fa sentire la sua presenza ma per un po'
di tempo soltanto, mentre lei ne vorrebbe godere continuamente, onde
soffre di tale privazione. Questo godimento però è più saporoso che
nella quiete. Dice S.Teresa: «L'anima sente di essere dolcissimamente
ferita ma non riesce a spiegarsi né come né da chi; conosce però bene
che è cosa preziosa, così che no vorrebbe guarir mai di tale ferita. Si
lamenta, non potendo far altro, collo Sposo con parole di amore anche
esteriormente; perché conosce che è presente ma non vuole manifestarsi
in modo da lasciarsi godere. È pena vivissima quantunque soave e piena di
dolcezza... e di là più diletto che la saporosa sospensione
dell'orazione di quiete, che pur non porta seco alcuna pena». Vi sono
già in questa fase locuzioni soprannaturali e rivelazioni
(vedi la pagina dei
Fenomeni
straordinari nei mistici).
2.
Il rapimento (o ratto)
s'impossessa dell'anima con impetuosità e violenza in modo da non potervi
resistere. È come se un'aquila ti rapisse sulle sue ali senza saper dove
si vada. Nonostante il diletto che si prova, l'umana debolezza risente le
prime volte un brivido di terrore. Ma è terrore misto a grandissimo
amore, che di nuovo si concepisce per colui che così grande lo mostra a
un essere così piccolo. Nel ratto avviene lo sposalizio spirituale:
delicato pensiero da parte di Dio, perché, se l'anima conservasse l'uso
dei sensi, morrebbe forse al vedersi così vicina a questa grande Maestà.
Passato il ratto, la volontà rimane come ubriaca, né può più occuparsi
che di Dio; nauseata delle cose terrene, sente insaziabile desiderio di
fare penitenza, tanto che si lamenta quando non ha da patire.
3.
Succede al ratto il volo dello
spirito, che è così impetuoso da parere che lo spirito si separi dal
corpo senza che gli si possa resistere. «Pare all'anima - dice
S. Teresa -, di essere trasportata tutta intera in altra regione
molto diversa da quella in cui viviamo, ove le si mostra una luce nuova
con altre cose così diverse da quelle di quaggiù, che non sarebbe mai
riuscita a immaginarsele, quand'anche vi avesse impiegata tutta la vita.
Talora le sono, in un istante, insegnate tante cose insieme, che, dove si
fosse con l'immaginazione e con l'intelletto affaticata i lunghi anni a
metterle insieme, non sarebbe mai riuscita a raccapezzarne la millesima
parte».
GRAZIA
SANTIFICANTE
Può essere definita come una qualità
soprannaturale, inerente alla nostra anima, che ci conferisce una
partecipazione fisica e formale (sebbene analoga e accidentale) della
natura di Dio in quanto propria di Dio. Il primo effetto della grazia
santificante è di renderci partecipi della natura divina. Si tratta di un
aspetto particolare della grazia di Dio, cioè l'azione di Dio sull'uomo
ai fini della giustificazione. Essa non riguarda solo una promessa
escatologica (che si realizzerà alla fine dei tempi), ma un bene
attuale che concorre alla salvezza, che sana e perdona. Con la
giustificazione i peccati sono realmente cancellati in modo che l'uomo
passa dall'essere peccatore a giusto, soltanto ed esclusivamente con
l'azione gratuita di Dio. Il perdono trasforma l'uomo interiormente,
santificandolo. La grazia santificante rigenera l'uomo nell'essenza
della sua anima e non nelle sue
potenze.
Gli effetti della grazia
santificante nell'uomo sono quelli descritti da Paolo, nella sua
Epistola ai Romani:
E
voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella
paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per
mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta
al nostro spirito che siamo figli di Dio. E
se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo,
se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche
alla sua gloria (Romani
8,15-17).
In
particolare, la grazia ci rende 1) veri figli adottivi di Dio; 2) veri
eredi di Dio; 3) fratelli e coeredi di Cristo. Inoltre ci conferisce la
vita soprannaturale, ci rende giusti e graditi a Dio, ci unisce
intimamente a Dio, ci trasforma in templi vivi della SS. Trinità.
Scrive
A.Tanquerey che vi sono nella vita spirituale vari gradi e tappe diverse
da percorrere: è quindi necessario specificarli e adattare i principi
generali ai bisogni particolari delle anime, tenendo conto non solo del
carattere, delle inclinazioni, della vocazione, ma anche del grado di
perfezione in cui si trovano, affinché il direttore possa guidare ogni
anima secondo ciò che le conviene. Tali tappe (gradi, vie) sono
così riassunti:
1. Via purgativa (purificazione dell'anima - stato delle anime
incipienti)
2. Via illuminativa (stato delle anime proficienti)
3. Via unitiva
VIA
PURGATIVA: Gli incipienti
nella vita spirituale sono quelli che, vivendo abitualmente nello stato di
grazia, hanno un certo desiderio di perfezione, ma conservano affetto al
peccato veniale e sono esposti a ricadere di tanto in tanto in alcune
colpe gravi. La purificazione dell'anima è il lavoro per queste anime che
consiste nell'espiazione del passato e nel distacco dal peccato e dalle
sue occasioni per l'avvenire. Tale pratica consiste essenzialmente nella
preghiera, nella penitenza per riparare il passato, nella mortificazione
per assicurare l'avvenire, nella lotta contro i vizi capitali e contro le
tentazioni.
VIA
ILLUMINATIVA:
Purificata
l'anima dai passati peccati con la penitenza proporzionata al loro numero
e alla loro gravità; rassodatasi nella virtù con la pratica della
meditazione, della mortificazione e della resistenza alle inclinazioni
cattive e alle tentazioni, si entra nella via illuminativa. È chiamata
così perché consiste principalmente nell'imitare Nostro Signore con la
pratica positiva delle virtù cristiane; ora Gesù è la luce del mondo e
chi lo segue non cammina nelle tenebre. Poiché la via illuminativa
consiste nell'imitazione di Nostro Signore, per entrarvi bisogna adempiere
queste tre condizioni, che ci rendono capaci di seguire il divino Maestro
con la pratica della virtù di cui ci ha dato l'esempio: 1) bisogna aver
già acquistato una certa purezza di cuore; 2) bisogna che l'anima abbia
mortificato le sue passioni; 3) infine è necessario avere, con la
meditazione, acquistato convinzioni profonde su tutte le grandi verità,
al fine di poter dare nell'orazione maggior tempo agli affetti e alla
preghiera propriamente detta. I mezzi impiegati sono: a) applicarsi diligentemente
all'orazione affettiva per attingervi la conoscenza, l'amore e
l'imitazione del divino modello; b) praticare pure, in modo speciale ma
non esclusivo, quelle virtù morali che, liberandole dagli ostacoli che si
oppongono all'unione con Dio, cominceranno ad unirle a Colui che è
l'esemplare d'ogni perfezione; c) praticare quindi le virtù teologali,
che avevano già praticate nella via purgativa di conserva con le virtù
morali, in modo che si sviluppino in loro e diventino il principale motore
della loro vita.
VIA
UNITIVA: Purificata l'anima
e ornatala con la pratica positiva delle virtù, si è maturi per l'unione
abituale ed intima con Dio, ossia per la via unitiva. Il fine è quello di
vivere unicamente per Dio, il Dio vivente, la SS. Trinità, che abita
in noi, per lodarlo, servirlo, riverirlo e amarlo; vivere non in modo
mediocre ma intenso, con tutto il fervore che viene dall'amore; e quindi
obliare se stessi per non pensare più che a quel Dio che si degna di
vivere in noi, ad amarlo con tutta l'anima, a concentrare in lui tutti i
pensieri, i desideri, le azioni. I caratteri distintivi della via
unitiva si compendiano in uno solo: il bisogno di semplificar tutto, di
ridurre tutto all'unità, vale a dire all'intima unione con Dio per mezzo
della divina carità. L'anima vive quasi costantemente alla presenza di
Dio, e si diletta di contemplarlo vivente nel suo cuore, diligentemente
distaccandosi dalle creature. Onde cerca la solitudine e il silenzio;
costruisce a poco a poco nel cuore una celletta in cui trova Dio e gli
parla cuore a cuore. Si forma allora tra Dio e lei una dolce intimità.
la via
unitiva semplice o attiva, qualificata dalla coltura dei doni dello
Spirito Santo, specialmente dei doni attivi, e dalla semplificazione
dell'orazione che diventa una specie di contemplazione attiva o
contemplazione impropriamente detta;
la via unitiva
passiva o mistica
in senso proprio, che è qualificata dalla contemplazione infusa o
contemplazione propriamente detta;
inoltre, alla contemplazione
s'aggiungono talora fenomeni straordinari, come le visioni e le
rivelazioni, a cui s'oppongono le contraffazioni diaboliche,
l'infestazione e l'ossessione.
MISTICO,
MISTICA, ESPERIENZA MISTICA
ORIGINE
DEL TERMINE
Il
concetto di mistica appare molto più confuso e lascia molti
problemi aperti. Dal punto di vista filologico la parola mystikós
deriva da mystés: colui che è stato iniziato ai misteri.
L'aggettivo mystikós proviene dal verbo myo = chiudere la
bocca e gli occhi. Da qui deriva mysterion, mistero, che nel mondo
ellenistico riguarda il rito segreto di iniziazione che mette in contatto
l'uomo con la divinità. L'iniziazione è indicata con il termine mysteriasmós
e l'iniziato con mystés. Mystikós è adoperato in senso
generale per parlare dei "misteri" ossia i riti iniziatici delle
religioni perciò chiamate misteriche.
Stando
al significato comune della parola mysterion, il campo mistico
implica sempre l'esistenza di una realtà segreta, nascosta alla
conoscenza ordinaria e che quindi si rivela attraverso un'iniziazione
quasi sempre di tipo religioso. È questo il senso di mysterion
anche nel Nuovo Testamento (Mt 13,11; Rm 16,15; Col 1,26-27; Ef 3,3-9,
ecc.). Quando la realtà nascosta si disvela, l'iniziato è introdotto ad
un nuovo tipo di conoscenza e alla salvezza. La mistica è prevalentemente
religiosa, ma la si ritrova anche in altri contesti di tipo filosofico, ad
esempio nella filosofia neoplatonica di Plotino o nell'induismo.
Confrontando la nozione filosofica con quella religiosa, riscontriamo gli
stessi elementi fondamentali: una realtà nascosta che diventa fine
dell'esperienza e conduce all'unione con l'assoluto.
Il
costitutivo essenziale della mistica - scrive A.Royo Marin -, ciò che la
distingue e la separa da tutto il resto, è dato dall'attuazione dei
doni
dello Spirito Santo al modo divino o sovrumano, che produce ordinariamente
un'esperienza passiva di Dio o della sua azione divina nell'anima. Questa
attuazione dei doni costituisce l'essenza della mistica. Ogni volta che un
dono opera, abbiamo un atto mistico più o meno intenso. E quando
l'attuazione dei doni è tanto frequente da predominare sull'esercizio al
modo umano delle virtù infuse (caratteristica dell'ascetica),
l'anima è entrata in pieno stato mistico, anche se relativo giacché i
doni non operano mai in maniera continuata e ininterrotta. L'esperienza
del divino non è essenziale, dal momento che può mancare in alcuni stati
(notti dell'anima o altre prove di purificazione passiva).
L'esperienza
del divino è una delle manifestazioni più frequenti e ordinarie
nell'attuazione sovrumana dei doni. Però si possono dare stati
mistici in cui questa esperienza non si produce. Durante le
notti dello
spirito l'anima è portata ad attribuire a qualsiasi causa, meno che a
Dio, il suo stato. Non solo non lo sente o non sente la sua azione, ma ha
l'impressione di stare lontanissima da Dio e a volte perfino di essere
riprovata da Lui. L'anima, in mezzo a queste spaventose torture causate
dal sentimento della totale assenza di Dio, continua a praticare le virtù
in grado eroico, la sua fede è viva, la sua speranza superiore ad ogni
speranza e la carità più grande di ogni misura.
Mentre
l'asceta vive la vita cristiana in una forma puramente umana e ne prende
coscienza solo mediante la riflessione, il mistico, invece, sperimenta in
se stesso l'ineffabile verità di questa vita di grazia. Udire e credere
sono le caratteristiche dell'asceta; intendere in una maniera ineffabile,
sperimentare è invece il privilegio del mistico. Il mistico ha coscienza
che l'esperienza di cui gode non è stata prodotta da lui. Si limita a
ricevere un'azione prodotta da un agente che gli è estraneo, senza
poterla conservare un secondo di più di quanto esso non lo permetta.
Come
nota particolare dell'esperienza mistica, dunque, la passività rimane
fondamentale: non una passività assoluta, ma relativa, in quanto l'anima
reagisce in modo vitale sotto la mozione dello Spirito Santo,
"consente la volontà" cooperando alla sua divina azione in una
maniera libera e volontaria.
Nell'ambito
della fede cristiana esiste una realtà segreta e nascosta: Dio stesso,
trascendente ad ogni cosa; nascosti e segreti però rimangono anche i vari
aspetti del mistero della salvezza, che conosciamo nella fede ma solo in
modo imperfetto. Per i padri greci questi misteri designano in particolari
i vari sacramenti: dietro i simboli sensibili è presente una realtà
divina. Come nel battesimo opera la potenza invisibile del Cristo morto e
risorto, così nell'eucaristia i segni del pane e del vino nascondono la
presenza del Cristo glorioso. Questa realtà divina, sempre nascosta,
altro non è che l'oggetto della fede comune a tutti i cristiani. Molto
presto, però, e già in san Paolo, il mistero della salvezza diventa
oggetto di esperienza: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia
madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me [o: in
me] suo Figlio perché lo annunziassi ai pagani ...» (Gal 1,15-16). Ma
era inevitabile che altre persone profondamente religiose facessero
un'esperienza più o meno simile a quella dell'Apostolo; esperienza che le
avrebbe portate a discernere nella Sacra Scrittura un senso nascosto
dietro al racconto storico (si pensi pensi al senso mistico dell'Esodo) e
a vivere un rapporto con Dio tale da suscitare un nuovo tipo di conoscenza
(gnosi).
BREVE
PERCORSO STORICO
Con
Marcello d'Ancira (IV sec.) compare un'espressione che, raccolta da
Dionigi Areopagita, conoscerà una grande fortuna: teologia
mistica. Marcello intendeva parlare di una conoscenza di Dio
«ineffabile e mistica» che si distingueva dalla conoscenza comune.
Dionigi Areopagita nella sua Teologia mistica aggiunge una precisazione
decisiva, e cioè che questa conoscenza misteriosa di Dio costituisce
l'apice dell'esperienza religiosa: «Tu, o caro Timoteo, con un esercizio
attentissimo nei riguardi delle contemplazioni mistiche, abbandona i sensi
e le operazioni intellettuali, tutte le cose sensibili e intelligibili,
tutte le cose che non sono e quelle che sono; e in piena ignoranza
protenditi, per quanto è possibile, verso l'unione con colui che supera
ogni essere e conoscenza. Infatti, mediante questa tensione irrefrenabile,
e assolutamente sciolto da te stesso e da tutte le cose, togliendo di
mezzo tutto e liberato da tutto, portai essere elevato verso il raggio
soprasostanziale della divina tenebra».
Questa
dottrina dell'esperienza di Dio nascosto nella tenebra attraverserà tutto
il medioevo. La troviamo espressa da Dionigi il Certosino: «Questa
teologia più sublime, ossia mistica, tratta di Dio in quanto, per mezzo
della negazione di tutti gli esseri e di un amore di carità sovramentale,
infiammato, sperimentale e ardentissimo, Egli è conosciuto in una tenebra
più che luminosa, grazie all'elevazione della mente al di sopra di tutto
il creato e all'unione estatica, immediata e certissima con Dio
altissimo» (De contemplatione I, 26). È presente anche in san Giovanni
della Croce (Cantico spirituale A, st.39). Invece di insistere
sull'aspetto oggettivo, era inevitabile che nel Cinquecento e nel
Seicento, epoca in cui prevaleva la considerazione psicologica,
l'attenzione si spostasse sulle condizioni soggettive dell'esperienza e,
in particolare, sulle modalità della contemplazione mistica e sui
fenomeni parapsicologici che in essa si possono verificare. Da una parte
la vita spirituale richiede uno sforzo ascetico volontario; dall'altra
assume, in certi casi, un carattere passivo, in quanto la conoscenza
mistica appare come un'iniziativa di Dio che svela il proprio mistero, pur
nell'oscurità della sua trascendenza. Tutti gli spirituali riconoscono un
grande valore a questo tipo di conoscenza. Di qui la tentazione di
privilegiarla a scapito della vita spirituale più comune: è meglio la
passività in cui Dio stesso opera, che non la nostra attività, incapace
di farci conoscere Dio e di unirci a lui in modo costante e profondo. Tale
fu l'atteggiamento di tutti coloro che propendevano per il quietismo, una
tendenza spirituale che nega l'utilità dello sforzo dell'uomo per
disciplinare la propria vita e per pregare metodicamente: possiamo
annoverarvi, già nel XIII sec., i «fratelli del libero spirito», poi
gli «alumbrados» spagnoli del XIV sec. e soprattutto i grandi autori
quietisti del XVII sec. (Miguel de Molinos, P.M.Petrucci)
cui si aggiungerà successivamente la tendenza rappresentata dal vescovo F.Fénelon
e da Madame Guyon (vedi, fra queste pagine, quella relativa al
Quietismo).
È
questo il motivo per cui, a partire dal Seicento, dopo le dispute
teologiche suscitate dal quietismo, è entrato nell'uso di contrapporre le
due espressioni «teologia ascetica» e «teologia
mistica». Si è giunti così a distinguere sempre più la forma
ascetica, volontaria, attiva, ordinaria della vita spirituale e della vita
di orazione, dalla forma mistica, contemplativa, passiva, straordinaria,
facendo sorgere in tal modo il difficilissimo problema dei rapporti fra
queste due vie spirituali.
TRATTI
CARATTERISTICI DELL'ESPERIENZA MISTICA CRISTIANA
Seguendo
quanto indicato da F. Ruiz, nel volume citato in
Bibliografia
(pagg. 327ss.), ma rielaborandolo anche alla luce di quanto scritto da J.M.
Velasco, nei due volumi della sua opera citata in
Bibliografia
generale sul fenomeno mistico, occorre precisare che non si può parlare di esperienza mistica come di
un'esperienza di vita generica e indifferente, quanto di modalità
particolari, spirituali
e psicologiche della realtà percepita con tratti comuni alle mistiche di
altre religioni. Ma, nell'esperienza mistica cristiana, precisa Ruiz,
queste modalità
si vivono «in relazione col mistero cristiano e la fede che lo assimila:
Dio rivelato in Cristo, nei misteri della fede, nella s. Scrittura, nelle
mediazioni della chiesa». Tale opportuna precisazione permette di far
rientrare nei ranghi ogni eventuale sviamento (anche se la storia dei
mistici non sempre è andata in questo modo; ma a tal proposito, si veda
la Nota personale più
avanti).
I
tratti caratteristici dell'esperienza mistica sono i seguenti:
Presenza di Dio, intimo e trascendente: vivo e vero, che si
comunica e si fa sentire nella sua persona e nei suoi misteri, con maggior
immediatezza e nuova luce. Questo è il fondamento di tutto ciò che ne
deriva.
Sentimento
di oggettività e di certezza: come afferma Teresa d'Avila,
non si può dubitare che lì c'è Dio vivo e vero (cfr. Relazione,
n. 41). Dio è il principale agente anche in un altro senso, in quanto
lo Spirito Santo, con grazia speciale, rende capace l'uomo di
accogliere questa manifestazione divina e corrispondere con atti
personali adeguati. Nonostante la loro affinità con quelli affettivi,
gli stati mistici hanno, per chi li vive, una dimensione noetica,
una qualità di conoscenza.
Gratuità:
la comunicazione del Dio infinito, le operazioni e le risonanze che
appaiono al soggetto umano si percepiscono con carattere di assoluta
gratuità: immeritate, impreparate, inimmaginabili. Ossia, come anche
accennato in altre pagine, non è preparandosi, studiando i mistici,
avendo una vita di preghiera anche intensa che si possa pretendere di
arrivare ad uno stato mistico. Si tratta di un'esperienza soggettiva
al di là di ogni sforzo attivo della persona, che Dio concede al pari
di altri stati, ugualmente validi ed importanti al fine della
salvezza.
Transitorietà:
uno stato (più che un'esperienza) mistico non può permanere a lungo
e una volta scomparso non può riprodursi se non in modo molto
imperfetto. Si tratta, nell'esperienza mistica, di esperienze puntuali,
isolate e di carattere straordinario.
Passività
attiva o recettiva: la passività che accompagna tutta la sua
attività intorno al mistero fa percepire la comunione come dono e le
proprie prestazioni come frutto del medesimo. Per quanto ci possa
essere per un mistico un'inclinazione verso questa esperienza, quando
vi giunge sente come se la propria volontà venisse sottomessa, e,
spesso, come se una potenza superiore l'attraesse e dominasse.
Ineffabilità:
è l'incapacità di esprimere adeguatamente tanto l'oggetto quanto le
componenti dell'esperienza stessa. Si deve alla trascendenza del
mistero divino e al fatto che le operazioni interiori del soggetto
sono intessute con lui, risultando impossibile descriverli
concettualmente. Tale caratteristica rivela la somiglianza e la
prossimità di tali esperienze agli stati affettivi più che con gli
stati mentali.
Linguaggio
simbolico e paradossale: ispirato dalla grazia stessa
incomunicabile, per dire e trasmettere qualcosa del mistero,
confessando al tempo stesso la sua ineffabilità.
Nota
personale a margine del concetto di mistica
Nel
Catechismo della Chiesa Cattolica, il rapporto fra misteri pagani e
mistero cristiano viene esplicitato nel seguente modo, associando misteri
a sacramenti. Si legge al n. 2014:
«Il
progresso spirituale tende all'unione sempre più intima con Cristo.
Questa unione si chiama "mistica", perché partecipa al
mistero di Cristo mediante i sacramenti - "i santi misteri" -
e, in lui, al mistero della Santissima Trinità. Dio ci chiama tutti a
questa intima unione con lui, anche se soltanto ad alcuni sono concesse
grazie speciali o segni straordinari di questa vita mistica, allo scopo
di rendere manifesto il dono gratuito fatto a tutti».
Come
si nota, i misteri pagani vengono trasformati in misteri santi, detti sacramenti,
i quali, soltanto, riescono a realizzare questa intima unione con Dio
attraverso Cristo. Tutto ciò appare riduttivo della potenza e libertà
dello Spirito Santo, che da sempre «soffia dove vuole» e, pur sentendone
la presenza, non si sa «di dove viene e dove va» (cfr. Gv 3,8).
Ridurre la mistica alla partecipazione ai sacramenti della Chiesa sarebbe
come imprigionare lo Spirito di Dio in categorie umane precise.
Sappiamo
infatti che la mistica è sempre poco "controllabile" essendo
una manifestazione dello Spirito libera e vivace. Per quanto rasenti,
eccezionalmente, l'eresia, costituisce uno stimolo essenziale e
fondamentale per tutta la Chiesa e per tutti gli uomini, a qualunque
religione appartengano, assetati di Dio e della sua Verità. Non si può
"regolare" la mistica attraverso il solo esercizio di
determinate liturgie o apparati ritualistici. Accettare il rischio di un
"al di là" della modalità consueta di rapportarsi a Dio è
aprirsi ad un mondo di bellezza infinita e di verità sublime,
nell'umiltà di chi accetta quello che Dio ha preparato per sé e per la
vita di ognuno.
Aprirsi
al mistero vero di Dio significa cercare di non limitare la sua
azione a piccoli atti umani codificati, ma accettare il rischio di essere
condotti in spazi inesplorati, sostenuti da Dio stesso che è Bene
assoluto, Amore infinito, Verità che non delude.
Questo
che dico appare contrario a quanto asserito da alcuni: il domenicano Giovanni
Cavalcoli, criticando l'approccio, a suo dire, idealista di Marco
Vannini, curatore e traduttore di quasi tutte le opere di Eckhart e di
altri autori mistici, afferma:
«La
pretesa di "andare oltre Dio", di superare il Dio della
rivelazione biblica, per raggiungere una migliore conoscenza, al di là
di quella che ci è assicurata dalla stessa Parola di Dio e dalla
dottrina cristiana, è chiaramente gnostica e assurda, in quanto è la
pretesa di poter avere dell'Assoluto una conoscenza più alta di quella
che ci è assicurata da Cristo e dalla sua Chiesa. [...] Per il
cristiano non c'è nessuna "mistica" al di sopra del dogma e
della Sacra Scrittura, perché la mistica non è altro che una
interpretazione e una esplicitazione personale del dato rivelato» (Il
silenzio della parola. Le mistiche a confronto, in Sacra Doctrina,
n.3-4 (2002) 271-272).
Appare
strano che il concetto, tanto esaltato nell'ambito cattolico anche da
parte di alcuni movimenti riconosciuti dalla Chiesa, di un Dio
personale (il quale si fa carne e lascia traccia nella storia degli
uomini, uomo fra gli altri) si riduca, quando si parla di mistica, ad un
rapporto pericoloso. Da un lato si preme affinché il cristiano attui un
rapporto personale con Dio e dall'altro lo si media attraverso una
struttura precisa (la comunità cristiana piccola e quella più allargata
della Chiesa cattolica, con i sacramenti, con le sue leggi e la sua
dottrina che integra e modifica perfino le Sacre Scritture).
Sappiamo
infatti che l'accusa più grave nei confronti della Chiesa cattolica da
parte degli evangelici è proprio quella di tenere in conto qualcos'altro
rispetto alla Parola di Dio ultima e definitiva rivelata nelle Sacre
Scritture. Ad essa, infatti, nel corso della storia, si sono affiancati
testi, pensieri e concetti che sono il risultato di un cammino personale o
comunitario: non si tratta certo di nuove rivelazioni, ma di nuovi
atteggiamenti e costumi che, da parte evangelica, sono assolutamente
criticabili nei confronti dell'ambito cattolico. Non solo, ma si tengono
in particolare conto tutte le rivelazioni particolari (private anche se
con intenti pubblici contenenti messaggi aggiuntivi e magari anche
segreti) di alcuni veggenti che, nel corso anche della recente storia,
hanno recepito attenzioni e benevolenze (oltre che credito) da parte della
Chiesa cattolica.
Occorre
pertanto guardare con onestà alla mistica ed avere cautela nel
giudicare tutti i fenomeni e non solo alcuni. Per quanto io stesso
creda che la mistica sia sempre più rara come modalità di rapporto con
Dio, perché estremamente esigente, nello stesso tempo non si può non
avere che grande rispetto per tutti coloro che, nel loro intimo e nel
profondo della propria coscienza, ritengono di poter vivere in modo
particolare la loro esperienza con la divinità. Noi tutti siamo alla
ricerca della Verità e non della sicurezza di quello che abbiamo e che è
consolidato da tempo: aprirsi alla Verità significa perdere quelle
sicurezze per accogliere (non mi sembra questo un atteggiamento gnostico)
ciò che la Verità vorrà rivelarci. E la preghiera che sempre dovremmo
fare è quella del Salmo (42, 3):
«Manda
la tua verità e la tua luce; siano esse a guidarmi, mi portino al tuo
monte santo e alle tue dimore».
Ma
questa, lo ripeto, è una nota a margine del discorso, estremamente
soggettiva, e in questo senso va tenuta nell'opportuna considerazione da
parte del lettore.
Scrive
A.Tanquerey che per unirsi a Dio in modo intimo e durevole (ciò che
avviene nell'unione trasformativa o matrimonio spirituale), è necessario
mondarsi dalle ultime imperfezioni che restano nell'anima. Imperfezioni
che, come dice S. Giovanni della Croce, sono di due specie: abituali
le une, attuali le altre.
1.
Le prime consistono in due cose: a) in
affetti e in abiti imperfetti, che sono come radici rimaste nello spirito
là dove la purificazione del senso non poté penetrare, per esempio certe
amicizie un po' troppo vive, che bisogna quindi sradicare; b) una
certa debolezza spirituale, hebetudo mentis, onde l'anima facilmente si
distrae e si versa al di fuori: difetti incompatibili con l'unione
perfetta;
2.
Le imperfezioni attuali sono
anch'esse di due specie: a) un certo orgoglio e una vana
compiacenza di sé, provenienti dalla copia delle consolazioni spirituali
che si ricevono; sentimenti che portano spesso all'illusione e fanno
scambiar per vere false visioni e false profezie; b) un'eccessiva
arditezza con Dio, onde si perde quel rispettoso timore che è tutela di
tutte le virtù. Onde è necessario purificare e riformare nello stesso
tempo queste tendenze; al quale intento Dio manda le prove della seconda
notte.
PROVE
DELLA NOTTE DELLO SPIRITO
A
purificare e riformare l'anima, Dio lascia l'intelletto nelle tenebre, la
volontà nell'aridità, la memoria senza ricordi e gli affetti immersi nel
dolore e nell'angoscia. Dio, dice S. Giovanni della Croce, opera
questa purificazione col lume della contemplazione infusa, lume vivo in
sé ma oscuro e doloroso per l'anima, a cagione delle sue ignoranze e
della sua impurità.
1.
Patimenti dell'intelletto:
a) Il
lume della contemplazione, vivo e puro com'è, offende l'occhio del nostro
intelletto che è così debole ed impuro da non poterlo sopportare; a
quella guisa che l'occhio infermo è offeso dalla viva e chiara luce,
così l'anima ancora inferma è torturata e come intorpidita dalla luce
divina, tanto che la morte le parrebbe liberazione.
b)
Dolore fatto più intenso
dall'incontro del divino e dell'umano nella stessa anima: il divino, vale
a dire la contemplazione purificatrice, la invade per rinnovarla,
perfezionarla, divinizzarla; l'umano, vale a dire l'anima coi suoi
difetti, ha l'impressione come di un annientamento e di una morte
spirituale per cui deve passare onde giungere alla risurrezione.
c)
A cosiffatto dolore s'aggiunge la
vista profonda della propria povertà e miseria; immersa la parte
sensitiva nell'aridità e la parte intellettiva nella tenebra, l'anima è
nello stato angoscioso di chi si trovasse sospeso in aria senza appoggio;
vede anzi talora l'inferno spalancato a inghiottirla per sempre. È certo
un parlar figurato ma che dipinge bene l'effetto di quella luce che mostra
da un lato la grandezza e la santità di Dio, e dall'altro il nulla e le
miserie dell'uomo.
2.
I patimenti della volontà sono
anch'essi ineffabili:
a) L'anima
si vede priva di ogni gaudio, persuasa che sarà sempre così; neppure il
confessore riesce a consolarla.
b)
A sorreggerla nella prova, Dio le manda intervalli di sollievo in cui
gode di pace soave nell'amore e nella familiarità di Dio. Ma dopo tali
momenti la dolorosa vicenda riprende e l'anima s'immagina di non essere
più amata da Dio, di essere da lui giustamente abbandonata: è il
supplizio dell'abbandono spirituale.
c)
In questo stato è impossibile pregare; pregando, prova tanta aridità che
le pare di non essere più ascoltata da Dio. Vi sono casi in cui non può
nemmeno più occuparsi dei suoi affari temporali, perché la memoria più
non le serve: è il legamento delle potenze che si estende alle azioni
naturali.
Insomma
è una specie d'inferno per il dolore che si prova e di purgatorio per la
purificazione che ne è il frutto.
Si
possono definire come il movimento dell'appetito sensitivo sorto
dall'apprensione del bene o del male sensibile con una ripercussione
più o meno intensa sull'organismo. Si tratta di energie che possiamo
usare per il bene o per il male; considerate in se stesse non sono né
buone né cattive, poiché tutto dipende dall'orientamento che viene
loro dato. Le passioni si distinguono secondo due potenze specifiche:
concupiscibile:
hanno per oggetto il bene e il male sensibili, come tali;
irascibile:
hanno per oggetto sempre il bene e il male sensibili, vissuti come
ardui.
Nell'ambito
del concupiscibile, troviamo:
Amore:
tendenza al bene appreso in modo assoluto;
Odio:
è la reazione di rifiuto che il male, percepito come tale, provoca
nel soggetto;
Desiderio:
tendenza al bene considerato come assente o futuro;
Fuga:
avversione al male considerato come assente o futuro;
Piacere:
quiete nel bene appreso come realmente posseduto e amato;
Tristezza:
inquietudine che si realizza nella reazione causata dalla presenza
del male, cioè dalla privazione del bene conveniente.
Nell'ambito
dell'irascibile abbiamo:
Speranza:
moto verso il bene assente considerato come arduo, ma conseguibile;
Disperazione:
moto verso il bene assente considerato come arduo da raggiungere e
non conseguibile;
Audacia:
è la passione che porta ad affrontare e a superare gli ostacoli che
si oppongono al conseguimento del bene;
Timore:
moto che induce a fuggire da un male minacciato che appare
difficilmente evitabile;
Ira:
è il moto di repulsione dell'appetito davanti agli ostacoli che
impediscono, qui e ora, di raggiungere il bene.
PASSIVITÀ
(raccoglimento passivo)
Scrive
A.Tanquerey che questo raccoglimento è detto passivo per distinguerlo dal
raccoglimento attivo che si acquista coi nostri sforzi aiutati dalla
grazia; il raccoglimento passivo infatti non si ottiene per opera
dell'intelletto, procurando di considerare Dio dentro di noi, né per
mezzo dell'immaginazione, rappresentandocelo in noi, ma con l'azione
diretta della grazia divina sulle nostre facoltà. Per questo S. Teresa lo
dice la prima orazione soprannaturale che abbia sperimentata:
"L'orazione di cui parlo è un raccoglimento interiore che si sente
nell'anima, onde pare che abbia dentro di sé dei sensi interni come ha
fuori gli esterni. Pare che voglia, ritirandosi in se stessa, appartarsi
dai tumulti esteriori; e sentendoseli alcuna volta venir dentro, le viene
voglia di chiudere gli occhi e non vedere, né udire, né intendere se non
quello in che allora si occupa, che è di poter trattar con Dio da sola a
solo. Qui non si perde alcun senso o potenza, poiché tutto rimane intiero
ma per occuparsi di Dio".
Altrove
lo spiega con un paragone: le nostre facoltà, uscite dal castello per
andarsene con estranei, riconoscendosi poi in colpa, si ravvicinarono al
castello senza però rientrarvi. Il gran Re, che abita nel centro del
Castello, si degna nella sua grande misericordia di richiamarle a sé:
"A guisa di buon pastore, con un fischio tanto soave che quasi esse
stesse non l'intendono, fa che conoscano la sua voce e che non vadano
tanto perdute ma tornino alla loro mansione. Questo fischio del pastore ha
su loro tanta forza che, abbandonando le cose esteriori in cui stavano
distratte, rientrano nel castello. Mi sembra di non aver mai spiegato
questo pensiero così bene come ora".
S. Francesco
di Sales porta un altro paragone non meno espressivo: "Come chi
ponesse un pezzo di calamita in mezzo a molti aghi, vedrebbe subito tutte
queste punte volgersi verso la diletta calamita e venire ad attaccarsele,
così quando Nostro Signore ci fa sentire in mezzo all'anima la
deliziosissima sua presenza, tutte le nostre facoltà là volgono la punta
per unirsi a quell'incomparabile dolcezza".
Si
può quindi definire questo raccoglimento passivo: una dolce e affettuosa
immersione dell'intelletto e della volontà in Dio, prodotta da una grazia
speciale dello Spirito Santo.
Si
tratta di una facoltà, ossia il principio prossimo per il quale l'anima
opera o si esprime. Le potenze (o facoltà) si distinguono dall'essenza
dell'anima, in quanto sono accidenti con i loro rispettivi atti o
operazioni. Vengono distinti sei generi di potenze:
Vegetativa:
è il principio per cui il corpo vivente si nutre, cresce e genera;
Apprensiva
sensitiva: è il principio per cui l'anima, unita al corpo,
percepisce le cose materiali per loro stesse;
Intellettiva:
è la capacità di conoscere le cose in quanto universali e
immateriali;
Appetitiva
sensitiva: è la tendenza verso un bene conosciuto attraverso i
sensi;
Appetitiva
intellettiva: detta anche volontà, è la potenza
spirituale che ha per oggetto il bene conosciuto dall'intelletto
come conveniente o non conveniente all'uomo.
Detta
anche teologia apofatica (dal greco apó-fasis = negazione), è
quella dottrina che ritiene che a Dio non possano convenire concetti o
termini del linguaggio umano e che Dio possa essere meglio conosciuto
negando di lui le categorie proprie dell'ente finito. Poiché Dio è
assolutamente trascendente, nessuna creatura può conoscerlo, né può
parlare di lui in modo adeguato, perciò di Dio si può dire ciò che non
è piuttosto di ciò che è.
Questo
concetto è presente già nella filosofia greca con Filone ebreo, il quale
afferma che Dio trascende infinitamente sia il mondo sensibile che il
mondo intelligibile, in quanto creatore dell'uno e dell'altro. Rimane
dunque incomprensibile all'uomo che non lo può conoscere nella sua
essenza ed è ineffabile in quanto non si può esprimere e definire con
nomi.
Tale
concetto si ritrova anche in Albino il quale afferma che è ineffabile e
coglibile solo con l'intelletto, poiché non è né genere, né specie,
né differenza specifica e nemmeno gli si addice alcuna determinazione né
cattiva (in quanto non è lecito dire questo), né buona (poiché egli
sarebbe tale per partecipazione di qualche cosa e specialmente della
bontà); né è indifferente poiché ciò non corrisponde alla nozione di
esso.
Per
Plotino, l'uno, il principio supremo, non solo trascende il mondo fisico,
ma trascende ogni forma di finitudine, compresa quella in cui Platone e
Aristotele avevano imprigionato lo stesso intelligibile e la stessa
Intelligenza. L'Uno pertanto rimane ineffabile in quanto qualsiasi cosa tu
pronunci avrai pronunciato "una qualche cosa".
Fra
i Padri possiamo ricordare Giustino, Teofilo vescovo di Antiochia di
Siria, Clemente Alessandrino, Origene, Basilio, Gregorio di Nissa, Arnobio,
Agostino.
Dionigi
Areopagita utilizza sia il metodo negativo (apofatico) che il metodo
positivo (catafatico); con il primo si nega la possibilità di pensare
Dio, di includerlo in un concetto che lo rappresenti o lo significhi alla
stessa stregua degli enti finiti; con il metodo positivo si dice che egli
è causa di tutti gli esseri, dal quale tutti emanano. Tra i nomi divini
che Dionigi elenca troviamo al primo posto il Bene con i nomi ad esso
collegati: Luce, Bellezza, Amore. Poi, Essere, Vita, Sapienza (o
Intelligenza, o Ragione). Poi i nomi desunti dalla Bibbia: Potenza,
Giustizia, Salvezza, Redenzione, Pace, etc. Tuttavia, questi nomi che
celebrano in modo positivo Dio, sono lontani dal significarlo per quello
che realmente è. Per questo nella Sacra Scrittura troviamo nomi che non
hanno alcuna somiglianza con lui (Invisibile, Infinito, Incomprensibile) e
con altre espressioni con le quali non si indica ciò che egli è, ma ciò
che non è.
Tutta
la mistica renana (tra cui spicca
Eckhart) ovviamente procede per
negazioni. Nel sermone "Unus Deus et Pater omnium" afferma:
«San Paolo dice "Un Dio". Uno è qualcosa di più puro della
bontà e della verità. Bontà e verità non aggiungono niente, esse
aggiungono nel pensiero. L'Uno, invece, non aggiunge nulla, là dove è in
se stesso. Se dico che Dio è buono, qualcosa gli si aggiunge. L'Uno,
invece, è una negazione della negazione ed una privazione della
privazione. L'anima coglie la divinità, come essa è pura in sé, dove
niente le è aggiunto, niente pensato. Nel fatto di negare qualcosa a Dio,
io concepisco qualcosa che gli non è; e proprio questo deve
sparire. Dio è Uno, è una negazione della negazione.
In
conclusione si può affermare che la teologia apofatica è una costante
del pensiero cristiano.
Chiamata
anche ascetica, mistica, teologia della perfezione, è definita come
quella parte della Teologia che, basandosi sui principi della
rivelazione divina e sull'esperienza di santi, studia l'organismo della
vita soprannaturale, spiega le leggi del suo progresso e del suo
sviluppo, e descrive il processo che seguono le anime dagli inizi della
vita cristiana fino al vertice della perfezione.
Scrive
A.Tanquerey che dopo tante purificazioni, l'anima giunge finalmente a
quell'unione calma e durevole che è detta unione trasformativa e che pare
l'ultimo termine dell'unione mistica e preparazione immediata alla visione
beatifica.
1.
L'intimità. Perché più intima
delle altre, quest'unione si chiama anche matrimonio spirituale; tra sposi
non v'è segreto: è fusione di due vite in una sola. E tale è l'unione
che corre tra l'anima e Dio; S.Teresa la spiega con un paragone: "È
come l'acqua del cielo che cade nell'acqua d'un fiume... e che con lei
talmente si confonde da non poterle più dividere né distinguere quale
sia l'acqua piovana e quella del fiume".
2.
La serenità. In questo stato non
più estasi né rapimenti o almeno diventano molto rari; quelli erano
svenimenti e deliqui, che sono ormai quasi interamente scomparsi, per far
posto a quello stato dell'anima dolce e calmo in cui vivono gli sposi
sicuri ormai del loro mutuo amore.
3.
L'indissolubilità. Le altre unioni
erano passeggere, questa invece diventa di natura sua permanente come è
del matrimonio cristiano.
Unione
così intima e così profonda non può che produrre mirabili effetti di
santificazione; effetti che si compendiano in una sola parola: l'anima è
talmente trasformata in Dio che, dimentica di sé, non si dà più
pensiero che di Dio e della sua gloria. Quindi:
A.
Un santo abbandono nelle
mani di Dio, tanto che l'anima è sommamente indifferente a tutto ciò che
non è Dio; nell'unione estatica desiderava la morte per unirsi al suo
Diletto, ora è indifferente alla vita o alla morte, purché Dio sia
glorificato. Ogni suo pensiero è di piacergli sempre più, di trovare
occasioni e mezzi per dimostrargli l'amore che gli porta. Qui tende tutta
la sua orazione; a ciò serve questo matrimonio spirituale: che nascano
sempre opere, opere.
B.
Un grande desiderio di patire,
ma senza inquietudine, in perfetta conformità con la volontà di Dio. Se
egli vuole che patiscano, bene; se no, non se ne affliggono. Hanno
parimenti queste anime un grande godimento interno quando sono
perseguitate, con assai maggior pace di quello che s'è detto, e senza
risentimenti alcuni contro coloro che fanno loro del male e gliene
vorrebbero fare. Anzi li amano di particolare affetto.
C.
Assenza di desideri e di pene interiori:
i desideri di queste anime non sono più di carezze o di consolazioni.
Hanno un costante desiderio di starsene solitarie od occuparsi di cose che
siano di giovamento al prossimo. Non patiscono aridità né pene
interiori, ma stanno sempre teneramente occupate di Nostro Signore e non
vorrebbero mai far altro che lodarlo.
D.
Assenza di rapimenti: arrivando qui
l'anima, vengono meno tutti i rapimenti (s'intende quanto al perdere i
sensi), ad eccezione di rare volte, né soggiace più a quelle estasi e a
quei voli dello spirito, se non molto di rado né quasi mai in pubblico,
cosa prima molto ordinaria. Pace dunque e serenità perfetta. In questo
tempo di Dio, in questa mansione sua, solo Lui e l'anima dolcemente si
godono l'un l'altro in altissimo silenzio.
E.
Uno zelo ardente, ma
circospetto, per la santificazione delle anime: non basta
restare in questo dolce riposo, bisogna operare, darsi all'azione,
soffrire, farsi lo schiavo di Dio e del prossimo, lavorare a progredire
nelle virtù, massime nell'umiltà, perché il non andare avanti è un
tornare indietro. Fare nello stesso tempo l'ufficio di Maria e di Marta:
qui sta la perfezione. Si può far del bene alle anime senza uscire dal
chiostro; e senza pensare a giovare a tutto il mondo, si può far del bene
a quelli con cui si vive. E l'opera sarà tanto maggiore perché siete
loro più obbligate. Pensate che sia poco guadagno se con profonda
umiltà, con spirito di mortificazione e di sacrificio, con tenera carità
per le sorelle, con l'amore grande a Nostro Signore, le infiammerete tutte
di questo fuoco celeste e con le altre virtù le verrete sempre più
stimolando? Farete molto e renderete assai grato servizio a Nostro
Signore. Ma soprattutto bisogna fare queste cose per amore. Il
Signore non guarda tanto alla grandezza delle opere quanto all'amore con
cui si fanno.
Sono
abiti operativi infusi da Dio nelle potenze dell'anima per disporle ad
operare secondo il dettame della ragione illuminata dalla fede. Per
abito operativo, si intende una qualità stabile del soggetto che lo
dispone ad operare in modo facile e pronto.
La
carità è una virtù teologale infusa da Dio nella volontà per cui
amiamo Dio per se stesso sopra tutte le cose e noi e il prossimo per
amore di Dio. L'oggetto materiale della carità è anzitutto Dio e poi
noi stessi e tutte le creature razionali che possono giungere all'eterna
beatitudine. L'amore è l'atto principale della carità. Secondo
S.Tommaso:
è
proprio della carità amare più che l'essere amato;
l'amore
suppone la benevolenza verso l'amico, ma include anche l'unione
affettiva; la benevolenza è il principio dell'amicizia;
Dio
è infinitamente amabile per se stesso e la carità lo ama in quanto
tale, senza nessuna subordinazione ad altro fine;
possiamo
amare Dio in una maniera immediata anche in questa vita;
Dio
non può essere amato dalle creature tanto quanto merita, cioè
infinitamente, ma possiamo e dobbiamo amarlo totalmente e con tutto
il nostro essere, ordinando noi stessi e tutte le cose a lui;
nell'amore
di Dio non ci può essere misura in senso oggettivo, poiché egli è
amabile per se stesso. Però tale misura deve esistere
necessariamente da parte nostra in relazione alle manifestazioni
esterne che non possono essere continue, perché nella nostra vita
dobbiamo compiere certe azioni che sospendono l'esercizio attuale
della carità.
La
fede è una virtù teologale infusa da Dio nell'intelletto mediante la
quale diamo il fermo assenso alle verità divinamente rivelate per
l'autorità o la testimonianza di Dio stesso che le rivela. L'assenso
alle verità della fede è di per sé fermissimo e certissimo perché
fondato sull'autorità stessa di Dio che rivela. Ma poiché le verità
rivelate rimangono per noi oscure, non evidenti, deve intervenire la
volontà, mossa dalla grazia, per imporre all'intelletto quell'assenso
fermo basato sull'infallibile autorità di Dio. In questo senso, l'atto
di fede è libero, soprannaturale e meritorio. La fede rimane
incompatibile con la visione intellettuale o sensibile. Per sé si
riferisce a cose che non si vedono. Perciò in cielo la fede sarà
sostituita dalla visione di Dio faccia a faccia.
La
fede è l'inizio, il fondamento e la radice della giustificazione. È
l'inizio perché stabilisce il primo contatto fra noi e Dio in quanto
autore dell'ordine soprannaturale. È il fondamento perché tutte le
altre virtù (compresa la carità) presuppongono la fede: senza la fede
è impossibile sperare o amare. È la radice perché da essa, informata
dalla carità, derivano tutte le altre.
Fra
i peccati contro la fede si annoverano: 1) l'infedeltà; 2) l'eresia,
che nega qualche dogma rivelato o dubita volontariamente di esso; 3)
l'apostasia, che è l'abbandono totale della fede cristiana ricevuta nel
battesimo; 4) la bestemmia; 5) l'accecamento del cuore che si oppone al
dono dell'intelletto.
Si
tratta di una virtù cardinale infusa con la grazia santificante che
spinge l'appetito irascibile e la volontà a non desistere dal
conseguire il bene arduo o difficile neppure quando è in pericolo la
vita corporale. Fra le parti integranti e potenziali distinguiamo:
1) la magnanimità: è la virtù che inclina ad intraprendere
opere grandi, splendide e degne di onore in ogni genere di virtù. Ad
essa si oppongono quattro vizi, per eccesso o per difetto:
a) la presunzione, che inclina ad intraprende cose superiori alle
nostre forze;
b) l'ambizione, che ci spinge a procurarci onori non dovuti al
nostro stato e ai nostri meriti;
c) la vanagloria, che cerca fama senza i meriti su cui fondarla o
senza ordinarla al suo vero fine che rimane la gloria di Dio;
d) la pusillanimità, che è il peccato di coloro che per
eccessiva sfiducia in se stessi o per un'umiltà malintesa non fanno
fruttificare tutti i talenti che hanno ricevuto da Dio;
2) la magnificenza: è la virtù che inclina ad intraprende opere
splendide e difficili da eseguire senza indietreggiare dinanzi alla
grandezza del lavoro o delle spese che sarà necessario sostenere. Si
distingue dalla magnanimità perché essa si riferisce alle grandi opere
fattibili come la costruzione di ospedali, templi, etc. Ad essa si
oppongono due vizi, per difetto e per eccesso:
a) la taccagneria o meschinità;
b) lo sperpero.
3) la pazienza: è la virtù che inclina a sopportare senza
tristezza ed abbattimento le sofferenze fisiche e morali. Si tratta di
una virtù tra le più necessarie alla vita cristiana perché, essendo
innumerevoli le sofferenze che tutti dobbiamo sopportare in questa vita,
abbiamo bisogno di questa virtù per non lasciarci abbattere dallo
scoraggiamento. Due vizi si oppongono:
a) l'impazienza, che si manifesta all'esterno con ira, lamentele,
mormorazioni e recriminazioni;
b) l'insensibilità o durezza di cuore, che per mancanza
di sentimento umano o sociale, non si commuove né si impressiona
dinanzi alle calamità proprie ed altrui.
4) la longanimità: è una virtù che ci anima a tendere verso
qualche bene molto distante da noi, il conseguimento del quale ci farà
attendere molto tempo.
5) la perseveranza: è una virtù che inclina a persistere
nell'esercizio del bene nonostante la molestia che la sua lunghezza ci
causa;
6) la costanza: è una virtù intimamente legata alla
perseveranza, dalla quale si distingue; infatti, mentre è proprio della
perseveranza irrobustire l'anima contro la difficoltà di mantenersi a
lungo nella via del bene, è proprio della costanza fortificare l'anima
contro le difficoltà che provengono da qualsiasi altro impedimento
esteriore. A tale virtù si oppongono i seguenti vizi:
a) l'incostanza (o mollezza), la quale inclina a desistere
facilmente dalla pratica del bene al sorgere delle prime difficoltà;
b) la pertinacia (o testardaggine), per cui ci si ostina a non
cedere quando sarebbe ragionevole farlo.
La
virtù della giustizia è un abito soprannaturale che inclina in modo
costante e perpetuo la volontà a dare a ciascuno ciò che strettamente
gli appartiene. La giustizia ha un'importanza fondamentale sia
nell'ordine individuale che in quello sociale. Essa pone ordine e
perfezione nelle nostre relazioni con Dio e con il prossimo; fa' sì che
rispettiamo a vicenda i nostri diritti; proibisce la frode e l'inganno.
Fra
le parti integranti ne troviamo due:
1) Evitare il male nocivo al prossimo e alla società (declinare
a malo);
2) Fare il bene dovuto ad altri (facere bonum).
La
virtù della pietà, derivata dalla giustizia, è un abito
soprannaturale che ci inclina a tributare ai genitori, alla patria e a
tutti coloro che stanno in relazione con essi l'onore e il servizio
dovuto. Mentre la virtù della pietà si fonda nell'unione che risulta
dalla stirpe familiare comune, la carità verso il prossimo si fonda nei
legami che uniscono a Dio tutto il genere umano. Alla pietà familiare
si oppone, per eccesso, l'amore esagerato ai parenti che induce a
trascurare obblighi più gravi di quelli loro dovuti e, per difetto,
l'empietà familiare che trascura i doveri di onore, riverenza, aiuto
economico o spirituale, etc., pur potendoli adempire.
La
prudenza è una virtù cardinale, infusa da Dio nell'intelletto pratico,
per il retto governo delle nostre azioni particolari in ordine al fine
soprannaturale. L'atto proprio della virtù della prudenza è quello di
dettare, cioè intimare o comandare come si deve agire in concreto, hic
et nunc tenendo conto di tutte le circostanze, dopo matura
riflessione e consiglio. Ogni virtù cardinale è costituita da parti
integranti, da parti soggettive (se è per governare se stessi o gli
altri) e potenziali (che riguardano gli atti preparatori, come il buon
consiglio, senso pratico).
Ci
limitiamo a dare un cenno delle parti integranti, che
contribuiscono al perfetto esercizio della prudenza:
Memoria del passato: il ricordo dei passati successi o
insuccessi orienta saggiamente sul da farsi;
Intelligenza del presente: per saper discernere se quello che
ci proponiamo di fare sia buono o cattivo, lecito o illecito,
conveniente o meno;
Docilità: per chiedere ed accettare il consiglio di altri,
più sapienti di noi;
Sagacità: definita talora come solerzia ed eustochia,
è la prontezza di spirito per risolvere da sé i casi più urgenti, per
i quali non sia possibile chiedere immediatamente consiglio agli altri;
Ragione: conduce l'uomo a prendere da sé la risoluzione nei
casi ordinari in cui ci sia tempo per una matura riflessione ed esame;
Provvidenza: derivata da procul videre (= vedere
lontano), consiste nel riflettere bene al fine cui si tende, ordinare ad
esso i mezzi opportuni, prevedere le conseguenze che possono derivare
dall'agire in un modo o nell'altro;
Circospezione: è l'attenta considerazione delle circostanze,
per giudicare se sia conveniente o meno compiere un determinato atto.
Molti atti sono buoni e conveniente in se stessi per il fine cui mirano,
ma in certe circostanze sarebbero dannosi o controproducenti;
Cautela o precauzione: contro gli impedimenti estrinseci che
potrebbero costituire un ostacolo o compromettere l'esito di ciò che
intendiamo compiere.
La
virtù della religione è una virtù morale che inclina l'uomo a dare a
Dio il culto che gli è dovuto come primo principio di tutte le cose. Si
tratta della più importante virtù che derivano dalla giustizia. La
virtù della religione si manifesta in alcuni atti interni ed esterni.
Gli atti interni sono due: la devozione e la preghiera. Gli atti esterni
sono sette: l'adorazione, il sacrificio, le offerte (oblazioni), il
voto, il giuramento, lo scongiuro, l'invocazione del nome di Dio.
Esaminiamole:
Devozione:
consiste in una prontezza d'animo del darsi alle cose che
appartengono al servizio di Dio; essa si fonda sulla volontà;
Preghiera:
appartiene all'intelletto;
Adorazione:
è un atto esterno della virtù della religione con cui testimoniamo
l'onore e la riverenza che merita l'eccellenza divina;
Sacrificio:
consiste nell'oblazione esterna di una cosa sensibile, con la sua
reale mutazione o distruzione, realizzata dal sacerdote in onore a
Dio, per testimoniare il suo supremo dominio e la nostra umile
sottomissione davanti a lui;
Offerte
(oblazioni): in genere è la donazione spontanea di una cosa. In
senso religioso è la spontanea donazione di una cosa per il culto
divino.
Voto:
è la promessa deliberata e libera fatta a Dio di un bene possibile
e migliore;
Giuramento:
è l'invocazione del nome di Dio a testimonianza della verità e non
può essere prestato se non secondo verità, prudenza e giustizia;
Scongiuro:
è un atto di religione che consiste nell'invocazione del nome di
Dio o di qualunque cosa sacra per indurre altri a compiere qualcosa
o a desistere da qualche proposito;
Invocazione
del nome di Dio: consiste principalmente nella lode esterna
(come manifestazione del fervore interno) del santo nome di Dio nel
culto pubblico o privato. Contrario a questo atto è l'invocazione
del nome di Dio invano.
La
speranza è una virtù teologale infusa da Dio nella volontà, per cui
confidiamo con certezza di ottenere la vita eterna e i mezzi necessari
per giungervi con l'aiuto di Dio. La speranza risiede nella volontà in
quanto il suo atto proprio è un movimento dell'appetito razionale.
La
temperanza è una virtù cardinale di natura soprannaturale, che modera
l'inclinazione ai piaceri sensibili, specialmente del tatto e del gusto
(gola e lussuria), contenendola entro i limiti della ragione illuminata
dalla fede. Fra le parti integranti, soggettive e potenziali ricordiamo:
la
vergogna: non si tratta di una virtù, ma una certa passione
lodevole che ci fa temere l'obbrobrio e la confusione che deriva dal
peccato turpe;
l'onestà:
è l'amore al decoro che proviene dalla pratiche delle virtù;
l'astinenza:
ci inclina ad usare moderatamente degli alimenti corporali secondo
il dettame della retta ragione illuminata dalla fede; atto proprio
della virtù dell'astinenza è il digiuno;
la
sobrietà: in generale significa la moderazione o la
temperanza in qualsiasi cosa, ma in senso stretto è una virtù
speciale che ha lo scopo di moderare, d'accordo con la ragione
illuminata dalla fede, l'uso delle bevande inebrianti;
la
castità: è la virtù soprannaturale che modera l'appetito
sessuale. Si tratta di una virtù angelica, perché rende l'uomo
simile agli angeli, ma è delicata e difficile: si giunge a
praticarla con perfezione solo a prezzo di una continua vigilanza e
severa austerità;
la
verginità: è una virtù speciale distinta e più perfetta
della castità, che consiste nel fermo proposito di conservare
perpetuamente l'integrità della carne. Perché abbia perfetta
ragione di virtù deve essere ratificata da un voto;
la
continenza: è una virtù che irrobustisce la volontà
perché resista alle concupiscenze disordinate molto veementi.
Risiede della volontà ed è per se stessa imperfetta poiché non
induce a realizzare un'opera positivamente buona, ma si limita
ad impedire il male, assoggettando la volontà affinché non si
lasci trasportare dall'impeto della passione;
la
mansuetudine: è una virtù speciale che ha lo scopo di
moderare l'ira secondo la retta ragione. La materia propria di
questa virtù è la passione dell'ira, che essa rettifica e modera
in modo che sorga solo quando è necessaria e nella misura
necessaria;
la
clemenza: è una virtù che inclina il superiore a mitigare,
secondo il retto ordine della ragione, la pena o il castigo dovuto
al colpevole. Procede da una dolcezza d'animo che ci fa aborrire
tutto quello che può contristare un altro;
la
modestia: è una virtù che deriva dalla temperanza la quale
inclina l'uomo a comportarsi nei moti interno ed esterni e
nell'apparato esteriore delle sue cose dentro i giusti limiti che
corrispondono al suo stato, al suo ingegno e alla sua fortuna.
Si
tratta di una parte potenziale della giustizia che ha lo scopo di
regolare le relazioni degli inferiori verso i superiori. È la virtù
per cui prestiamo culto e venerazione alle persone che hanno qualche
dignità. L'osservanza si distingue in due specie:
a) la dulia: consiste nella riverenza che il servo deve al suo
padrone. In senso largo significa l'onore dovuto a qualsiasi persona
costituita in dignità e, in senso ecclesiastico, il culto e la
venerazione che si deve ai santi in cielo o alla Vergine Maria (iperdulia)
o a san Giuseppe (protodulia);
b) l'obbedienza: è una virtù morale che rende la volontà
pronta ad eseguire i precetti dei superiori. Con la parola precetto non
si intende solo il comando rigorosa che obbliga sotto pena di colpa
grave, ma anche la semplice volontà del superiore, manifestata
all'esterno in modo espresso o tacito. Fra i gradi dell'obbedienza
troviamo: 1) la semplice esecuzione esterna; 2) la sottomissione interna
della volontà; 3) la sincera sottomissione del giudizio interno.
L'umiltà
è una virtù che deriva dalla temperanza la quale ci inclina a frenare
il disordinato appetito della propria eccellenza, dandoci la giusta
conoscenza della nostra piccolezza e miseria principalmente in relazione
a Dio. Fra le varie classificazioni dell'umiltà (gradi) citiamo quella
di Benedetto da Norcia, come scritto nella sua Regola (capitolo
VII):
Il
primo gradino dell’umiltà è quello in cui l’uomo, con la
visione continua della presenza di Dio dinanzi agli occhi, ispirato
dal suo timore, fugge del tutto la smemoratezza,
e ricorda sempre i precetti di Dio, e ripensa dentro di sé
perennemente come l’inferno bruci per i loro peccati i
dispregiatori di Dio, e come la vita
eterna
sia preparata per quelli che lo temono; e custodendosi sempre dai
peccati e dai vizi, cioè dei pensieri, della lingua, delle mani,
dei piedi, della propria volontà, nonché dalle inclinazioni della
natura corrotta, riflette che Dio sempre e senza posa lo guarda dal
cielo, e che le sue azioni in ogni luogo sono vedute dall’occhio
divino e riferite dagli Angeli ad ogni momento;
Il
secondo gradino dell’umiltà si ha quando uno, non
amando la volontà propria, non si compiace di soddisfare ai suoi
desideri, ma imita il Signore mettendo in pratica quel suo detto: Non
son venuto a fare la volontà mia, ma di Colui che mi ha mandato.
Similmente la Scrittura dice: La propria volontà merita la pena,
l’imposizione procura la corona.
Il
terzo gradino dell’umiltà
è quello per cui uno con
perfetta obbedienza si sottomette per amor di Dio al superiore,
imitando il Signore di cui dice l’Apostolo: Fattosi obbediente
fino alla morte.
Il
quarto gradino dell’umiltà
è quello del monaco che
nell’esercizio dell’obbedienza, pur se riceve ordini difficili o
ripugnanti, o anche qualunque specie di ingiurie, sa nel silenzio
abbracciare volentieri la sofferenza, e sopportando pazientemente
non si perde d’animo né indietreggia, poiché la Scrittura
avverte: Chi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo.
Così pure: Il tuo cuore sia forte e sappi sostenere la prova del
Signore. E per dimostrare che il servo fedele deve per il
Signore tollerare anche qualunque contrarietà, dice ancora la
Scrittura nella persona di quelli che soffrono: Per Te siamo
ridotti ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da
macello. E sicuri per la speranza della ricompensa di Dio,
proseguono con gioia e dicono: Ma in tutto ciò noi vinciamo per
Colui che ci ha amati. Similmente la Scrittura in altro luogo: Ci
hai provati, Signore; ci hai sperimentati col fuoco, come col fuoco
si sperimenta l’argento; ci hai tratti nel laccio, hai aggravato
di tribolazioni il dorso nostro. E per in dicare che dobbiamo
sottostare a un superiore aggiunge: Hai posto degli uomini sul
nostro capo. E osservando il precetto del Signore con la
pazienza nelle avversità e nelle ingiurie, percossi in una guancia
porgono l’altra, a chi toglie loro la tunica lasciano anche il
mantello, costretti a fare un miglio di strada ne fanno due, e con l’Apostolo
Paolo tollerano i falsi fratelli e benedicono chi li maledice.
Il
quinto gradino dell’umiltà si ha quando tutti i
pensieri cattivi che si affacciano alla mente e i peccati commessi
nel segreto, il monaco li svela con umile confessione al suo abate,
secondo l’esortazione della Scrittura: Manifesta al Signore la
tua via e spera in Lui. Similmente dice: Aprite l’animo
vostro al Signore, perché Egli è buono, perché eterna è la sua
misericordia. Così pure il Profeta: Il mio peccato te l’ho
reso noto, e non ho nascosto le mie colpe; ho detto: paleserò
contro di me le mie mancanze al Signore, e Tu hai perdonato l’empietà
del mio cuore.
Il
sesto gradino dell’umiltà consiste in ciò, che il monaco si
contenta delle cose più vili e spregevoli, e a tutto quello che gli
venga imposto si giudica inetto ed indegno operaio,
appropriandosi il detto del Profeta: Mi sono ridotto a nulla e
sono divenuto uno stolto; mi sono fatto dinanzi a Te come una bestia
da soma, ma sono sempre con Te.
Il
settimo gradino dell’umiltà è quello del monaco che non solo con
la lingua si professa più indegno e spregevole di tutti, ma ne è
convinto anche nell’intimo del cuore, umiliandosi e dicendo col
Profeta: Io poi sono un verme e non un uomo; obbrobrio degli
uomini e rifiuto della gente. Sono stato esaltato, e poi
umiliato e confuso. E similmente: Buon per me che mi hai
umiliato, perché io impari la tua legge.
L’ottavo
gradino dell’umiltà è di quel monaco che non fa se non ciò che
è suggerito dalla regola comune del monastero o dall’esempio dei
maggiori.
Il
nono gradino dell’umiltà è proprio del
monaco che sa dominare la lingua, osservando il silenzio, e tace
finché non è interrogato; perché nel
molto parlare non si sfugge al peccato e che l’uomo dalle
molte chiacchiere va senza direzione sulla terra.
Il
decimo gradino dell’umiltà si ha quando uno non è
facile e pronto al ridere, perché è scritto: Lo stolto nel
ridere alza la sua voce.
L’undicesimo
gradino dell’umiltà
è quello del monaco che,
quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con umiltà e
compostezza, e dice poche ed assennate parole, e non fa chiasso con
la voce come sta scritto: Alle poche parole si conosce il saggio.
Il dodicesimo gradino dell’umiltà si ha se il monaco non solo
coltiva l’umiltà nel cuore, mostra anche con l’atteggiamento
esterno a quelli che lo vedono; cioè nell’Ufficio divino, in
chiesa, nell’interno del monastero, nell’orto, per via, nei
campi, dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha
sempre il capo chino e gli occhi fissi a terra; e pensando sempre ai
peccati di cui è reo, fa conto di essere già per presentarsi al
tremendo giudizio di Dio, ripetendo sempre a se stesso internamente
ciò che disse, con gli occhi bassi verso terra, il pubblicano dell’Evangelo:
Signore, non son degno io peccatore di levare gli occhi miei al
cielo; come anche col Profeta: Mi sono sempre curvato e
umiliato.
Sintesi dei dodici gradini (tratto da:
https://abbaziamontecassino.it/carisma/la-regola-di-san-benedetto/regola-di-san-benedetto-capitolo-7-lumilta/):
1. Mai perdere la visione di Dio o cadere nella
smemoratezza.
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