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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di
Antonello Lotti
Linguaggio mistico e poesia
Paul
Klee, Strade principali e secondarie, olio su tela, 1929,
«E
ancora meraviglia di essere
/ e di pensare /
e parlare /
e udire la eco / come in infinito / deserto / ma è
appena la voce tua / e non c'è altro: / un punto, dove /
e di cosa non sai / una perla di luce / a riflettere
l'universo / e poi solo / "sovrumani silenzi".»
LINGUAGGIO
MISTICO
MISTICA
E POESIA
ANGELUS
SILESIUS
GIALÂL
ad-DÎN RÛMÎ
GIOVANNI
DELLA CROCE
DAVID
MARIA TUROLDO
Massimo
Baldini, Il linguaggio dei mistici, Queriniana, Brescia 1990
Juan
Martín Velasco, Il fenomeno mistico. Antropologia, culture e
religioni, Jaca Book, Milano 2001
Federico
Ruiz, Le vie dello spirito. Sintesi di teologia
spirituale, EDB, Bologna 1999
I
vari Dizionari e i libri antologici citati nella
pagina
bibliografica.
Secondo
una definizione ormai consolidata, appartenente al mondo della filosofia e
della psicologia, il linguaggio è:
«un
insieme di codici che permettono di trasmettere, conservare ed elaborare
informazioni tramite segni intersoggettivi in grado di significare altro
da sé. Il linguaggio umano è in massima parte appreso e si evolve nel
corso della vita dell'individuo e della specie e può riferirsi a
oggetti astratti mediante l'impiego di simboli che sono portatori
di un significato tramite il riferimento a qualcosa di altro da
sé, e di concetti, che si riferiscono non a un singolo oggetto,
ma a una classe» (Umberto Galimberti, Enciclopedia di
Psicologia, Garzanti, Torino 1999).
L'esperienza
mistica riguarda il rapporto della persona con Dio. Il concetto di
esperienza in realtà è di alquanto difficile definizione, come è
stato sottolineato in altre pagine (ad es., nella pagina dei
Concetti
fondamentali relativi alla mistica). Se è vero che l'esperienza del
divino produce nella persona un'esperienza passiva dell'azione di
Dio sull'anima, è altrettanto doveroso ricordare come non sia essenziale
per parlare di stato mistico (cfr. purificazione passiva, notte
dell'anima). Pertanto, la passività, per quanto fondamentale, non è
assoluta e non è per sempre: l'anima, si è detto, reagisce in modo
vitale sotto la mozione dello Spirito Santo, consente la volontà
cooperando alla sua divina azione in una maniera libera e volontaria.
Questa
premessa serve per evidenziare come il linguaggio, che appartiene a regole
fissate e apprese, oltretutto modificabili nel corso del tempo e della
storia, sia un modo credibile per raccontare l'esperienza mistica, che non
è assoluta o assolutamente ineffabile, e che non è per sempre nell'anima.
Come scrive Teresa d'Avila:
«Noi
non siamo angeli, ma abbiamo un corpo. Voler fare gli angeli, stando
sulla terra, è una pazzia; ordinariamente, invece, il pensiero ha
bisogno d'appoggio, benché talvolta l'anima esca così fuori di sé, e
molte altre volte sia così piena di Dio, da non aver bisogno, per
raccogliersi, di alcuna cosa creata. Ma questo non avviene molto di
frequente».
Con
i piedi per terra, dunque, si ritorna dopo l'estasi e si può tentare di
raccontare l'esperienza vissuta.
Il
linguaggio narra dunque di questa esperienza particolare, atipica che è
l'esperienza mistica. Ma quello che i mistici hanno affermato, riguardo
alla loro esperienza, è che il rapporto con Dio, il totalmente Altro,
rimane ineffabile, che l'esperienza dell'estasi è spesso indicibile, che
le visioni rimangono inesprimibili. L'ineffabilità è il tipico segno
dell'esperienza mistica dell'anima. Il contenuto dell'esperienza è
talmente particolare che non trova espressione attraverso la normalità
del linguaggio comune, ossia del linguaggio frutto della convenzione degli
uomini, relativo a quel tempo e a quella storia precisa in cui ci si
colloca.
Il
linguaggio appare dunque subito inappropriato e inadeguato per parlare di
ciò il mistico esperisce.
Tale
concetto di ineffabilità in realtà può essere considerato secondo due
aspetti:
ineffabilità
assoluta: ovviamente, l'esperienza mistica
propriamente detta significa un'esperienza con il divino che non può
che essere un incontro con l'assoluto e come tale indescrivibile. La
stessa esperienza non solo non può essere detta, riferita con un
linguaggio condivisibile, ma difficilmente ha modo di essere compresa
anche dal soggetto stesso se non nei riverberi, negli echi che lascia.
Dinanzi a questo concetto di assoluto, non si può che tacere: il
silenzio appare la via eminente per poter rispettare quanto esperito;
ineffabilità
relativa: non è un concetto che testimonia
un'inespressività assoluta, ossia un "non linguistico" o di
indescrivibilità: è possibile infatti che, all'interno
dell'esperienza mistica ci siano margini di consapevolezza e quindi di
riflessione e che sia possibile, dunque, raccontare, verbalizzare o
comunque comunicare in modo comprensibile anche ad altri quello che si
è vissuto.
Mi
sembra che sia giusto pensare all'esperienza mistica come un insieme di
queste due componenti: se da un lato è impossibile esprimere ciò che ha
catturato l'anima, e per cui l'anima è rimasta totalmente passiva,
d'altro canto la nostra natura, che rimane terrena, come ricordava Teresa
d'Avila, ritornando "con i piedi per terra" non può non tentare
di descrivere con parole quello che ha provato.
Scrive
Massimo Baldini che:
«per
il mistico le parole non sono domestiche, né addomesticabili, esse
rimangono per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il suo
parlare non è mai un parlare ozioso e routiniero, un inoffensivo
esercizio domenicale, bensì è un gesto di grande impertinenza verbale,
di grande trasgressività linguistica. I mistici, scrive Massignon, ci
fanno "dimenticare la prigione delle regole metriche e
retoriche"m i loro scritti "liberano il pensiero dalle regole
sintattiche abituali". Al mistico il linguaggio spesso si impunta,
talora egli non fa altro che ripetere a singhiozzi un alfabeto, la
parola è sempre una barriera che egli riesce difficile superare».
Inoltre,
il mistico sembra che aspiri a fabbricare una lingua nuova (glossopoiesi)
o a parlarne una (glossolalia). Così il linguaggio, per il
mistico, rimane una sorta di battaglia, spesso scandalosa per i più.
Scrive ancora Baldini:
«Gli
scandali linguistici dei mistici, le loro trasgressioni categoriali, le
loro innovazioni semantiche, ma soprattutto quel loro mettere a dura
prova il vocabolario con cui il teologo lavora, furono a lungo
fortemente combattuti dalle istituzioni ecclesiastiche sul finire del
sedicesimo e per tutti il diciassettesimo secolo».
Ma
in realtà, più che creare una lingua nuova, il mistico si accingeva a
lavorare su quella esistente. Lo stile del mistico è stilisticamente
strano, lessicalmente scorretto. Il linguaggio del mistico
«è
un linguaggio che vela più cose di quelle che sveli, che ci dice con i
suoi eccessi lessicali, con una fastosa abbondanza di parole che il
mistero non può essere reso udibile nel linguaggio. Ogni errore
grammaticale, dunque, è un segno di questa impossibilità e, nel
contempo, afferma Michel de Certeau, "indica un punto
miracolato del corpo del linguaggio; è una stimmate. La frase mistica
è un artefatto del silenzio che produce silenzio nel rumore delle
parole. Attraverso il linguaggio del mistico, linguaggio che è
destinato non a dire qualcosa, ma a condurre verso il nulla del
pensabile"».
Juan
Martín Velasco, nell'opera citata in
Bibliografia
afferma (cfr. p.51ss.):
«I
tratti generali che caratterizzano questo linguaggio [mistico] sono gli
stessi che caratterizzano in generale il linguaggio religioso, di cui
quello mistico è una parte eminente. La prima caratteristica del
linguaggio mistico sta nella sua condizione di linguaggio di
un'esperienza. [...] Il mistico non parla semplicemente di Dio come il
teologo; parla di Dio che gli si è manifestato in un'esperienza. Da qui
la sua concretezza, in contrasto con l'astrazione propria di altri
registri del linguaggio, come nel caso della teologia Da questo deriva
l'abbondante contenuto teologico e affetto della maggior arte dei testi
mistici, perfino negli autori più speculativi, come Meister Eckhart.»
«La
proprietà nella quale più vistosamente si manifesta la peculiarità
dell'esperienza di chi lo usa o lo crea è quella che, in modo generico
e vivido, si è chiamata "trasgressione" del linguaggio
mistico. Essa consiste nel togliere il significato primo dei vocaboli
fino al limite della loro capacità significativa e nell'utilizzazione
simbolica degli stessi. La realizzazione di queste trasgressioni
presenta modi svariati e numerosi. Appare soprattutto col ricorso
continuo alle metafore più ardite e vivaci, nelle quali si attua nella
maniera più perfetta quello che Ricoeur ha detto a proposito
della "metafora viva": "È molto più di una figura
stilistica; comporta un'innovazione semantica [...] una testimonianza in
favore della virtù creativa del discorso". La funzione centrale
del simbolo nel linguaggio mistico gli conferisce un'indubbia affinità
col linguaggio poetico. Affinità che portò H. Bremond a considerare
l'attività poetica un abbozzo naturale e profano dell'attività mistica
e, esagerando, a chiamare il poeta "un mistico evanescente" o
"un mistico mancato".»
Il
linguaggio più adatto ad esprimere ciò che è di per sé inesprimibile,
ineffabile (appunto come l'esperienza mistica), è sicuramente il
linguaggio poetico, fatto di detto e non detto, di parole e silenzi,
entrambi significativi.
Scrive
Massimo Baldini (op.cit., pagg.44-45) che:
«il
linguaggio della poesia, come quello della mistica, è un linguaggio
intessuto di paradossi. La paradossia risveglia l'attenzione della mente
dalla letargia delle comode abitudini linguistiche, crea stupore,
sorpresa, pone in nuova luce ciò che il linguaggio ordinario (o quello
teologico) avevano opacizzato. Tanto il mistico quanto il poeta tendono
ad essere dei sovversivi sul piano della lingua, creano il loro
linguaggio via via che procedono. Anche il mistico compie a livello
linguistico ciò che Eliot diceva essere tipico del poeta, e cioè
"deviare il linguaggio rendendolo significativo", e per
entrambi vale ciò che Paul Valéry affermava essere proprio del
"vero scrittore", e cioè l'essere "un uomo che non trova
le parole". Il mistico ha bisogno di una lingua giovane, per questo
è vittima di una crisi linguistica che lo può spingere sino a cercare
di uccidere il linguaggio. Il mistico ama le antitesi, i paradossi, gli
ossimori, i termini superlativi. Egli non ascolta il consiglio di
Cicerone per il quale la metafora doveva essere riservata (pudens)
e non ardita, infatti mostra di prediligere le metafore assolute,
audaci, vive. La sua è una metaforicità tanto ardita da essere talora
ebbra.»
Come leggere
le fonti spirituali
Federico
Ruiz, nell'opera citata in
Bibliografia,
afferma che «lo studio, la valutazione e lo sfruttamento delle fonti
spirituali richiedono una prospettiva adeguata e una speciale
sensibilità.» Occorre pertanto accennare ad alcune modalità:
Lettura
in chiave spirituale: i documenti e i fatti che la
spiritualità considera sue fonti hanno significato e valore in molte
altre prospettive differenti, ossia linguistica, psicologica,
letteraria, filosofia, storica. Così, di mistica, preghiera e ascesi
si occupa la psicologia; alcuni scritti sono opere letterarie di alta
qualità. Per questo non basta entrare in contatto con i documenti, ma
bisogna saperli leggere spiritualmente, vale a dire con la loro
prospettiva e con una specifica sensibilità. Non si tratta comunque
di un esercizio ascetico, ma occorre soltanto avere il riguardo di
relazionarsi col testo sapendo che si tratta di un'opera di tipo
spirituale.
Continuità
fra passato e presente: occorre saper integrare nella visione
autori antichi e moderni, recependo la ricchezza di tutti gli autori e
non soffermandosi su uno soltanto come fonte di verità assoluta. Lo
Spirito, d'altronde, distribuisce i suoi carismi lungo la storia e
molti di essi non si ripetono. Ogni epoca ha le sue luci speciali e le
sue congenite cecità, dovute al limite proprio della "coscienza
spirituale". Questa si mostra sensibile a certi valori e
insensibile o disattenta ad altri di uguale importanza. Quindi, non ci
si deve limitare, nella lettura, all'ultimo testo di spiritualità
pubblicato, ma tener in giusto conto tutte le opere precedenti (i
cosiddetti "classici della spiritualità").
Ecumenismo
storico: occorre contestualizzare, comprendere, rispettare
ogni epoca. L'atteggiamento ecumenico, che consiste nel rispetto, nel
dialogo, nella comprensione e nella tolleranza con altre chiese e
culture religiose, deve estendersi anche alle epoche religiose
anteriori alla nostra, che hanno idee e condotte molto diverse da
quelle attuali. Occorre quindi saper comprendere il pensiero e
l'esperienza all'interno del loro contesto salvifico e culturale.
Fra
le fonti spirituali troviamo:
Storia
della spiritualità: fatti di vita, iniziative di persone e
gruppi, con i loro insegnamenti.
Esperienze
personali: narrazione in forma autobiografica e relazioni,
come anche biografi e agiografie. Le autobiografie non sono le fonti
supreme della spiritualità o della mistica.
Esperienza
elaborata: la maggior parte delle fonti si presentano in forma
dottrinale. In questa funzione pedagogica o mistagogica trasmettono
esperienza e dottrina, propria e altrui [la mistagogia
è un'iniziazione graduale del credente ai misteri della fede,
trasmessa e assimilata per via di esperienza interiore e di prassi
impegnata, con l'aiuto di un maestro esperto].
Esposizioni
dottrinali: si tratta della produzione più abbondante e
riguarda corsi, trattati, temi sviluppati monograficamente.
Classici
della spiritualità: formano una categoria speciale, che è
formata per la propria solidità e continuità, per il riconoscimento
e l'uso generalizzato. Conservano (se non aumentano) il loro valore
spirituale nel tempo. Sono resi attuali dal loro vigore e dalla loro
profondità.
ANGELUS
SILESIUS (1624-1677)
INTRODUZIONE
E RIMANDO
Rimando alla pagina a lui dedicata in
questo sito [
https://www.mistica.blog/silesius.html ] in cui si dà una nota biografica e si
propongono alcuni aforismi distinti per argomento.
GIALÂL
ad-DÎN RÛMÎ (1207-1273)
INTRODUZIONE E RIMANDO
Nasce
a Balkh, ai confini dell'odierno Afghanistan, il 30 settembre 1207.
A causa dell'invasione dei Mongoli di Genghîz Khân nel 1220
lascia la patria insieme a tutta la famiglia peregrinando per raggiungere
la Mecca e infine, nel 1226, Konya, in Turchia. Nel frattempo, a 19
anni si era sposato con una fanciulla di Samarcanda. L'incontro col suo
maestro spirituale, Shams-i Tabrîz, avvenne nel 1244 in questo
luogo (alcuni pensano a Damasco). Shams-i Tabrîz era un derviscio vagante.
L'incontro avvenne in modo misterioso: si racconta che un giorno Gialâl
era seduto in casa circondato da discepoli e da libri. Shams entra
improvvisamente, lo saluta e, indicando i libri, domanda: "Che cos'è
questa roba?" Appena pronunciata la frase i libri presero fuoco e
bruciarono. Gialâl, impressionato, domandò: "Ma cos'è
questo?" e allora Shams rispose: "Non ne sai nulla!" e
uscì improvvisamente così come era entrato. Così Gialâl lasciò la
casa e andò a cercare Shams per poter essere guidato da lui e mettersi al
suo apprendistato come discepolo. Probabilmente Shams morì nel 1247
di morte violenta in un tumulto popolare a Konya.
Le
sue opere principali sono due: Dîvân-i Shams-i Tabrîz (Il
Canzoniere di Shams-i Tabrîz), raccolta di poesie mistiche e Masnavî-yi
Ma'navî, un poema lungo a rime baciate di oltre 26000 versi doppi.
Per un approfondimento di questo personaggio si veda la pagina
della
Mistica
islamica (sufismo), in collaborazione con Federico Chiappetta.
GIOVANNI
DELLA CROCE (1542-1591)
INTRODUZIONE
E RIMANDO
La pagina a lui dedicata in questo
sito [
https://www.mistica.blog/giovanni.html ] dà una breve nota biografica, affronta le tematiche dottrinali ed
elenca le sue principali opere non poetiche, dandone una breve antologia.
Lì si possono trovare indicazioni particolari su bibliografia e links.
Qui
affrontiamo la sua opera poetica, sempre con una breve antologia che possa
dare un'idea dell'Autore. Alla base di ogni opera c'è sempre la poesia
come mezzo espressivo forte di un'esperienza contemplativa.
Nella
Salita del Monte Carmelo, fa premettere queste parole:
«Tutta
la dottrina che io esporrò in questa Salita del Monte Carmelo è
contenuta nelle strofe che seguono in cui viene spiegato il modo di
raggiungere il monte, cioè l'alto stato di perfezione, che in questo
libro io chiamo unione dell'anima con Dio».
Sono
otto le strofe che via via vengono commentate. Iniziamo da queste e poi
proponiamo le strofe di Fiamma viva d'amore, insieme a poesie
sparse.
Nota:
Per alcuni versi ho realizzato una modifica parziale alla traduzione
proposta dalle diverse antologie. Per la versione sia di "Notte
oscura" che di "Fiamma d'amor viva" ho proposto l'originale e la
poetica pur fedele traduzione di Dario Chioli pubblicata,
oltre che nel suo sito, anche nel libro "L'ascesa al monte dei
melograni", Psiche, Torino 2005.
NOCHE OSCURA (Notte oscura)
CANCIONES
de el alma, que se goza de aver llegado al alto estado de la
perfección, que es la unión con Dios por el camino de la negación
espiritual.
CANZONI dell'anima che gode d'esser
giunta all'alto stato della perfezione che è
l'unione con Dio attraverso il cammino della negazione spirituale.
1. En una noche oscura,
con
ansias, en amores inflamada,
- oh
dichosa ventura! -
salí
sin ser notada,
estando
ya mi casa sosegada.
1. In una notte oscura,
Soffrendo
affanni, in amori infiammata,
- Oh,
felice ventura! -
Uscii
inosservata,
Che
la mia casa s'era già quietata;
2.
A escuras, y segura,
por
la secreta escala, disfraçada,
- o dichosa ventura! -
a
escuras, y en çelada,
estando
ya mi casa sosegada.
2.
Entro il buio, e sicura,
Per
la segreta scala camuffata,
- Oh,
felice ventura! -
Entro
il buio, e occultata,
Che la mia casa
s'era già quietata.
3.
En la noche dichosa,
en
segreto, que nadie me veía,
ni
yo mirava cosa,
sin
otra luz y guía
sino
la que en el coraçón ardía.
3.
Nella notte gioiosa,
In
segreto - nessuno mi vedeva,
Né
io guardavo cosa -
Senz'altra
luce e guida
A
parte quella che nel cuore ardeva.
4.
Aquésta me guiava
más
cierto que la luz del medio día,
adonde
me esperava
quien
yo bien me sabía,
en
parte donde nadie parecía.
4.
Questa più certamente
Che
meridiana luce mi guidava,
Là
dove m'aspettava
Colui
che ben sapevo,
In
luogo in cui nessuno era presente.
5.
Oh noche que guiaste,
oh
noche amable más quel el alvorada,
oh
noche que juntaste
amado
con amada,
amada
en el amado transformada!
5.
O notte che guidasti,
O
notte grata più dell'alba chiara;
O
notte che legasti
Amato
con amata,
Amata
nell'amato trasformata!
6.
En mi pecho florido,
que
entero para él solo se guardava,
allí
quedó dormido
y
yo le regalava
y
el ventalle de cedros ayre dava.
6.
Sul mio petto fiorito,
Che
intatto per lui solo si serbava,
Se
ne restò assopito,
Ed
io lo accarezzavo,
E
il ventaglio di cedri ventilava.
7.
El ayre de la almena,
quando
yo sus cabellos esparzía,
con
su mano serena
en
mi cuello hería,
y
todos mis sentidos suspendía.
7.
La brezza della torre,
Sciolti
che avessi i suoi capelli appena,
Con
la mano serena
Nel
collo mi pungeva,
Ed
i miei sensi tutti sospendeva.
8.
Quedéme y olvidéme,
el
rostro recliné sobre el amado,
cesó
todo, y dexéme,
dexando
mi cuidado
entre
las açucenas olvidado.
8.
Quietata, mi obliai,
Il
volto reclinato sull'amato;
Tutto
finì, e mi persi,
E
i pensieri lasciai
In
mezzo ai gigli nell'oblio sommersi.
LLAMA DE AMOR VIVA (Fiamma d'amor viva)
CANCIONES
del alma en la íntima comunicación de unión de amor de Dios.
Canzoni
dell'anima nell'intima comunicazione dell'unione d'amore di Dio.
1. ¡O llama de amor viva,
que
tiernamente hieres
de
mi alma en el más profundo centro,
pues
ya no eres esquiva,
acaba
ya, si quieres,
rompe
la tela deste dulce encuentro.
1. O fiamma d'amor viva
Che
tenera ferisci
L'anima mia nel più profondo centro!
Poiché
non sei più schiva,
Ormai, se vuoi, finisci,
Strappa la tela a questo dolce incontro!
2.
¡O cauterio suave!
¡O
regalada llaga!
¡O
mano blanda! ¡O toque delicado,
que
a vida eterna sabe,
y
toda deuda paga!
Matando muerte en vida, la has trocado.
2.
O cauterio soave!
O
dilettosa piaga,
O
man dolce, o tocco delicato,
Che
sa di vita eterna,
E
ogni debito paga!
Morte
uccidendo, in vita l'hai mutata.
3.
¡O lámparas de fuego,
en
cuyos resplandores
las
profundas cavernas de el sentido,
que
estava oscuro y ciego,
con
extraños primores
calor
y luz dan junto a su querido!
3.
O lampade di fuoco,
Nei cui vasti fulgori
Le profonde caverne del sentire,
Già cieco ed oscurato,
Con strane perfezioni
Dan luce e ardore insieme al loro amato!
4.
¡Quán manso y amoroso
recuerdas
en mi seno,
donde
secretamente solo moras;
Y
en tu aspirar sabroso,
de
bien y gloria lleno,
quán
delicadamente me enamoras!
4.
Come mite e amoroso
Ti
desti nel mio seno,
Dove
da solo in segreto dimori;
Nel
tuo aspirar gustoso,
Di
bene e gloria pieno,
Con che delicatezza m'innamori!
Tras
de un amoroso lance (Dopo un amoroso slancio)
Tras
de un amoroso lance
Dopo
un amoroso slancio
1. Para que yo alcance
diese
y,
con todo, en este trance
1. Per poter raggiungere
malgrado
ciò, in questo punto,
2. Cuando más alto subía
mas,
por ser de amor el lance,
2. Più alto salivo, più
ma
d'amore era lo slancio, e
3. Cuanto más alto
llegaba
dije:
No habrá quien alcance;
3. Quanto più alto giungevo
Dissi:
non vi sarà chi l'arrivi,
4. Por una extraña manera
esperé
sólo este lance,
4. In una strana maniera
attesi
solo questo lancio,
DAVID
MARIA TUROLDO (1916-1992)
David Maria Turoldo
Le
presenti note biografiche sono una rielaborazione di quanto aveva scritto
don Nicola Borgo in siti web non più fruibili.
Si può anche leggere il libro
autobiografico, scritto da Turoldo poco prima di morire, dal titolo La mia vita
per gli amici. Vocazione e Resistenza, Mondadori, Milano 2001.
Nasce
a Coderno di Sedegliano il 22 novembre 1916 da Giovanbattista e
Anna Di Lenarda e viene battezzato col nome di Giuseppe.
Dopo
aver trascorso gli anni dell'adolescenza nell'Ordine dei Servi, il 2
agosto 1935 emette la sua prima professione religiosa, assumendo
il nome di fra' David Maria. Diventa sacerdote nell'agosto del 1940.
Raggiunge
il convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo a Milano ed inizia
la sua testimonianza. Collabora ad un periodico clandestino dal titolo
"L'Uomo". Si laurea nel 1946 alla Cattolica di Milano sotto
la guida di Gustavo Bontadini, con una tesi dal titolo "Per una
ontologia dell'uomo".
Tra
il 1948 e il 1952 acquista notorietà pubblicando alcuni
volumi di liriche. Insieme alla poesia inizia una intensa attività
culturale di confronto e di dialogo che ha il suo centro
Egli
desidera superare una visione fredda dell'uomo (desunte da schemi
culturali o visioni ideologiche) al fine di incontrare l’uomo
concreto, il suo quotidiano, la sua storia. Si tratta di ricostituire
una “relazione” che superi le dicotomie, che lo stesso pensiero
cristiano sembrava avallare, tra individuo ed assoluto, mondo dell’uomo
e mondo di Dio.
Questa
prospettiva ha esercitato una notevole influenza nella preparazione e
nel recepimento delle conclusioni del Concilio Vaticano II, reso
possibile dall'intuizione di Giovanni XXIII. Esso si rivolse all’uomo
prima ancora che al cristiano, al mondo nella sua universalità, prima
ancora che alle particolari confessionalità.
Fedele
lettore dei testi sacri (e traduttore poetico di essi), le attenzioni
di Turoldo si rivolgono agli eventi con lo sguardo rivolto al progetto
di Dio sull'uomo e sulla storia, denunciando ogni sopruso ed
oppressione che snatura l'immagine dell'uomo. Negli anni '50 vive
l'esperienza di Nomadelfia, piccola città fraterna. A metà degli
anni '60 a Fontanella di Sotto il Monte (Bergamo) inizia la sua
esperienza di accoglienza ecumenica, di persone atee, di religione
islamica. La scelta del luogo in cui vivere è segno della grande
stima e profonda valorizzazione di Giovanni XXIII, papa Roncalli,
originario proprio di Sotto il Monte.
L’esperienza
della povertà è per lui fonte di ricchezza interiore, nutrita
di libertà da se stessi, di attenzione all’essenziale, capace
di cogliere una priorità di valori e di servirli con impensata
energia: è in nome della povertà come libertà che gli uomini
rinunciano a “possedere”, intuiscono il mistero dell’esistenza,
diventano capaci di convivenza fraterna.
Vive
l'esperienza di un male che lo accompagna negli ultimi anni della sua
vita. Con la tempra dell'uomo e la forza dello spirito racconta con
disincanto, ma con alti cenni di spiritualità mistica questa sua
ultima parte di vita. La lotta non è contro l'ingiustizia più
universale, ma contro un mostro che lo divora a poco a poco. Nascono
le raccolte "Canti ultimi" (1991) e "Mie notti con
Qohelet" (1992) a testimonianza di questo periodo.
La
presente breve antologia, redatta secondo un gusto personale, non può
rendere giustizia della profondità e della complessità di questa figura.
Vorrei qui soltanto mostrare il lato "mistico" di questo Autore,
che ha testimoniato soprattutto nelle sue ultime raccolte di poesia. Egli
chiedeva ragione di un male personale (ma in un certo senso tutta la sua
vita è un grido per conoscere il mistero del male del mondo) e le sue
poesie cercano di rendere ragione di questa domanda fondamentale che ogni
uomo, con una seria esperienza di umanità acquisita vivendo
coscientemente, non può non porsi. Alla fine, l'esito più naturale
appare soltanto quello descritto nella seguente poesia:
«O
Innominabile / pur dopo / le furiose e dolci e ostinate / fatiche dei
poeti / a inseguire / ora il frinire / d'un'ala / invisibile, ora / gli
scrosci d'uragano / del salmo / finiti pur essi / nell'infinito /
silenzio: / appena, alla fine il Tu / inevitabile, - ho scritto! / Dire
di più / è colpa.»
Le
poesie sono state tratte dalle raccolte: O sensi miei... Poesie
1948-1988, Rizzoli, Milano 1990 e Ultime poesie (1991-1992),
Garzanti 1999.
SOLO
LASCIARMI PENSARE
È
noto all'universo
che
tu sei la fonte del mio cantare:
* * *
Pure
il male dunque è un bene.
* * *
Bisogna
che la mente scompaia:
MIO
OSPITE
Anche
se in fondo ai mari
e
nei più alti cieli
si
mormora di te,
so
che non hai altra casa:
sei
il mio inevitabile Ospite
sconosciuto
e muto.
E
ci accomuna
la
disperazione di amare.
Pure
se santità significhi
dimore
inaccessibili
qui
è la tua casa
pure
se brama di te ci consuma
al
solo pensare che tu possa
apparire,
moriamo.
Non
passato né futuro tu hai
ma
in te ogni esistenza riassumi
e
gli spazi stellari e gli evi...
Quanto
inganna il pensarti lontano:
spazio
illusorio alla mia
e
tua autonomia:
tu
non puoi che celarti qui
nel
presente, non puoi
che
essere in urto
né
puoi sfuggire alla sorte
della
tua amata immagine.
SIAMO
IL TUO DIVERTIMENTO
Tu
non puoi non pensare a noi,
e
non amarci.
E
amandoci
rivelarti
ed
espanderti
e
deliziarti:
siamo
il tuo divertimento.
* * *
E
inabissarmi
nel
mare che non ha sponde
e
più non esistere...
ESAGONO
I
Se
appena uno sguardo rivolgo verso di te
già
il dove mi rimane impervio
e
ugualmente ignoto il punto
donde
parmi avvertire il richiamo.
E
se la mente non più che l'intento
riveli
di chiedere chi sei
ecco
montare sul mondo la tenebra
e
farsi Notte altissima:
e
anche il giorno si fa notte
e
non un rottame che galleggi
sull'oceano.
QUESTA
RAGIONE
E
pregare: noi siamo come sassi, Iddio,
polvere
di strade: passeranno
gli
altri su noi e sugli altri
gli
altri, fino all'ultimo giro.
Un'anima
hanno le pietre,
un
cuore, un destino pietoso.
Saranno
domani prigioni e case
o
mense d'altari ove sanguina
in
attrito di morte la Vita.
Polvere
saranno, alla fine,
con
la cenere degli uomini.
Cristo
il solo confine immobile,
l'abisso
ove s'annulla l'eterno
e
non ha più onda il tempo.
La
mia ragione invece
è
una scogliera sull'infinito.
AMORE
E MORTE
Ma
quando da morte passerò alla vita,
sento
già che dovrò darti ragione, Signore.
E
come un punto sarà nella memoria
questo
mare di giorni.
Allora
avrò capito come belli
erano
i salmi della sera;
e
quanta rugiada spargevi
con
delicate mani, la notte, nei prati,
non
visto. Mi ricorderò del lichene
che
un giorno avevi fatto nascere
sul
muro diroccato del Convento,
e
sarà come un albero immenso
a
coprire le macerie. Allora
riudirò
la dolcezza degli squilli mattutini
per
cui tanta malinconia sentii
ad
ogni incontro con la luce.
Allora
saprò la pazienza
con
cui m'attendevi; e quanto
mi
preparavi, con amore, alle nozze.
Ed
io non riuscivo a morire.
Piangevo,
mentre ti pascevi,
della
mia solitudine. Mai
canto
di gioia intonò il mio cuore,
stordito
dalla fragranza delle creature.
Ogni
voce d'amore era singulto. Invece
eri
Tu che odoravi nella carne,
Tu
celato in ogni desiderio,
o
Infinito, che pesavi sugli abbracci.
Uno
stesso tremolio - o bufera - sulla superficie
del
mare come dentro le onde del calice. Eri
dovunque.
E gli altri intanto
si
baciavano solo sulla bocca,
ma
io Ti mangiavo tutte le mattine.
E,
allora, perché, perché
dunque
ero così triste?
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