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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di
Antonello Lotti
Platone mistico
(a cura di Federico Chiappetta *)
Jean Delville (1867-1953), La scuola di Platone,
Parigi, Musée d'Orsay
«Gli
uomini che amano il sapere sanno che la filosofia, prendendo la loro
anima, dà ad essa consiglio e cerca di scioglierla, dimostrando che
l’indagine che si conduce mediante gli occhi è piena di inganni, e così
anche l’indagine che si conduce mediante gli orecchi e gli altri sensi,
persuadendola ad abbandonare questi, se non per quel tanto che è
necessario far uso di essi, ed esortandola a raccogliersi in se stessa e
non credere a nient’altro che a se stessa.»
(*) N.B. Questa pagina è il
frutto del lavoro di
Federico Chiappetta. Ecco come si
presenta:
Mi chiamo Federico Chiappetta,
sono nato a Milano nel 1990. Ho studiato filosofia nella mia
città. Il mio interesse verte sulle problematiche in
comune tra filosofia e religione. Amo inoltre moltissimo
la poesia e la canzone d’autore. Condivido con
Antonello, il curatore di Mistica.info, l’amore per il
pensiero e la spiritualità, in particolare, di Meister
Eckhart. Grazie a Eckhart mi sto affacciando al mondo
della mistica, universo spesso maltrattato e sempre
trascurato, di cui il sito offre una dettagliata,
appassionata e precisa panoramica.
Dal Simposio, Fedone, Fedro, Repubblica
L’opera omnia di Platone può essere letta nelle
seguenti edizioni:
Giovanni Reale (cur.), Platone. Tutti
gli scritti, Bompiani, Milano 1997, coll. Il pensiero
occidentale
Gabriele Giannantoni (cur.), Platone.
Opere complete, Laterza, Bari-Roma, 1982-1984
Giuseppe Cambiano e Francesco Adorno (cur.),
Platone. Dialoghi, Utet, Torino, 1995-2008
Dell’immensa letteratura critica dedicata a Platone
segnaliamo soltanto alcuni studi attinenti alla prospettiva
interpretativa con cui ci accostiamo all’opera platonica e ai quali
siamo debitori:
Giorgio Colli, La nascita della
filosofia, Adelphi, Milano 1975
Giorgio Colli,
Filosofi sovrumani, Adelphi, Milano 2009 [ scritto nel
1939 ]
Giorgio Colli, Platone politico, Adelphi,
Milano 2007 [ scritto nel 1937 ]
Marco Vannini, Introduzione alla
mistica, Morcelliana, Brescia 2000
Marco Vannini, Il volto del Dio
nascosto. L’esperienza mistica dall’Iliade a Simone Weil,
Mondadori, Milano 1999
Simone Weil, La Grecia e le intuizioni
precristiane, Borla, Roma 1984
Giovanni Reale, Il pensiero antico,
Vita e Pensiero, Milano 2001
Ci serviamo
dell’introduzione di Giovanni Reale a
Platone. Tutti gli scritti
e dello scritto di
Giorgio Colli Platone politico.
Platone non è altro che un
nomignolo, il vero nome del filosofo fu Aristocle, nome ereditato
dal nonno. Ci sono tre ipotesi sull’origine del soprannome. Secondo
la prima ‘Platone’ deriverebbe dal termine greco platos che
significa ‘ampiezza’, ‘larghezza’; e sarebbe dovuto alla corporatura
del filosofo. Secondo altri, invece, il nome deriverebbe dalla sua
vasta fronte. La terza ipotesi, forse la più suggestiva, vorrebbe
che il nomignolo derivasse dall’ampiezza della produzione e dello
stile del filosofo. Quest’ultima non è tuttavia ritenuta credibile
dagli studiosi che, per lo più, propendono per la prima ipotesi.
Platone è nato ad Atene nel 427
a.C. da famiglia aristocratica (nella Repubblica [V, 459 A], Platone
descrive la sua casa come «piena di cani da caccia e di nobili
uccelli». Ma vi sono anche altri riferimenti suoi e di altri). Ebbe
due fratelli, Adimanto e Glaucone (presenti nella Repubblica), e una
sorella, Potone. Secondo Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi (III,
1-2) Platone venne alla luce nello steso giorno in cui gli abitanti
di Delo dicono sia nato Apollo.
Il padre di Platone (morto
precocemente) faceva risalire la sua discendenza a Codro, ultimo
leggendario re di Atene; sua madre vantava una discendenza da
Solone, saggio legislatore al di sopra delle parti. Interessante
riferire come secondo Diogene Laerzio e la tradizione quella di
Platone sarebbe stata una “immacolata concezione” nella quale il dio
Apollo si sarebbe sostituito al padre generando il figlio dalla
vergine Perittione. Platone è considerato da certa tradizione greca
“uomo divino”, dotato di un accesso alla conoscenza e alla virtù di
natura sovraumana.
Nacque un anno dopo la morte di
Pericle; Atene era straziata dalla guerra del Peloponneso e dalla
inefficienza degli strateghi che si curanavano del proprio interesse
personale piuttosto che di quello della Polis, ci riferiamo in
particolare a Cleone, che Tucidide descrive come l’anti-Pericle.
Intorno al 407 a.C. divenne
discepolo di Socrate. Alcune fonti riferiscono che il filosofo
avrebbe bruciato le sue composizioni poetiche e le sue opere
pittoriche. Non possiamo soffermarci lungamente sul rapporto col
maestro Socrate (consiglio a questo proposito la Lezione 1 e la
Lezione 2 di Vegetti e la prima parte dello scritto di Colli
Platone
politico), riportiamo però un aneddoto di Diogene Laerzio:
«[Socrate] vide in sogno di avere posato sulle sue ginocchia un
giovane cigno, che subito mise le ali e volò via cantando
dolcemente; il giorno dopo gli si presentò Platone, nel quale egli
disse di aver riconosciuto l’uccello del sogno» (III, 5). Possiamo
ricordare che il cigno era l’uccello sacro di Apollo. Prima di
diventare discepolo di Socrate, Platone era stato per qualche tempo
seguace dell’eracliteo Cratilo (Aristotele, Metafisica, I, A 6).
Nel 399 Socrate venne condannato a
morte con l’accusa di empietà e di corruzione dei giovani (si tenga
presente quel magnifico resoconto che è l’Apologia di Socrate). La
morte di Socrate fu per Platone un’esperienza fortemente drammatica
e incise su tutta la sua vita e sul suo pensiero; da questa data in
poi, per Colli, Platone avverte come insanabile l’opposizione fra il
mondo ideale e quello reale. Socrate viene sublimato e investito di
luce sovrumana, la sua morte eroica e giusta lo trasfigura agli
occhi del nostro. Platone, temendo ripercussioni, lasciò Atene e si
rifugiò a Megara (che già conosceva avendo partecipato alla
battaglia del 409), presso Euclide. Seguì un periodo di viaggi e
trasferimenti: Cirene, Creta, Egitto (sono stati fatti diversi
lavori, anche in rete, sul soggiorno di Platone in Egitto e
l’influenza delle conoscenze di queste zone sull’opera del nostro.
Certamente bisogna ribadire, basandoci su Reale e altri, che
Platone, pure influenzato da queste dottrine, ha la forza teoretica
di trasformarle radicalmente. Questa grande capacità teoretica è lo
specifico della filosofia greca e del suo spirito).
L’infanzia e la giovinezza di
Platone caddero nel periodo drammatico della guerra del Peloponneso,
alla fine della quale in Atene fu instaurato il governo dei Trenta
tiranni (fra i quali era presente anche Crizia, zio di Platone).
Platone fu invitato a collaborare, ma essendone molto deluso,
declinò la proposta. Vi si riferisce nella Lettera VII (ritenuta
quasi unanimemente autentica): «una costituzione aborrita da molti»
(324 C).
Fu deluso anche dalla fazione
democratica, sotto la quale avvenne il processo e la condanna a
morte del maestro. La fazione democratica aveva potuto conoscerla
bene, dal momento che dopo la morte del padre Platone fu allevato
nella casa di Pirilampo, amico e collaboratore di Pericle.
Gli anni fra i viaggi di cui sopra
e il primo viaggio in Sicilia sono anni di crisi, amarezza e
solitudine nella vita del filosofo. Indicativo di questo periodo è
il Gorgia; in cui Platone rivela una novità di atteggiamento. Se nei
dialoghi precedenti (non si tocchi l’annosa questione della
cronologia dei dialoghi, si veda per questo l’introduzione di Reale
a Tutti gli scritti) trovavamo un Socrate probabilmente vicino a
quello storico, nel Gorgia scompare per fare spazio al discepolo
(sempre sotto le vesti socratiche). È un Socrate che afferma di
conoscere la verità e che grida con tutte le sue forze contro i
sogghignanti sofisti, come vuole Colli. Nel Gorgia è importante
l’influenza pitagorica; alcuni studiosi lo datano addirittura dopo
il primo viaggio in Sicilia, Colli ritiene vero il contrario.
Nel 388 a.C. Platone si recò in
Italia meridionale per conoscere le comunità dei Pitagorici e
Archita. Quindi fu invitato in Sicilia dal tiranno Dionigi I; i
rapporti fra i due furono tutt’altro che facili. Conobbe anche Dione,
parente del tiranno, che secondo Platone aveva le doti necessarie
per essere l’ideale re-filosofo.
Dionigi I ostacolò il ritorno in
patria di Platone, che venne fatto prigioniero ad Egina (in guerra
con Atene). Per fortuna di Platone ad Egina era di passaggio
Anniceride, un vecchio amico, che lo riscattò.
Ritornato ad Atene, nel 387 a.C.
acquistò un ginnasio e un parco dedicato all’eroe Accademo; la
scuola che fondò, in onore dell’eroe, si chiamò Accademia. Il 387
a.C. è per questo un anno fondamentale per la storia della
filosofia.
Nel 367 a.C. Platone compì il suo
secondo viaggio in Sicilia. Dionigi II era succeduto al padre. Dione
aveva garantito che Dionigi II fosse migliore del padre, e aveva
convinto così Platone ad intraprendere il viaggio. Dionigi II,
invece, esiliò Dione e fece prigioniero Platone che fu liberato solo
nel 365 a.C.
Nel 361 a.C. Platone tornò a
Siracusa una terza volta per persuadere Dionigi II a richiamare
Dione dall’esilio; anche questa volta le vicende presero una piega
drammatica e fu necessario l’intervento di Archita per liberare
Platone.
Platone, tornato ad Atene nel 360
a.C., vi rimase dirigendo l’Accademia fino al 347 a.C. quando morì.
Fu sepolto nel giardino dell’Accademia presso un tempietto dedicato
alle Muse che egli stesso aveva fatto costruire. Ben presto fu
venerato dagli allievi e non solo come “uomo divino”; ed iniziò a
circolare la leggenda della sua discendenza apollinea.
Si tenga presente
che per maggiori informazioni sulla vita e sull’opera di Platone si può
fare riferimento ai seguenti testi:
Francesco Adorno,
Introduzione a Platone, Laterza, Bari-Roma 1978
Franco Trabattoni,
Platone, Carocci, Roma 2009
Mario Vegetti,
Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003
Giuseppe Cambiano e
Massimo Mori, Le stelle di Talete (volume I),
Laterza, Bari-Roma 2004
Raffaello Sanzio (1483-1520), La scuola di Atene,
1509-1511, particolare
Platone mistico
Si vuole illustrare come, fra le molteplici e discordanti
interpretazioni di Platone, si possa riscontrare una linea che ne metta
in risalto il suo misticismo. Gli autori che seguiremo da vicino sono
Giorgio Colli, Simone Weil e Marco Vannini.
Qualsiasi studioso o anche semplice lettore di Platone è ben consapevole
che si ha a che fare con uno spirito fortemente religioso e che come
sosteneva Simone Weil la filosofia platonica sia una incessante ricerca
di mediazione fra uomo e Dio o, se si vuole, il divino. Platone non
sarebbe soltanto filosofo ma anche vaso di raccolta della antica
tradizione religiosa e di pensiero ed inoltre “mistico autentico” e
“padre della mistica occidentale”, stando sempre a Simone Weil.
Da
parte sua Colli sottolinea come la formazione del pensiero platonico
abbia origine nel misticismo presocratico; e che le sue concezioni
filosofiche e politiche altro non siano che l’oggettivazione, se si
vuole la razionalizzazione, della sua interiorità mistica.
Per
contestualizzare il pensiero di questo grande padre del pensiero
occidentale vogliamo riferire come Colli legge l’incontro di Platone
coll’indiscusso maestro, Socrate. Socrate, lasciando da parte Eraclito,
fu la prima grande personalità filosofica, di grande fascino sia per
Platone che per i contemporanei. Egli ricercò con il suo operato e con
la sua stessa vita la perfezione nel comportamento politico di ogni uomo
e questo poteva avvenire soltanto attraverso la mediazione della
ragione. Se gli uomini sono tutti diversi (sotto moltissimi punti di
vista) è pure vero che ciò che tutti accomuna, secondo Socrate, è la
ragione. Socrate si rivolse dunque alla sua interiorità (intesa soltanto
come ragione) e cercò di far compiere questa ‘conversione’ a tutti gli
uomini.
È
bene informare il lettore che Colli si serve di due categorie
(fondamentali per comprendere i suoi scritti): apollineo/politicità e
dionisiaco/misticismo. Colli deriva queste due categorie da Nietzsche,
ma ne trasforma, in parte, il significato. Dall’urto di queste due
componenti per Colli sorse il miracolo della filosofia greca. Il
misticismo dei Presocratici e di Platone nacque dal movimento religioso
dionisiaco, a causa di un più forte avvertimento del dolore
dell’umanità; sorse così il pessimismo greco, il pessimismo dionisiaco.
Il Dionisiaco spinge l’uomo ad entrare in sé; la concezione politica e
apollinea infatti portava con sé moltissimo dolore. Allora «l’uomo
dionisiaco dovette superare la propria passionalità annegandola in una
passionalità suprema, al punto da perdere il senso della personalità»
(Colli, Filosofi sovrumani). Questo aspetto dionisiaco non
sarebbe altro che l’impulso a superare tutto ciò che è umano. Tensione
questa che si appagherebbe nella serenità della conoscenza raggiunta, e
nella estrema solitudine. Ma originario per un greco è l’istinto
politico, quindi una volta toccato il solitario vertice teoretico, deve
esprimere la sua intima esperienza. Scrive ancora Colli: «Nella
solitudine essi sono giunti a dei sentimenti supremi, nudi di immagini e
di razionalità, lontani dalle idee comuni dell’umanità, e non sanno
tradurli in parole». Necessario per un greco è poi il movimento dalla
interiorità al mondo, e nella ricerca di questa espressione è necessaria
la razionalità, terreno sul quale qualsiasi greco sapeva di poter essere
compreso. Le dottrine dei Presocratici e di Platone sono «una
legislazione data all’universo». La politicità originaria richiede
espressione visiva, plastica della esperienza dionisiaca, della gemma
regalata loro dalla solitudine. Il Dionisiaco è un movimento centripeto
che tende alla interiorizzazione e all’individualismo supremo ed eroico.
È il venire a coincidere con la realtà universale. L’Apollineo invece è
un movimento centrifugo che tende ad affermare la personalità singola
(radice del soggettivismo in questo), provenendo da una esperienza
dionisiaca esprime la personalità di una creazione bella. In Socrate il
dionisiaco non fu tale da oscurare la sua serena visione apollinea della
realtà, ma trovava comunque espressione nella ricerca socratica di una
forma universale di sophrosyne (moderazione, autocontrollo), che
rendesse attuabile quella perfezione nel comportamento politico. Socrate
nelle sue ricerche non giunse mai e lo spirito di insoddisfazione è
spirito dionisiaco; eppure lambì il suo ideale con la sua vita e la sua
morte, quell’ideale che non era riuscito ad esprimere. Il fenomeno
divino in lui, il daimònion sarebbe il volto del dionisiaco. Una
forza misteriosa di cui non sa dare spiegazione ma di cui è cosciente.
Socrate è un unicum in tutta la storia della grecità. Platone nel
Simposio fa dire ad Alcibiade: «non è simile a nessuno degli
uomini» (Simposio, 221 C). Platone da Socrate ricevette il
desiderio portante di una città di uomini perfetti ma anche il
pessimismo sulla possibilità di una vita collettiva felice (che nel
discepolo sempre si andò radicalizzando). Il pessimismo socratico si può
evincere dalle sue ultime parole: «Critone, dobbiamo un gallo ad
Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!» (Fedone, 118 A).
Asclepio è il dio della medicina, che lo avrebbe guarito dalla malattia
della vita. Inoltre il dionisiaco in Socrate si potrebbe trovare anche
nel fatto che durante gli ultimi giorni di vita abbia composto versi,
contro al suo carattere eminentemente prosaico. «Socrate ha coscienza di
incarnare un personaggio tragico, [...] si sente un individuo dionisiaco
che domina il mondo con la bellezza della sua morte» (Colli).
Abbiamo così messo a fuoco la figura del maestro di Platone, secondo
l’ottica di Colli.
Seguiamo come Colli tratteggia l’evoluzione spirituale di Platone.
Socrate in qualche modo corregge la natura platonica tendente alla
pazzia dionisiaca, infatti il giovane Platone scriveva versi tragici e
ditirambi a Dioniso. Il maestro fa conoscere al giovane Platone la
serenità apollinea, Socrate mette l’allievo nell’ordine di idee che la
più degna attività dell’uomo è quella politica ed educativa. Alla morte
del maestro Platone rimane solo, e da solo difende la memoria del
maestro. La disfatta totale risveglia quella natura dionisiaca sopita da
Socrate. Caratterialmente Platone è più vicino ai Presocratici che non a
Socrate; Platone ha coscienza della sua superiorità rispetto agli
uomini, questo lo induce al disprezzo (posizione che ricorda da vicino
quella di Eraclito). Lo sdegno che Platone matura passa attraverso i
grandi del passato, i padri per la sua spiritualità, Eraclito, Pitagora,
Empedocle. Si rende conto che la solitudine che si trova a dover
fronteggiare è la strada verso la più alta conoscenza; Platone ha il
coraggio di questo eroismo.
«Alla conoscenza mistica giunge seguendo il suo impulso dionisiaco. […]
L’anima lascia ciò che la circonda e si volge ad indagare sé» (Colli).
Se per Socrate il “conosci te stesso” voleva dire trovare una posizione
di equilibrio entro la Polis, tracciare il confine fra la propria
libertà e quella dei concittadini; per Platone, come per Eraclito,
l’«indagine della propria interiorità è slancio verso l’infinito». In
questo movimento l’anima raccoglie in sé tutto il mondo. «L’isolamento
svuota l’anima dei contenuti razionali; lo stato dionisiaco è pura
interiorità». In questo modo l’anima si libera da tutti i limiti; è
indipendente dal mondo e dal divenire. L’anima per la prima volta è
libera, autè kath’hautén, ovvero essa per se stessa. Il
percorso dell’anima verso la solitudine è descritto in Fedone, 64
C-65 C (che riportiamo nella antologia). L’anima, una volta terminato
l’itinerario che la rende essa per se stessa, può intuire sé come
essenza e contemplare le essenze delle altre cose. L’essenza è la vera
realtà universale. E l’anima, osserva Colli, è synethroisméne,
‘raccolta in sé’ (Fedone, 83 A). Il dionisiaco, il processo che
stiamo descrivendo, portato all’estremo è infinità pura; ecco allora
l’indicibilità dell’intuizione del mistico. L’anima è indipendente e
staccata dall’umano. Può così conoscere le essenze di tutte le cose.
Platone, per fondare la sua dottrina, deve compiere un passo ulteriore;
deve affermare che la natura dell’anima è sugghenés, ‘della
medesima stirpe’, a quella delle idee. (Fedone, 79 D). L’anima
sola, raccolta e libera diventa allora capace di contemplazione. Nei
passi citati del Fedone, l’anima nuda, sola, viene anche
associata alla condizione di morte; Simone Weil associa questi passi al
tema mistico della morte dell’io. Per Colli la teoria delle idee nasce
come traduzione metafisica di questa esperienza. Ecco quanto
descrivevamo prima; la dottrina delle idee sarebbe oggettivazione di
questa esperienza, che a buon diritto può esser detta mistica. Le idee
si colgono «con lo spirito puro per se stesso» (Fedone, 66 A),
Platone tocca qui l’esigenza del distacco assoluto dalla sensibilità. Ma
«questa conoscenza è passionalità dionisiaca, sovrumana» (Colli). Ecco
la mistica scomparsa del soggetto; e la divinità che si fa presente
nella impersonalità del soggetto. L’anima si fa logos universale.
Platone arriva addirittura a paragonare i suoi insegnamenti a quelli dei
misteri dionisiaci (Fedone, 69 C-D e Fedone 81 A). In
Platone si riscontra anche l’amore del mistico per il sensibile; prima
del distacco il mistico cerca tutti i modi di amare il sensibile. Colli
mette in rilievo l’importanza del sensibile nell’itinerario platonico.
Al termine di questo itinerario l’anima è essa per se stessa e si
espande nell’universale che non ha limiti, che è continuo.
Platone è riluttante a parlare del suo misticismo e ne mette in primo
piano l’oggettivazione. L’elevazione oltre il sensibile non è
mortificazione della carne bensì impulso morale-conoscitivo che
percepisce l’insufficienza di ciò che è terreno. È tensione ad una
conoscenza e una forma di vita superiore, in qualche modo quella che
Socrate aveva iniziato a tratteggiare.
Ora
tocchiamo alcuni punti essenziali del Fedro, uno dei dialoghi
platonici più belli e commentati. Abbiamo visto come nel Fedone
la solitudine sia la vera via per la conoscenza (vicino ad Eraclito e a
Nietzsche); Platone scorge un’altra via meno dolorosa, quella
dell’amore. Platone constata che l’oggetto amato è qualcosa che
l’amante, il conoscitore, di ferma a contemplare. «Ogni mistico in
effetti tende a una perfezione che è staticità» (Colli). Nel sensibile
si ama ciò che rimanda ad una superiore perfezione. In questo senso gli
oggetti sensibili sono fondamentali per la vera conoscenza, si veda
Fedro 249 B. Per il mistico, scrive Colli, il distacco dal sensibile
non è avvertito come doloroso, ma è necessario per una ri-comprensione
che possa unificare in una sfera superiore. «Il Fedro è una lode
della follia dionisiaca» (Fedro, 244-245), per Platone la
follia è un modo di possedere più intimamente la propria
personalità. Il sensibile è necessario all’amore nella sua ascesa
(vedremo anche nel Simposio). Il Fedro contiene anche un
passo molto importante per Colli, Platone afferma infatti che l’uomo può
divinizzarsi nella conoscenza, essendo in relazione con quelle realtà
per le quali anche dio stesso è divino (Fedro, 249). Assomiglia a
Dio chi è più giusto; occorre sforzarsi di sfuggire da quaggiù. Il tema
già presente nel Fedone della fuga del mondo per diventare simile
a Dio (omoiosis). Nel Fedone in effetti la ricerca della
verità era esercizio preparatorio alla morte; la morte è il distacco con
cui l’anima cerca di essere essa sola per se stessa. Poco prima
Platone aveva affermato nella pazzia amorosa e poetica l’anima sente la
propria essenza una con l’essenza universale, suprema (Fedro, 247
B-C). Questa essenza universale è caratterizzata da puro fulgore.
Entro questo fulgore le immagini (le idee) sono tenute assieme dalla
luce.
Altro testo platonico centrale per la mistica è il Simposio. I
convenuti, come noto, discutono su cosa sia Amore, il discorso culmina
con l’intervento di Socrate che riferisce quanto gli aveva detto la
sacerdotessa Diotima (letteralmente ‘colei che onora Dio’); e dunque
questo intervento socratico ha la veste di una rivelazione. È uno dei
discorsi platonici più noti quello che fa Socrate: Eros non è un Dio,
bensì un demone che media fra gli uomini e gli dei, affinché il tutto
sia connesso con le parti. Eros riveste lo stesso ruolo che riveste la
filosofia. Eros è la personificazione del filosofo. Il cammino di Amore,
nota Vannini, è un cammino di accrescimento per gradi: vengono amati i
corpi belli, quindi le anime belle, la bellezza nelle leggi, la bellezza
nella conoscenza e, infine, il Bello-in-sé. Sono come dei gradini
che conducono dal molteplice all’uno. Il Bello-in-sé non è un
oggetto o una qualità fra le cose della terra e del cielo; ma è in-sé e
per-sé. Questa conoscenza del Bello non è una conoscenza
razionale, si veda a proposito Simposio 211 A-D. La visione del
Bello è exáiphnes, subitanea, ‘all’improvviso’ (Simposio,
210 E), «come un dono di grazia» suggerisce Vannini. Il passo
appena letto potrebbe essere avvicinato al commento che Simone Weil fa
su Repubblica, VI, 492 A-493 A: «la grazia è l’unica fonte di
salvezza, la salvezza viene da Dio e non dall’uomo». Colli nota
accortamente il fatto che Diotima riservi dei dubbi sul fatto che
Socrate possa seguire il suo discorso (Simposio, 210 A); mettendo
così in luce la natura mistica di questa conoscenza. Per Diotima quando
si contempla il Bello la vita diviene per l’uomo degna di esser
vissuta. Inoltre colui che contempla il divino diventa amico di Dio e
immortale. Nel Simposio Vannini rintraccia alcuni punti
fondamentali per il cammino della mistica, l’unità del tutto (umano e
divino) per la mediazione del demone. Amore mette in contatto Dio e
l’uomo (Dio è il Bene/Bello oltre l’essere). Inoltre il percorso verso
la Bellezza è un percorso intrapreso da Amore e conoscenza che come
volontà ed intelletto sono complementari. Il desiderio profondo che si
annida in questo itinerario è la contemplazione del Bene e da qui la
generazione del logos (che nota Vannini sarà poi lo specifico di
Eckhart). L’itinerario si struttura in una serie di passaggi, da un
bello inferiore, ad uno superiore. La Bellezza ultima è per Platone
théion, il divino-in-sé, una pura luce. Questo Bene, oltre l’essere,
non è una cosa fra le altre, ma è ciò che permette la realtà. La meta
dell’itinerario è il synéinai (‘essere insieme’) al divino.
Soltanto così la vita si fa degna di essere vissuta. Tale uomo è
thofilés (‘amico di Dio’). È distacco, purificazione e non meschino
disimpegno; tanto più che nella lettura di Colli abbiamo visto
l’oggettivazione di queste esperienze mistiche. E in fondo, dobbiamo
dirlo, grande immagine di questo, come di tutto il pensiero platonico
(Reale), è il mito della caverna (Repubblica, VII, 514 B-520 A).
La situazione umana è di ignoranza, di menzogna; occorre la conversio,
l’epistrophé di tutta l’anima. La filosofia è percorso di
purificazione (secondo l’antica tesi pitagorica); purificazione dalle
vane opinioni attraverso il logos che conduce all’Uno. La
filosofia platonica per Vannini è operazione morale e intellettuale di
distacco; nella ‘pianura della verità’ l’uomo è puro e bello, ha le
caratteristiche di Dio. La conversione, il distacco, avviene per ‘sorte
divina’, e permette di grado in grado l’ascesa al Bene, la cui immagine
sensibile è il Sole. Il Sole in effetti non è una cosa fra le cose, ma
ciò che permette la visione delle cose stesse. Il Bene permette di
tenere insieme le idee, il Bene è l’Uno; vertice del suo insegnamento è
l’esperienza dell’Uno. Si dovrebbe studiare quanto la interpretazione
della scuola di Tubinga-Milano di Platone e la proposta della Dottrina
dei Principi sia avvicinabile alla lettura mistica di Platone.
L’esperienza del Bene è il sapere supremo ed universale. Alla luce di
quanto detto basandosi sul mito della biga alata nel Fedro (246
A-249 D), si può affermare che il cammino dell’anima nella vita umana è
un ritorno. In effetti, osserva Vannini, «la mistica, l’esperienza
dell’Uno, non può pensare la vita umana fuori dall’Uno». La bellezza
sensibile ridesta all’anima ciò che ha contemplato; allora l’anima
intraprende il ritorno.
Platone, inoltre, è colui che conia il termine ‘teologia’ per
distinguere il suo discorso dal discorso dei poeti. La teologia per
Platone consiste nel sapere che Dio è sommamente giusto, si veda
Repubblica, 379 A. Dio è totalmente buono, causa unica del bene.
L’anima nel suo itinerario deve sfuggire al mondo di quaggiù per farsi
‘amica’ e ‘simile’ a Dio, il divino. È decisiva la conversione al mondo
del Bene, questo è il vero centro irradiante del pensiero platonico.
Simone Weil legge la Repubblica come un autentico testo mistico
che tratta in primo luogo dell’aspirazione dell’anima a ricongiungersi a
Dio. La città ideale non sarebbe altro che il simbolo di questo avvenuto
ricongiungimento, fra anima e Dio. Dio è buono e da lui può venire solo
il bene. La somiglianza a Dio avviene solo nella giustizia; ma la vera
giustizia è solo di origine divina, si veda Repubblica, VI, 493
A-D. Ma, tornando alla lettura di Colli, se è vero che nella
Repubblica la verità mistica colta è oggettivata, ovvero resa
logos, nel principio eminentemente politico del Bene; rimane pur
sempre vero che questa verità è una conoscenza che nasce nell’anima in
modo subitaneo, come il ‘risplendere di una luce’ (immagine poi cara
alla mistica, suggerisce Colli). L’uomo conosce nella sua vita momenti
di gioia, in gioventù, quando scopre la verità, «poi per tutta la vita
soffre, nel tentativo di comunicarla, soltanto delusione». La verità non
razionale persiste in lui, l’uomo ne è abitato, ma ciò che può scrivere
è soltanto un gioco, Fedro, 276 D e anche Lettera VII, 343
A e sempre Lettera VII, 344 C-D. Scrive Colli: «Il segreto di
Platone va cercato oltre i suoi dialoghi, occorre metterlo in relazione
con i Presocratici e con la sua vita». Potremmo chiudere questo
discorso, di certo parziale, ripetendo, con Simone Weil, che «Platone è
un mistico autentico, e addirittura il padre della mistica occidentale»
(La Grecia e le intuizioni precristiane).
Platone, busto
BREVE
ANTOLOGIA
I brani scelti sono quelli citati
sopra, o altri considerati interessanti per quanto detto; la traduzione
è di Giovanni Reale.
Simposio,
221 C
Parla Alcibiade: «Di molte e di altre
straordinarie cose si potrebbe continuare a lodare Socrate. Ma per
queste altre qualità si potrebbero dire le stesse cose anche di altri.
Invece, del fatto che egli non sia simile a nessuno degli uomini, né
degli antichi né dei contemporanei, questa è la cosa degna di ogni
meraviglia.»
Fedone,
118 A
Le ultime parole di Socrate: «Critone,
dobbiamo un gallo ad Asclepio: dateglielo, non dimenticatevene!»
Fedone,
64 C-65 C
Il percorso
dell’anima verso la solitudine
Parla Socrate: «Ragioniamo,
dunque, tra noi e lasciamo andare la gente. Riteniamo noi che la morte
sia qualche cosa?»
Simmia: «Certo»
Socrate: «E riteniamo che sia
altro che non una separazione dell’anima dal corpo? E che essere morto
non sia altro che questo: da un lato, l’essere il corpo, separatosi
dall’anima, da sé solo, e dall’altro, l’essere l’anima, separatasi dal
corpo, da sé sola? O dobbiamo ritenere che la morte sia qualcos’altro e
non questo?»
Simmia: «No, questo»
Socrate: «Guarda ora, o
carissimo, se anche tu sei del mio parere; infatti, da quello che ora
diremo, penso, risulterà chiaro ciò che noi ricerchiamo. Ti pare che sia
degno di un filosofo avere cura dei piaceri di questo tipo, vale a dire
dei cibi e delle bevande?»
Simmia: «Assolutamente no, o
Socrate»
Socrate: «E dei piaceri di
amore?»
Simmia: «Niente affatto»
Socrate: «E che ne dici delle altre
cure del corpo? Ti pare che il filosofo le tenga in pregio? Per esempio,
il possesso di bei mantelli, di bei calzari e degli altri ornamenti del
corpo, ti pare che egli li abbia in pregio o in dispregio, se non per
quel poco che è costretto a farne uso?»
Simmia: «Mi pare che non li
apprezzi chi è veramente filosofo»
Socrate: «E, dunque non ti pare che la
preoccupazione del filosofo non sia rivolta al corpo; ma che anzi, per
quanto egli può, si ritragga da quello e si rivolga, invece, all’anima?»
Simmia: «Mi pare di sì»
Socrate: «E allora, non è
evidente, innanzi tutto, che il filosofo, diversamente dagli altri
uomini, per quanto riguarda questo genere di cose, cerca di liberare
l’anima dal corpo, quanto più gli è possibile?»
Simmia: «È chiaro»
Socrate: «E la gente, poi, o
Simmia, crede che, per colui che di tali cose non gode e non partecipa,
non valga la pena di vivere, e che colui che non si cura dei piaceri che
si hanno per mezzo del corpo, tenda, in certo senso, a star vicino alla
morte?»
Simmia: «Verissimo quello che
dici»
Socrate: «E che dici, poi,
dell’acquisto della saggezza? Il corpo è di ostacolo, oppure no, se noi
lo prendiamo come compagno nella ricerca di essa? Voglio dire, ad
esempio, questo: la vista e l’udito hanno per gli uomini qualche valore
di verità? O non ci dicono continuamente anche i poeti codeste cose,
ossia che noi con gli occhi non vediamo nulla di sicuro e con le
orecchie non sentiamo nulla di sicuro? Ma se questi sensi del corpo non
sono sicuri né chiari, tanto meno lo saranno gli altri, perché, a
paragone di questi, tutti gli altri hanno un valore minore. O non ti
sembra?
Simmia: «Certamente»
Socrate: «Allora, quando
l’anima coglie il vero? Infatti, quando essa tenta di indagare qualcosa
insieme al corpo, è evidente che è tratta in inganno da esso»
Simmia: «Dici il vero»
Socrate: «E non è forse nel
ragionamento, se mai in qualche parte, che all’anima si manifesta
qualcuno degli esseri?
Simmia: «Sì»
Socrate: «Allora, l’anima non
ragiona forse nel modo migliore, quando nessuno di questi sensi la
turbi, né la vista, né l’udito, né il piacere, né il dolore, ma quando
si raccolga il più possibile in se stessa, lasciando il corpo,
e, rompendo il contatto e la comunanza col corpo nella misura in cui
può, si protenda verso l’essere?»
Simmia: «È così»
Fedone,
83 A
Parla Socrate; l’anima del filosofo si
libera dalle passioni del corpo
«…ebbene, come dicevamo, questi uomini
che amano il sapere sanno che la filosofia, prendendo la loro anima che
si trova in tali condizioni, dà ad essa consiglio e cerca di
scioglierla, dimostrando che l’indagine che si conduce mediante gli
occhi è piena di inganni, e così anche l’indagine che si conduce
mediante gli orecchi e gli altri sensi, persuadendola ad abbandonare
questi, se non per quel tanto che è necessario far uso di essi, ed
esortandola a raccogliersi in se stessa e non credere a nient’altro che
a se stessa…»
Fedone,
79 D
Parla Socrate; anima è sugghenés
alle idee
«Ma quando l’anima, restando in sé
sola e per sé sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è
puro, eterno, immortale, immutabile, e, in quanto è ad esso congenere,
rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sé e per sé
sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane
sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose
alle quali si attacca. E questo stato all’anima si chiama intelligenza»
Fedone,
66 A
Parla Socrate; l’anima coglie l’essere
quando si libera dal corpo
«E non è forse vero che potrà fare
questo nella maniera più pura colui il quale, per quanto è possibile, si
accosta a ciascuna realtà con la ragione stessa, senza mettere innanzi
al suo ragionare la vista, e senza prendere a compagno del suo pensiero
alcun altro senso dl corpo e, valendosi della pura ragione in sé e per
sé, intraprende a fare ricerca di ciascuno degli esseri nella sua
purezza in sé e per sé, dopo essersi separato il più possibile dagli
occhi e dagli orecchi e, in una parola, da tutto il corpo, in quanto
esso turba l’anima e non le lascia acquistare verità e saggezza, quando
ha comunione con essa? Non è forse costui, o Simmia, colui che, più di
chiunque altro, avrà la possibilità di attingere l’essere?»
Fedone,
69 C-D
Parla Socrate; si riferisce ai misteri
«E si dà il caso che non siano uomini
da poco coloro che istituirono i misteri: e in verità già dai tempi
antichi ci hanno rivelato per enigmi che colui che giungerà all’Ade
senza essersi iniziato e senza essersi purificato, giacerà in mezzo al
fango; invece colui che si è iniziato e si è purificato, giungendo colà,
abiterà con gli dei. Gli interpreti dei misteri dicono che ‘i portatori
di ferule sono molti, ma i Bacchi sono pochi’ [molti sono coloro che
nelle cerimonie portano il tirso, ma pochi sanno aderire interiormente
al dio Dioniso, ossia sanno sentire il dio in sé e farsi uno con lui]. E
costoro, io penso, non sono se non coloro che praticano rettamente la
filosofia. E, anche io, per essere fra questi, non ho tralasciato
nessuna cosa in vita mia, per quanto mi fu possibile, anzi vi ho messo
ogni cura. E se io vi abbia messo la giusta cura e ne abbia tratto
qualche frutto, noi lo sapremo chiaramente quando arriveremo là, cioè,
se il dio voglia, tra poco, come credo»
Fedone,
81 A
Socrate ancora si riferisce agli
iniziati
«E allora, un’anima che si è preparata
in tal modo, non se ne andrà verso ciò che le assomiglia, verso ciò che
è invisibile, divino, immortale, intelligente, dove, una volta giunta,
le toccherà di essere veramente felice, libera dagli erramenti, dalle
stoltezze, dalle paure, dai selvaggi amori e dagli altri mali umani,
passando tutto il resto del tempo con gli dèi, come si racconta degli
iniziati?»
Fedro,
249 B
Parla Socrate; importanza del
sensibile anche per la vera conoscenza; contesto del ritorno delle anime
nei corpi, dopo un tempo determinato (metempsicosi)
«Al millesimo anno, poi, sia le une
che le altre [quelle anime che hanno seguito la Giustizia e quelle che
non l’hanno seguita], giunte al momento del sorteggio e della scelta
della seconda vita terrena, operano tale scelta, ciascuna scegliendo
secondo ciò che vuole. A questo punto, un’anima umana può passare anche
in una vita di bestia, e chi era stato una volta uomo può tornare ancora
una volta da animale ad essere uomo. In effetti, l’anima che non ha mai
contemplato la verità non potrà mai giungere alla forma d’uomo. Bisogna,
infatti, che l’uomo comprenda in funzione di quella che viene chiamata
Idea, procedendo da una molteplicità di sensazioni ad una unità colta
con il pensiero»
Fedro,
249 C-E
Parla Socrate; l’uomo si divinizza
nella conoscenza; nessi fra la reminiscenza e la ‘mania’ dell’amore
«Perciò giustamente solo l’anima del
filosofo mette le ali. Infatti con il ricordo, nella misura in cui gli è
possibile, egli è sempre in rapporto con quelle realtà, in relazione
alle quali anche un dio è divino. Un uomo che si serva di tali
reminiscenze in modo retto, in quanto è sempre iniziato a misteri
perfetti, diventa, lui solo, veramente perfetto. Però, in quanto si
allontana dalle occupazioni umane e si rivolge al divino, viene accusato
dai più di essere uscito di senno. Ma sfugge ai più che egli, invece, è
invasato da un dio. È questa la conclusione cui perviene tutto il
discorso sulla quarta forma di mania per la quale, quando uno veda la
bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali, e
desideroso di volare, ma rimanendo incapace, guardando verso l’alto come
un uccello e non prendendosi cura delle cose di quaggiù, riceve l’accusa
di trovarsi in uno stato di mania»
Fedro,
244 A-245 C
Socrate parla; “Fedro come lode alla
follia dionisiaca” (Colli)
«Invece, i beni più grandi ci
provengono mediante una mania che ci viene data per concessione divina
[…]. In terzo luogo viene l’invasamento e la mania che proviene dalle
Muse, che, impossessatasi di un’anima tenera e pura, la desta e la trae
fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie, e,
rendendo onore ad innumerevoli opere degli antichi, istruisce i posteri.
Ma colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse,
pensando che potrà essere valido poeta in conseguenza dell’arte, rimane
incompleto, e la poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quella
di coloro che sono posseduti da mania. […] Dobbiamo dimostrare come per
nostra grandissima fortuna una mania di questo genere ci viene data
dagli dèi»
Fedro,
247 B-D
Socrate, nella follia amorosa e
poetica l’anima si sente una con l’essenza universale
«Infatti, allorché le anime che sono
dette immortali pervengono alla sommità del cielo, procedendo al di
fuori, si posano sulla volta del cielo, e la rotazione del cielo le
trasporta così posate, ed esse contemplano le cose che stanno al di
fuori del cielo. L’Iperuranio, il luogo sopraceleste, nessuno dei poeti
di quaggiù lo cantò mai, né mai lo canterà in modo degno. […] L’essere
che realmente è, senza colore, privo di figura e non visibile, e che può
essere contemplato solo dalla guida dell’anima, ossia l’intelletto, e
intorno a cui verte la conoscenza vera, occupa tale luogo. Ora, poiché
la ragione di un dio è nutrita da una intelligenza e da una scienza
pura, anche quella di ogni anima cui prema di conoscere ciò che le
conviene, quando vede dopo un certo tempo l’essere, si allieta, e,
contemplando la verità, se ne nutre e ne gode, finché la rotazione del
cielo non l’abbia riportata allo stesso punto»
Repubblica,
VI, 492 A
Parla Socrate; Simone Weil commenta
dicendo che «la salvezza viene da Dio e non dall’uomo»
«Dunque, io sono convinto che la
natura del filosofo, così come l’abbiamo supposta, quando si incontri
con la giusta educazione, è necessario che con la crescita raggiunga
ogni forma di virtù; se invece, per il fatto di non essere stata
seminata e piantata nel giusto ambiente è male allevata, tende nella
direzione opposta, a meno che un dio non accorra in suo soccorso»
Simposio,
211 A-B
Parla Diotima a Socrate, la conoscenza
del Bello non è una conoscenza razionale
«Chi sia stato educato fino a questo
punto alle cose d’amore, contemplando una dopo l’altra e nel modo giusto
le cose belle, scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura
meraviglioso, proprio quello, o Socrate, a motivo del quale sono state
sostenute tutte le fatiche di prima: in primo luogo, qualcosa che sempre
è, e che non nasce né perisce, non cresce né diminuisce, e inoltre non è
da un lato bello e dall’altro brutto, né talora bello e talora no, né
bello in relazione ad una cosa e brutto in relazione ad un’altra, né
bello in una parte e brutto in un’altra, né in quanto bello per alcuni e
brutto per altri. E neppure il bello si mostrerà a lui come un volto, o
come delle mani, né come alcun’altra delle cose di cui il corpo
partecipa; né si mostrerà come un discorso e come una scienza, né
come qualcosa che è in qualcos’altro, ad esempio in un essere vivente,
oppure in terra o in cielo, o in qualcos’altro, ma si manifesterà in se
stesso, per se stesso, con se stesso, come forma unica che sempre è.
Invece , tutte le altre cose belle partecipano di quello in un modo tale
che, anche se esse nascono e periscono, quello in nulla diventa maggiore
o minore, né patisce nulla»
Simposio,
210 A
Diotima: «Parlerò io e metterò tutto
il mio impegno, e tu cerca di seguirmi, se ne sei capace»
Simposio,
210 E
Parla Diotima; la visione subitanea
del Bello
«Ora cerca di fare attenzione quanto
più ti è possibile. Chi sia stato educato fino a questo punto rispetto
alle cose di amore, contemplando una dopo l’altra e nel modo giusto le
cose belle, costui, pervenendo ormai al termine delle cose d’amore,
scorgerà immediatamente qualcosa di bello, per sua natura
meraviglioso, proprio quello, o Socrate, a motivo del quale sono state
sostenute tutte le fatiche di prima […]»
Repubblica,
II, 379 B
Dio è buono ed è
causa di soli beni, altra è la causa dei mali
Socrate: «Dunque, siccome nella
realtà dio è buono, così va raffigurato»
Adimanto: «Come no?»
Socrate: «Ma non c’è bene che
sia nocivo; o non sei di quest’avviso?»
Adimanto: «A me non sembra»
Socrate: «E potrebbe mai ciò
che non è nocivo recar danno?»
Adimanto: «Assolutamente no»
Socrate: «E ciò che non reca
danno potrebbe fare del male?»
Adimanto: «Neppure questo è
possibile»
Socrate: «E ciò che non fa male
potrebbe essere all’origine di un qualche male?»
Adimanto: «E come potrebbe?»
Socrate: «E il bene non è forse
qualcosa di utile?»
Adimanto: «Sì»
Socrate: «Allora dal bene non
deriva ogni cosa, bensì esso è causa solo di effetti positivi, e di
quelli negativi non è causa»
[...]
Socrate: «Di conseguenza dio,
in quanto è buono, non potrebbe essere responsabile di tutti gli
avvenimenti, come i più sostengono; al contrario, delle vicende umane
solo una minima parte gli può essere addebitata, dalla maggior parte,
invece, è incolpevole. Per noi uomini, infatti, i beni sono molto più
scarsi dei mali, e se dei primi non si deve trovare nessun’altra causa
<al di fuori di dio>, dei secondi ne andrà assolutamente trovata
un’altra che non sia dio»
Fedro,
276 D
Socrate; ciò che è scritto è soltanto
un gioco
«E quando gli altri si dedicheranno ad
altri giochi, passando il loro tempo nei simposi, o in altri piaceri
simili a questi, egli [chi ha la scienza del giusto, del bello e del
buono] allora, come sembra, invece che in quelli passerà la sua vita
dilettandosi nelle cose che io dico»
Il mito della caverna, contenuto
nel settimo libro della Repubblica, può essere letto al link:
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/PLATONE_ IL MITO
DELLA CAVERNA (.htm
Il mito della biga alata, contenuto
nel Fedro, si trova al link:
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaP/PLATONE_ IL MITO
DELLA BIGA ALAT.htm
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