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Mistica.Blog - Pagine di mistica e spiritualità a cura di
Antonello Lotti
Mistica, vita spirituale e
psicologia
Luxor,
Volto di una delle statue colossali nel cortile di Ramesse II
«La
conoscenza dello spirito è la più concreta delle conoscenze, e perciò
la più alta e difficile. Conosci te stesso, questo precetto
assoluto non ha – né preso per sé né dove lo si incontra storicamente
espresso – il significato di una conoscenza di sé medesimo come delle
proprie capacità particolari (carattere, inclinazioni e debolezze
dell’individuo), ma significa invece la conoscenza di ciò che è la
verità dell’uomo, della verità in sé e per sé, dell’essenza stessa
in quanto spirito.»
Bibliografia
ragionata
Il
presente elenco alfabetico è basato sulle opere consultate e non pretende di essere
completo relativamente al tema della pagina. Come sempre, suggerisco un
percorso che andrà ulteriormente approfondito personalmente:
Klaus
Berger, Psicologia
storica del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo 1994
Più
che di psicologia, si intende qui parlare di esperienze umane.
Infatti, non è un testo di psicologia dei personaggi del Nuovo
Testamento, né una ricostruzione dei profili psicologici di Gesù e
dei discepoli. L'Autore, che è professore di teologia del N.T.
intende comprendere alcuni passaggi attraverso una interpretazione non
consueta, di stampo psicologico in senso molto generale. Interessante
dal punto di vista di arricchimento di una esegesi più ordinaria.
Maurice
Bellet, L'estasi della vita, EDB, Bologna 1996
Filosofo
con formazione psicoanalitica è un Autore di molte opere sulla
situazione della religione nella società attuale. Il titolo evoca
un'espressione di Francesco di Sales che riporta alla necessità di
vivere il proprio mondo interiore e la propria vita quotidiana come
estasi di fronte all'infinita possibilità che può assumere davanti a
Dio. Non è un testo facile né di immediata comprensione, ma affascinante per
la tematica esplorata in modo comunque originale.
Eugen
Drewermann, Psicanalisi e teologia morale,
Queriniana,
Brescia 1992
L'opera
è una sintesi di tre volumi editi a partire dal 1982 da Drewermann,
teologo e psicoterapeuta. Ha suscitato molto scandalo all'uscita in
quanto l'Autore intende dimostrare l'importanza di una fattiva
collaborazione fra scienze umane e teologia morale cristiana. A
leggerla oggi, lo scandalo appare del tutto scomparso. Non solo, ma
alcune enunciazioni o classificazioni appaiono, soprattutto per la
psicologia o la psichiatria attuali, completamente superate.
Eugen
Drewermann, Parola
che salva, parola che guarisce. La forza liberatrice della fede,
Queriniana,
Brescia 1997
Il
libro è un insieme di interviste rilasciate da Drewermann distribuite
in tre sezioni di cui la terza attiene in maniera speciale alla nostra
tematica. Gli si domanda infatti quale sia il rapporto fra
psicoanalisi e teologia e in particolare come attingere contributi
validi da entrambi i campi al fine di liberare l'uomo dalle proprie
paure e dalle proprie angosce per vivere una vita in pienezza.
UMBERTO
GALIMBERTI, Gli
equivoci dell'anima, Feltrinelli, Milano 1997 (10°)
La
parola anima, nell'attraversare i più svariati sistemi di
pensiero (filosofico, religioso, antropologico, psicologico)genera
una serie di equivoci in cui si nascondono variazioni potenti di
significato. L'Autore muove da Platone analizzando il significato
dell'anima secondo due direttrici: da un lato, quello della ragione e
il governo di sé, dall'altro con l'abisso della follia e la
dissoluzione dell'individuo.
Luis
Jorge González, Psicologia dei mistici. Sviluppo umano in
pienezza, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001
Il
testo non è di psicologia, né solo di teologia, o di spiritualità.
Si pone come un tentativo di applicare le conoscenze della psicologia
attuale alla comprensione della psicologia vissuta e usata dai
mistici. L'Autore, carmelitano, indica un percorso di psicologia
mistica, e lascia intendere che i mistici non sono solo coloro che
hanno percorso la propria vita attraverso rinunce, sforzi, lotte e
purificazioni, ma anche e soprattutto attraverso un amore senza
confini, che ha permesso loro uno sviluppo pienamente umano.
Benito
Goya, Psicologia e vita spirituale. Sinfonia a due mani,
EDB, Bologna 2000
L'Autore,
carmelitano, insegna in alcune Università romane. Lo scopo del libro
è di portare alla convinzione che una fede adulta deve procedere
all'unisono con la maturità umana (psicologica). Per cui è scorretto
e improduttivo separare le due cose che devono invece giocare la loro
parte come in una sinfonia.
Anselm
Grün, Lacerazioni.
Il cammino verso l'unità personale, Edizioni Messaggero, Padova
2001
L'Autore
è un monaco benedettino tedesco che dirige un centro di spiritualità
nei pressi di Würzburg. Conferenziere, psicoterapeuta e scrittore di
moltissimi libri tradotti anche in italiano, che hanno un successo
notevole. Si può dire che ha scritto di tutto, dalla
biblica alla teologia, dalla spiritualità alla psicologia. In questo
volume, attingendo alla tradizione degli antichi monaci del deserto e
alle conoscenze della moderna psicologia, analizza la condizione di
molti contemporanei, frammentati interiormente, invitando a riscoprire
la presenza del divino nell'intimo del cuore umano, che rende
nuovamente rendere unita la persona.
Anselm
Grün, Il
libro dell'arte della vita, Queriniana, Brescia 2003
Brevi
meditazioni al confine fra spirituale e psicologico che costituiscono
un invito alla riflessione e al cambiamento interiore, per vivere una
vita più vera ed intensa e pervenire, nei limiti del possibile, alla
felicità. La vita è un'arte che va appresa soprattutto nel
ridimensionare le pretese del mondo e personali verso se stessi,
evitando di lasciarsi prendere dalla frenesia dei tempi attuali e
cercando ciò che davvero è importante per la vita.
Anselm
Grün, La
cura dell'anima. L'esperienza di Dio tra fede e psicologia,
Paoline, Milano 2004
Il
libro è una lunga intervista al monaco benedettino da parte di Jan
Paulas e Jaroslaw
Šebek.
Parla della propria vita, infanzia e giovinezza, del Concilio Vaticano
II, della vita religiosa, si sofferma sulla preghiera, sulla Chiesa da
rinnovare, sull'amore di Dio e ovviamente sulla fede e la
psicologia.
Willigis
Jäger, L'onda
è il mare, Appunti di Viaggio, Roma 2004
L'Autore,
monaco benedettino nato nel 1925 in Germania, ha coltivato nel corso
degli ultimi anni una passione per lo Zen, fino a diventarne maestro
nel 1996. Nel 2001 la Congregazione per la dottrina della fede ha
deciso di vietargli lo svolgimento di qualunque attività pubblica
(discorsi, corsi o pubblicazioni). In questo suo libro, che è una
lunga intervista, egli tratteggia il senso di una vita mistica
realizzabile attraverso il contributo delle filosofie orientali, in
particolare lo Zen. In queste culture, Dio non è visto come qualcosa
di estraneo o distante dall'uomo, ma un tutto onnicomprensivo di Dio,
spirito, materia.
ALDO
STELLA, Per
una concezione filosofica dello "psichico", Borla, Roma
1992
L'Autore
ha inteso indagare in senso filosofico sul tema dello
"psichico", precisando alcuni concetti di fondo come
esperienza, realtà, coscienza, analisi, dialogo, sapere. Vale la pena
di leggere tutti i suoi scritti, basati su una riflessione teoretica
che restituisce una diversa luce ai temi della psicologia, della
psicoanalisi e della vita interiore. Le sue riflessioni asciutte,
rigorose e precise, aprono comunque ad un senso di trascendenza
percepibile da tutti coloro che sono alla ricerca della
Verità.
Marco
Vannini, La morte dell'anima. Dalla mistica alla psicologia,
Casa editrice Le Lettere, Firenze 2003
L'Autore
è conosciuto avendo curato traduzioni di opere di molti mistici:
Eckhart, Taulero, Silesius, Gerson, Fénelon, etc.
In questo testo tende a sottolineare come il recupero dell'esperienza
mistica sia indispensabile alla costituzione di un vero sapere
dell'anima, cui la psicologia, ferma allo studio di un "io"
limitato dai propri legami, non può portare. La tradizione mistica e
filosofica (da Cartesio a Hegel) ha invece posto le basi per la
scoperta del fondo dell'anima –
Introduzione
e precisazione
Per
alcuni, il
termine «psicologia» risalirebbe al riformatore ed umanista tedesco
Philippe Schwarzherde (grecizzato in Filippo Melantone, 1497-1560),
riferendosi genericamente allo studio della psiche. Per altri
invece al logico del XVI secolo, Rodolfo Goclenio, professore
a Marburgo, ormai dimenticato. È comunque nella seconda
metà dell'Ottocento che con William Wundt l'indagine psicologica si stacca
dalla filosofia speculativa per aprirsi alla metodologia delle scienze
naturali, adottando criteri di sperimentazione e di quantificazione. La
psicologia scientifica ha sostituito il concetto di psiche con
quello di comportamento. Il comportamento non è solo quello
osservabile dall'esterno, ma è l'insieme dei processi psicologici, consci
ed inconsci, attraverso i quali la persona costruisce le proprie risposte. Visto in questa ottica, è chiaro che la psicologia si
interessa dei comportamenti in genere e, nell'ambito delle proprie
metodologie, si può occupare anche dei comportamenti mistici sia a
livello psico-fisiologico (come risposta organica dell'individuo, ad es. nell'estasi) che
clinico (colloqui, racconto di esperienze, etc.).
Quello, insomma, che un tempo era riservato alla teologia spirituale, ora
può essere svolto anche da un altro versante, scientifico, dalla
psicologia. E non sono mancati casi di religiosi legati alla psicologia
scientifica, come ad es., P. Agostino Gemelli, il quale era allo stesso
tempo frate e psicologo, con tutti i limiti in entrambi i campi.
Che
la psicologia possa servire alla teologia è una questione molto
interessante e dibattuta. Da diverso tempo, ormai, negli ordini religiosi
sono invalse pratiche di psicologia applicata alle vocazioni, al
discernimento, alla direzione spirituale. Molti sacerdoti e religiosi sono
formati con insegnamenti di psicologia, hanno titoli scientifici, sono
laureati in psicologia o hanno seguito appositi corsi. Un esame
psicologico viene richiesto per essere ammessi in molte congregazioni religiose
e si richiede l'aiuto dello psicologo
per problematiche legate alla vita consacrata (anche con psicoterapie).
Non ultimo, il caso di molti sacerdoti, religiosi, uomini di spiritualità
che scrivono libri di grande successo su temi al confine fra lo spirituale
e lo psicologico (Drewermann, Grün, Jäger, Bellet). D'altronde, tale discrimine
non è così preciso come si vorrebbe (soprattutto da parte della
psicologia). Fino a che punto, infatti, è possibile giudicare un'esperienza
spirituale con criteri scientifici legati alla psicologia? Ovviamente la
psicologia afferma che è possibile. Studiando i comportamenti (tutti i
comportamenti), la psicologia non può che prendere atto che ne esiste anche
uno spirituale (dalle varie gradazioni, dal semplice
affermare di credere in Dio alle esperienze mistiche) e connotarlo secondo
le proprie coordinate metodologiche.
In
particolare, da quando si è imposto il manuale diagnostico-statistico dei disturbi
mentali (DSM) dall'America a tutto il mondo, la psicologia si è
trasformata sempre più in psichiatria della mente. Se si fa caso ai vari
disturbi elencati si vede che è difficilissimo non rientrare in alcune o
molte delle tipologie descritte. A maggior ragione, quando si voglia
analizzare alcuni comportamenti mistici. Nel libro citato nella pagina dei
FENOMENI STRAORDINARI NEI
MISTICI, Armando De Vincentiis, psicologo, traccia alcune
osservazioni psicopatologiche dei processi estatici e non solo (accorpando
stimmate a possessioni), dando per conclusione la seguente: «Con le loro
manifestazioni psicofisiche quali stimmate, estasi o possessioni, le
patologie a carattere religioso rappresentano un interessante rompicapo
per la psicologia e la medicina psicosomatica» (pag. 93). Egli mette
insieme estasi, stimmate e possessioni diaboliche e le definisce
chiaramente «patologie a carattere religioso». D'altro lato,
ammette si tratti di un rompicapo per la psicologia, ossia di un problema
che non è ben definito e tanto meno univoco ed invoca una modalità di
approccio multilaterale fra medicina, psicologia ed antropologia, finora
mai realizzato.
Appare
dunque chiaro come un certo approccio positivista sia alla psicologia che alla
spiritualità sia non solo dannoso allo spirito (che non è per
nulla compreso e tanto meno aiutato), ma anche fuorviante per una presunta
risoluzione di problemi che comunque rimarranno sempre. Il margine di non
comprensibile probabilmente è
tale perché tale deve rimanere e né la psicologia, né la teologia
potranno mai esaurire la loro competenza. L'unica cosa è come sempre
avere un atteggiamento umile di fronte a ciò che non si conosce, né per
esperienza personale, né per resoconti o studi effettuati da altri. Tale umiltà
intelligente (da parte della psicologia nei confronti della spiritualità
e della teologia nel saper discernere l'effettivo apporto della psicologia) è solo il primo passo per esplorare ancora di
più le profondità dell'animo umano, secondo la lezione delle grandi
figure spirituali, così come dei contributi che scienze
diverse (psicologia, medicina, antropologia, sociologia) possono apportare.
Il concetto di Anima (Psiche)
e mente
Seguendo
le indicazioni fornite da U. Galimberti, nel suo Dizionario di
psicologia, possiamo dire che, partendo dall'Orfismo (vedi pagina
dedicata ai
CULTI
MISTERICI), Platone elabora il concetto di anima (dal greco ànemos,
vento) ponendo una distinzione col corpo, dando avvio al dualismo
antropologico che fino ad allora era ignoto alle varie culture (ad es. a
quella ebraica). Tale concezione entrò nell'ambito cristiano grazie anche
alla traduzione in greco dei testi della Bibbia. Aristotele si oppose al
concetto sostanziale di anima, che egli pensò più come forma (entélecheia)
del corpo, ossia come principio che determina la corporeità. Tommaso d'Aquino
compose la contrapposizione definendo l'anima come sostanza riconoscendole
la sola funzione intellettiva, attribuendo al corpo la funzione sensitiva
e vegetativa. Si parla di anima come di una sostanza incompleta. È di per
sé sussistente poiché svolge operazioni sue proprie (autoriflessione),
sebbene non eserciti da sola tutte le sue operazioni (ad es., sentire non
è possibile senza il corpo).
R.
Descartes definì in modo ancora più evidente un dualismo psicofisico
(nelle forme della res cogitans e res extensa) che
condizionerà la psicologia nelle sue espressioni. La parola mente acquista
una sua rilevanza semantica proprio con Cartesio: alla res extensa
appartengono tutte le cose materiali caratterizzate dall'estensione e dal
movimento (meccanicismo) che seguono la legge deterministica della
causalità (determinismo), mentre alla res cogitans
appartiene il pensiero che sfugge al meccanicismo e al determinismo. Solo
con E. Husserl e poi con L. Biswanger tale concetto sarà demolito,
definendolo un «errore seducente», ma anche un «cancro della
psicologia».
Accanto
all'itinerario cartesiano, esisteva il modello empirista di D. Hume, il
quale aveva pensato l'anima come un fascio di eventi psichici in continuo
flusso e movimento che traevano origine dalle impressioni sensoriali. Da
questo modello trasse spunto l'ipotesi positivista, per cui l'anima
è l'insieme degli stati di coscienza che risultano dall'associarsi di
elementi più semplici (elementarismo) e quella fisicalista
che sostiene, attraverso J.J.C. Smart e R. Carnap, il carattere puramente
nominale della parola anima cui non corrisponde alcun contenuto
scientificamente indicabile. In ambito psicologico, solo C.G. Jung ha
usato molto la parola anima che egli impiega in due accezioni: una
generale, dove si intende l'interiorità dell'uomo in contrapposizione
alla sua maschera esteriore, e una specifica, dove l'anima è la parte
controsessuale del maschio, ossia il femminile come componente
inconscia.
Infine,
il termine coscienza ha, per la filosofia, il significato di un
«rapporto dell'anima con se stessa, di una relazione intrinseca all'uomo interiore
o spirituale, per il quale egli può conoscersi in modo
immediato e privilegiato e perciò giudicarsi in modo sicuro e
infallibile» (Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia).
Il primato della Coscienza
Per
introdurre una critica all'evoluzione, a parer mio, negativa del concetto
di anima (psiche) e di mente, vale la pena citare quanto affermato in modo
pregnante da Aldo Stella nel suo volume Medicare e meditare.
Fondamenti teorici per una scienza unificata della salute, alle pagine
221-223 e 336:
«La
conoscenza della mente è stata inizialmente una conoscenza filosofica: la
psicologia è figlia della filosofia. La mente, da un punto di
vista filosofico, è essenzialmente pensiero, coscienza, sì che
ogni conoscenza di fatto comparente non può non riferirsi al pensiero,
che ne costituisce senso e valore. [...] Senza il pensiero, senza la
coscienza, niente sarebbe; tutto ciò che si pone, si pone in virtù della
coscienza e del pensiero che consentono alle cose di determinarsi. Anche
ciò che non è coscienza, l'oggetto, non sarebbe senza la coscienza che
lo rileva.
«Per
esprimere il valore di fondamento che ha la coscienza,
intesa in questo senso di condizione assoluta e incondizionata [...] basti
una elementare osservazione: se, da un punto di vista cronologico, la
coscienza viene per ultima, da un punto di vista ontologico, invece, essa
viene per prima, perché il "prima" e il "poi" sono
conseguenza del suo essere. Spazio e tempo - ma questo l'aveva già
insegnato Kant - sono forme della coscienza, sì che essa, da questo punto
di vista, risulta inconoscibile poiché costituisce il fondamento di ogni
atto conoscitivo, e non è dato conoscere, riducendolo a contenuto, ciò
che vale come condizione incondizionata dello stesso conoscere. La
coscienza ripropone l'assolutezza del fondamento, che non può essere
inglobato, mediante la relazione, nell'ordine delle determinazioni
relative, cioè nell'ordine delle conoscenze. Se venisse inglobato in
questo ordine, perderebbe il valore di fondamento assoluto, di condizione
incondizionata.
«La
stessa cosa può venire espressa anche così: se la soggettività, intesa
come Soggettività autentica e fondante, fosse ridotta a oggetto di
conoscenza, essa cesserebbe di essere Soggettività fondante. [...] Se il
soggetto viene disposto tra gli oggetti, cessa di essere Soggetto; ma, se
non viene posto come un oggetto tra gli altri, esso non può venire
conosciuto. L'esigenza della scienza moderna è precisamente quella di
conoscere il soggetto nei modi e nelle forme che sono propri di una
conoscenza oggettuale, riducendolo dunque a oggetto tra oggetti, poiché
solo così è analizzabile, quantificabile, misurabile, calcolabile. [...]
La scienza empirica è strutturalmente riduzionista, anche quando
cerca di non esserlo, perché pone in essere la riduzione fondamentale: la
riduzione del soggetto a oggetto, della coscienza, che è fondante, a un
contenuto di coscienza, del pensiero, che è l'Atto per pensare, a un
pensato o un insieme di pensieri pensati. E la conseguenza è precisamente
questa: la coscienza si riduce a un insieme di "stati di
coscienza", a un insieme di "elementi psichici" o di
"funzioni psichiche". [...] Alla psicologia scientifica immane
l'ideale riduzionistico e fisicalistico.
«La
coscienza è la figura che, meglio di ogni altra, indica l'esigenza
ideale di trascendere il fattuale, ossia l'esigenza di
oltrepassare l'ordine all'interno del quale, tuttavia, si continua a
permanere. Ci si colloca, inevitabilmente, nell'ordine
dell'esperienza, nell'ordine delle determinazioni, delle conoscenze, dei
discorsi, ma si intende, innegabilmente, emergere oltre tale
ordine, onde pervenire alla sua verità, al suo fondamento, al principio,
alla condizione incondizionata della serie dei condizionamenti, all'incontraddittorio,
che emerge sulla contraddizione.»
Nota:
Per un ulteriore approfondimento sul tema della coscienza, cfr.
anche il suo volume Cognizione e coscienza. Precisazioni su alcuni
concetti di scienza cognitiva, alle pagine 181-217.
L'anima in Eckhart (cenni)
Nel
libro citato in
Bibliografia, Marco Vannini rivolge una critica alla Chiesa: quella
di aver tenuto distinta l'anima da Dio, avendo quindi ridotto l'anima (più
precisamente il fondo dell'anima, citando Meister Eckhart) a mere facoltà. L'anima, invece, per
i mistici e in particolare per Eckhart, è il luogo dell'incontro con Dio,
in cui non esiste l'uomo e Dio, ma un unicum che trascende l'uomo
come Dio. L'anima ha una sola vita con Dio e questa è la vera conoscenza
di Dio. Conoscere Dio significa sperimentarlo, ossia viverlo
totalmente. Seguendo quando affermato dall'Autore, esaminiamo dunque
la posizione di Eckhart.
Eckhart
non crea, attraverso i suoi scritti, una dottrina dell'anima,
nonostante il fatto che sia il maggiore maestro dell'anima in occidente
(da qui il titolo di Meister, "maestro", appunto).
Nonostante ciò, egli parla spesso dell'anima. Nel suo Sermone "Il
Signore ha teso la mano", afferma:
«Quando
predico, sono solito parlare del distacco e di come l'uomo debba essere
libero da se stesso e da tutte le cose. Poi, che l'uomo deve essere
nuovamente conformato al Bene semplice che è Dio. In terzo luogo, che
si ricordi della grande nobiltà che Dio ha posto nell'anima, in modo da
giungere in modo meraviglioso fino a Dio.»
Il
suo insegnamento ha dunque l'anima (nobilitata da Dio) come centro
essenziale, togliendo ogni altra gerarchia o sistematizzazione precedente,
affermando l'impossibilità di definire il concetto di anima, che rimane
«senza nome». In particolare, l'anima perde il suo nome quando si
allontana da tutte le creature e si congiunge a Dio, essere increato. Dio
la attira a sé in modo tale che essa viene ridotta a nulla, così come
«il sole attira in sé l'aurora». L'anima che intende conoscere Dio deve
dimenticarsi di se stessa, perdersi, ridursi in nulla, in modo che Dio la
possa attirare a sé. Questa perdita dell'anima in Dio, in realtà, non è
una perdita nel senso ordinario del termine, in quanto proprio in
Dio essa si ritrova. E si ritrova nel perdersi continuamente e nel
continuo perdere Dio stesso o meglio la concezione umana di Dio che lega
Dio in un mistero comprensibile e compreso e quindi nega Dio e la sua
assolutezza.
La
chiave della predicazione eckhartiana rimane il distacco, che si
esercita proprio su tutto e che apre ad una estrema serenità, ad una
gioia profonda, che è quella dell'uomo che vive "senza
perché". La gioia del vivere è interna alla vita stessa e non in
presunti fini fuori di essa, su cui possiamo non saper nulla. La coscienza
comune non sa nulla della gioia estatica che sta in questo fare il vuoto,
liberarsi da tutte le opinioni, accettando in letizia il presente come un
dono, ove ogni cosa diviene manifestazione della luce eterna. Il distacco
è nell'atto di negare il valore di propri contenuti. Tale negazione di se
stessi, con cui si rimuove ogni elemento accidentale, soggettivo, cancella
attese, desideri, espressioni di volontà, speranze ed ogni altra passione
dando all'uomo lo sguardo di Dio stesso. Nel perfetto distacco si ha
dunque un'apertura completa all'essere.
In
realtà, non sono le immagini creaturali in quanto tali ad impedire la
nascita di Dio nell'anima, in quanto la colpa non è dell'immagine né
delle potenze dell'anima, quanto del nostro attaccamento. Siamo noi la
causa di tutti i nostri ostacoli. Se l'uomo si libera da ciò, egli scopre
nel fondo dell'anima il suo vero io. L'unione con Dio non è una
divinizzazione dell'uomo o dell'io personale, ma la sua sostituzione con
il vero io. Questa parentela con Dio, che conferisce all'anima la sua
nobiltà, si comprende anche biblicamente, essendo l'uomo immagine di
Dio.
«L'essenza,
ovvero il fondo dell'anima, è l'immagine di Dio nell'anima. Nel suo fondo
l'anima porta la pura immagine di Dio, che è la capacità di accoglierlo.
La conformità dell'anima con Dio, in quanto capacità di accoglierlo,
significa la presenza di un "luogo" per la nascita di Dio
nell'anima» (op.cit., p. 120).
NOTA:
Per un approfondimento concettuale, si legga il testo di M. Vannini alle
pagine 103-152.
Alcuni
Contributi
I contributi qui presentati
possono essere di diverso orientamento,
proprio a testimonianza del fatto che siamo in un ambito molto
controverso. Il lettore saprà sicuramente discernere il senso dei vari
contributi.
ANSELM
Grün
La
Chiesa ha sicuramente perso competenza nel campo della cura delle anime.
Si è occupata troppo poco dell'anima del singolo e ne ha studiato
troppo poco la struttura per poterla aiutare in modo adeguato nel cammino
che porta a diventare uomini. Dovrebbe riappropriarsi della saggezza dei
padri del deserto, che fungevano allora da veri e propri terapeuti per le
persone in ricerca. Esiste una perdita di rapporti interpersonali
forti. Un tempo si poteva discutere di molte cose con l'amico o con
l'amica, o anche con un sacerdote nel colloquio pastorale o nella
confessione. Oggi tutto questo non è più così ovvio: si ha sempre meno
tempo per se stessi e per un buono scambio di idee. Ciò vale anche per la
cura delle anime: l'attività frenetica rende impossibile un dialogo
profondo.
Abbiamo
lasciato che la confessione degenerasse in un rituale vuoto.
Una vera confessione è fatta anche di dialogo e per molti oggi la
confessione sarebbe sicuramente una buona occasione per parlare dei propri
lati oscuri e delle proprie colpe e per sperimentare nell'assoluzione
l'accettazione incondizionata da parte di Dio. Perciò non dobbiamo
trovare nuove forme di confessione (per esempio il colloquio con il
confessore), ma favorire anche la formazione psicologica dei curatori
d'anime. Chi si confessa cerca infatti qualcuno che lo capisca e sappia
aiutarlo con competenza lungo il cammino spirituale. Chi offre ad altri
un'assistenza spirituale deve conoscere l'animo umano. La tradizione
spirituale ha sicuramente accumulato una grande saggezza nel trattare la
psiche umana, ma oggi le conoscenze spirituali devono essere legate alle
conoscenze psicologiche per essere all'altezza dell'uomo moderno. Chi
assiste spiritualmente le persone senza alcuna nozione di psicologia può
anche condurle verso ideali e percorsi morbosi perché non è in grado di
riconoscere in tempo tratti patologici, nevrosi, ferite interiori o idee
sbagliate.
La
psicologia non risolve i problemi religiosi, ma ci stimola ad
analizzare la nostra fede per scoprire dove si fonda su idee infantili e
dove c'invita alla fuga dalla realtà della nostra anima. Alcune
psicologie mi hanno donato la fiducia nel mio cammino spirituale. Mi hanno
mostrato che il mio cammino spirituale porta anche alla salute psichica e
dà un senso alla mia vita. La psicologia mi aiuta a prendere coscienza di
tutta la mia esistenza. Il mio rapporto con Dio può essere vivo soltanto
se sono in grado i offrirgli tutto ciò che è nascosto in me. Incontro
spesso persone devote che presentano a Dio soltanto una parte di sé,
perché non sono in grado di offrirgli le ferite presenti nel loro intimo.
Perciò non possono avere un rapporto vivo con Dio.
Di
fronte a molti interrogativi la Chiesa appare impotente, come ad esempio
di fronte al fatto che la ricerca spirituale non passi per di là, oppure
di fronte alla crescente secolarizzazione e al declino dei valori
tradizionali. Ho l'impressione che in questi campi la Chiesa sia troppo
poco in contatto con gli aneliti dell'uomo d'oggi. Secondo me, le
si presenta invece una grande occasione, perché, attingendo dalla propria
tradizione spirituale, avrebbe molto da offrire proprio alla nostra
società, che vive oggi un grande disorientamento. Non deve però cedere
alla tentazione di dare soltanto le vecchie risposte, che attirano solo le
persone psichicamente labili, ma non chi sta davvero cercando.
Le
risposte vecchie sono che gli uomini sperimentano in Gesù Cristo la
salvezza e la redenzione e che Gesù raduna gli uomini per formare una
comunità nuova. È vero, e proprio la possibilità di un modo nuovo di
convivere è molto importante in questo nostro tempo; nell'epoca
dell'individualismo dobbiamo però prendere molto sul serio il fatto che Gesù
si rivolge a ciascuno individualmente. Gesù vuole rinfrancare il
singolo, vuol fargli sentire che è amato incondizionatamente. Gesù vuole
liberare gli uomini dalla loro paura e comunicare loro una fiducia
incrollabile nella vicinanza salvifica e nell'amore di Dio. Annunciare
questo messaggio agli uomini di ogni tempo e fare in modo che possano
sperimentarlo è il compito duraturo della Chiesa, la quale non deve
inventare un nuovo messaggio, bensì trovare semplicemente una nuova
lingua per annunciare oggi l'antico messaggio della Bibbia.
Per
me sono importanti tre immagini, a proposito della Chiesa odierna. La
Chiesa dovrebbe diventare un luogo che comunica agli uomini un'esperienza
spirituale; è l'immagine della Chiesa mistica. Secondo,
dovrebbe cercare lo spazio per trovare un tipo nuovo di comunità, cioè
lo spazio per la comprensione tra gli uomini. Ciò vale tanto per la
Chiesa universale tra tutti i popoli, quanto per le Chiese locali. Nella
comunità locale, ricchi e poveri, fedeli progressisti e conservatori,
gente del posto e immigrati dovrebbero incontrarsi e costruire una vera
comunità. Oggi sono in molti a sentirsi soli e sperduti nella
massa anonima. Questi dovrebbero trovare nella Chiesa la propria casa.
Terzo, la Chiesa dovrebbe offrire la cultura esistenziale cristiana e
un avviamento a una vita sana, il che comprende ovviamente anche sane
abitudini di vita. In prima fila ci sono gli elementi che portano alla
salvezza: la preghiera e la vita spirituale in genere, ma anche una giusta
organizzazione delle giornate e rituali sani. Il Cristianesimo dovrebbe
diventare una cultura visibile, in cui l'uomo prende coscienza della
propria dignità.
WILLIGIS
JÄGER
L'immagine
della mistica in Occidente è stata notevolmente distorta. In questo
termine aleggia un'ombra di bigotteria e di esotismo, di segreto e di
santità elitaria. E questo è proprio quello che la mistica non è. Ecco
perché è importante, prima di tutto, spiegare cosa sia effettivamente la
mistica, vale a dire null'altro che la realizzazione della realtà.
Spiego. La realtà che noi consideriamo reale non è vera realtà. La vera
realtà si dischiude ai nostri occhi solo quando abbandoniamo la
consapevolezza abituale dello stato di veglia ed entriamo in una sfera di
coscienza superiore, che - rispetto alla coscienza personale dell'Io -
può essere definita come "coscienza transpersonale". In
molti rappresentati della psicologia avanzata troviamo una distinzione tra
i diversi livelli di coscienza. Lo stadio di coscienza prepersonale, o
preparazionale, è il livello del corpo e delle percezioni sensoriali,
delle emozioni, di semplici cognizioni sotto forma di immagini e di
simboli, e delle rappresentazioni mitiche, senza tuttavia una coscienza
chiara. Questo livello corrisponde alla coscienza del nostro Io. A livello
della coscienza transpersonale, l'essere umano supera la propria coscienza
dell'Io, immergendosi in una realtà che trascende l'ego. Ciò avviene
anche sotto forma di immagini e di simboli (visioni e profezie).
A
livello di coscienza cosmica avviene l'esperienza mistica vera e
propria:
l'esperienza del vuoto, della "Divinità" senza predicati. Qui
l'uomo fa esperienza del "puro essere", l'origine di tutto. È
lo stadio che precede tutto quanto può crearsi. Ecco perché non si ha a
che fare con un essere che è sostanza. Dionigi l'Areopagita l'ha espresso
in modo meraviglioso in una poesia: "La causa prima di ogni cosa non
è né essere né vita, poiché è stata lei stessa a creare l'essere e la
vita. La causa prima non è neanche concetto o ragione. Perché è stata
lei stessa a creare i concetti e la ragione".
L'esperienza
mistica è l'esperienza dell'unità di forma e vuoto, della propria
identità con la Realtà Prima. Tale livello di coscienza è la meta della
vita spirituale. Questa coscienza è l'esperienza mistica e colui al quale
accade diventa un altro. Le sue concezioni religiose si trasformano.
Compiere questo passo significa, in un certo senso, morire; perciò nella
tradizioni mistica tale esperienza viene descritta come la "morte
dell'Io".
Per
la mistica non si tratta, comunque, di eliminare l'io o di combatterlo. Si
tratta semplicemente di rimetterlo al proprio posto e di ridargli il peso
che gli spetta. Ecco perché ci si sforza di riconoscere l'io per quello
che è effettivamente: un centro organizzativo per la struttura personale
dei singoli individui. Questo centro organizzativo ha un valore
irrinunciabile per la nostra vita. È quanto ci rende umani. Questo è
ovvio per la mistica. L'esperienza mistica, però, porta a l'uomo a non
identificarsi più in prima istanza con questo Io palese, liberandolo ed
aprendolo ad una realtà nella quale l'Io non è più predominante.
Nel
cogliersi come realtà superiore, l'ego non diventa "meno ego",
ma "più ego". Ecco perché i mistici non provano un senso di
perdita quando l'Io si tira indietro. Fanno esperienza di qualcosa di
molto più prezioso, che non lascia nemmeno affiorare l'idea di una
perdita. Di conseguenza, sono quasi sempre delle personalità forti. Molti
mistici del passato avevano un Io così marcato, che hanno preferito
finire sul rogo, piuttosto che tradire la propria convinzione. Per la
mistica, nella vita non contano né la giustificazione, né l'appagamento
dell'Io, né l'autorealizzazione. Si tratta esclusivamente di smascherare
tutti i progetti dell'ego - anche o proprio soprattutto quelli religiosi -
come transitori. Nella pratica contemplativa, quello che conta è ridurre
anche la volontà, quand'anche si tratti di buona volontà. Finché
compiamo gli atti religiosi o recitiamo le professioni di fede per
ottenere un tornaconto personale, non siamo ancora avviati sul cammino
della mistica. Ci irrigidiamo sullo schema del "Do ut des",
del "non si dà nulla per nulla".
Sarebbe
troppo semplice accusare solo lo spirito dei tempi, senza accorgersi che
questo non fa che seguire una tendenza che tutte le religioni affermate
conoscono bene: la tendenza a costruire strutture che preparano la strada
alla mentalità del baratto. Ogni volta che vengono emanate delle norme
etiche e si esaltano le professioni di fede in quanto apportatrici di
redenzione, è in agguato la grande tentazione di usare tali norme e
professioni per tranquillizzare l'Io. In tal modo si è ben lontani
dall'abbandonarlo, anzi, non si fa che rafforzarlo. Aggiungerei: l'ego si
infila in una prigione autocostruita, nella quale alla fine non può che
segnare il passo.
EUGEN
DREWERMANN
Subito dopo l'ordinazione sacerdotale fui destinato ad un luogo di cura e là feci un'esperienza molto viva:
non ero in grado di dare la minima risposta a numerose domande che certe persone mi ponevano. Alcune mi parlavano delle difficoltà del loro matrimonio, altre erano sorprese dal fatto che, dopo alcuni giorni di permanenza in quel luogo, aveva cominciato ad essere tormentate da ansie oscure. Soffrivano fin nel fisico per sentimenti rimossi. Venivano degli studenti di teologia, che si ritenevano omosessuali. Tutti si aspettavano che, nella mia qualità di sacerdote e pastore d'anime, sapessi aiutarli in qualche modo a superare questi conflitti. Ma io non ero in grado di farlo.
Fu per me un doloroso conflitto. Volevo aiutare le persone, volevo comprenderle, soprattutto quelle che più chiaramente si tormentavano e più intensamente cercavano. E fui costretto a constatare: proprio per costoro sono meno preparato; al massimo posso aiutare coloro che si sono normalmente adattati, la gente comune, quelli che non hanno evidenti difficoltà, che si lasciano facilmente amministrare e governare, questi sì, ma non coloro a cui Gesù, per esempio, nel Nuovo Testamento si dedica in maniera incondizionata: gli emarginati, i sofferenti, i perduti, la centesima pecora, costoro non li posso proprio aiutare. Ciò mi fece molto riflettere e mi spinse a prendere questa decisione: devo
ampliare lo studio della teologia con conoscenze che hanno a che fare con processi, che non compaiono nella immagine cristiana del mondo. Tutto il campo dell'inconscio viene represso a favore di un'immagine dell'uomo che si appella continuamente alla buona volontà e al pensiero chiaro, ma non sa rendere conto delle angosce, degli incubi, delle immagini oniriche della notte, delle cose che compiamo inconsciamente oltre le azioni, delle forme disperate della rimozione. A poco a poco cominciai a sospettare che questa immagine dell'uomo, che ci viene comunicata durante lo studio della teologia, sia così ridotta e unilaterale da provocare più danni che benefici.
La
psicoanalisi è un modo di procedere per offrire possibilità di guarigione
a uomini che soffrono di malattie nevrotiche, portandoli a prendere coscienza di determinate cose. Secondo me, con l'aiuto della psicoanalisi, che si è sviluppata ed è divenuta in fondo atea a livello teorico, comprendiamo quanto Gesù volle - allorché guariva uomini, cacciava demoni, liberava tante fronti umane dall'angoscia, imponeva le mani a uomini che non avevano mai avuto una possibilità - meglio che non con l'aiuto dei linguaggi che ci vengono insegnati nella teologia e che sfociano di continuo in concetti dottrinali bell'e pronti, che vengono imposti dall'esterno anziché divenire realmente utili per elaborare esperienze nel campo dell'angoscia, dei sentimenti di colpa, dei problemi della prima infanzia, di legami infantili residui, di una condotta complessiva inibita.
Dio non si è sicuramente sbagliato quando ha affidato a noi uomini
una gran quantità di immagini, le quali ci dicono come egli è. Ritengo che sia molto riduttivo pensare che egli si comunicherebbe solo in una religione speciale nella religione giudeo-cristiana. Ciò non può essere, perché fintanto che esistono uomini essi sono in cammino verso Dio. E già il fatto che essi lo cercano mostra che egli ha infuso nel loro cuore il desiderio e la nostalgia di sé, e lo ha fatto mediante una ricchezza di immagini che noi chiamiamo archetipi e che ci aiutano ad orientarci.
Tale livello della realtà religiosa è insito in ogni uomo e
costituisce una lingua universale, che serve a tutte le religioni per intendersi. Specifica del cristianesimo è la concentrazione sulla problematica dell'angoscia presente nella vita dell'uomo. Questo è il campo in cui possiamo essere tranquillizzati solo ponendoci di fronte ad altre persone, e per questo abbiamo assolutamente bisogno di Gesù come persona e di Dio come persona.
MARCO
VANNINI
La
psicologia si presenta oggi come una sorta di tuttologia, dove però la
totalità è senza capo né coda, dal momento che manca l'essenziale,
ovvero la conoscenza di se stessi. Nei confronti della conoscenza di se
stessi lo psicologo certo sorride di compatimento, come di fronte a
un'idea da fanciulli di cui conosce l'origine e la natura religiosa
(conosci te stesso, e conoscerai te stesso e Dio), per cui sono da vedere
due cose fondamentali: la prima è il perché soggettivo di questa
apparente modestia e saggezza, che rifiuta come sciocco e presuntuoso
l'obiettivo della conoscenza di se stessi; la seconda è il motivo
storico, oggettivo, per cui si è giunti a tale situazione. Ovviamente i
due motivi si intrecciano dialetticamente.
Quanto
al primo punto, la rinuncia alla conoscenza di se stessi dipende dal
terrore di scendere al di sotto delle potenze, nel fondo dell'anima, ove
è il nulla. Non occorre scomodare qui la mistica per definizione: basta
prendere in considerazione un autore che non viene considerato mistico,
ovvero Nietzsche. Fu infatti la sua penetrante critica a mostrare la
debolezza della psicologia - del suo tempo, ma, in anticipo, anche del
nostro. Non gli fu difficile mostrare che, come non esistono i dati, i
fatti, se non nella misura in cui sono
scelti da noi, ovvero già come frutto di una selezione, di una
interpretazione, così l'interpretazione stessa, la filosofia, è frutto
di qualcosa di cui non rendiamo ragione per disonestà, ovvero
perché vittima noi stessi di oscuri, torbidi, inconfessabili legami e
moventi i quali, peraltro, si riconducono a uno solo: l'affermatività
dell'io, che è quella che Nietzsche chiama "volontà di
potenza". Il
filosofo tedesco ha ben ragione nel dichiarare che la psicologia, deve
essere una morfologia della volontà di potenza, altrimenti non vale
nulla.
Così
ci troviamo oggi di fronte alla terribile afflictio animarum che
deriva dalla perdita di Dio e dell'anima, ridotta a povera psiche.
Se si arresta all'alterità di Dio, senza riconoscersi come spirito, la
religione non ha infatti più logos, non ha più metafisica, e non
meraviglia perciò che il sentimentalismo della "fede" di cui
essa consta conduca direttamente alla psicologia, ove non solo non c'è
più scienza dell'anima, ma neppure cura animarum. La scomparsa del
"fondo" dell'anima e la sua riduzione alle "potenze"
ha portato di fatto alla negazione dell'essenza umana, risolta
nell'insieme dei rapporti sociali in cui l'uomo è inserito storicamente,
con la scomparsa del concetto stesso di verità e la sua riduzione a
quello di operatività, ovvero, in ultima analisi, appunto di potenza, di
forza; ma senza verità, senza concetto, non v'è conoscenza e neppure
possibilità di cura.
La
scienza dell'anima fa infatti tutt'uno con la cura dell'anima, in quanto salus
è il risultato della conoscenza di noi stessi, ovvero della conoscenza di
Dio. Salus, salvezza e salute insieme, è una cosa soltanto: riconoscersi
come spirito nello Spirito. Questa è anzi, potremmo dire
paradossalmente, la vera scienza della natura umana, se è vero che la
natura è essenzialmente ed anche etimologicamente, spirito e
l'inesperienza dello spirito è l'ignoranza della natura, con la
conseguente incapacità di curarla. Aver separato salus, salvezza,
da salute, significa di fatto aver perduto non solo la conoscenza di noi
stessi, ma anche la capacità di aver cura dell'anima. Non meraviglia
perciò che, perduta l'essenza, la psicologia si sia da un lato
frammentata in mille pezzi, inseguendo le mille possibilità di rapporti
in cui l'uomo è inserito, e, dall'altro e di conseguenza, pensi la
salute dell'anima come equilibrio di tali rapporti: una concezione
tutta interna al sociale, alla situazione, da cui dipende e con cui
naufraga.
ALDO
STELLA
La contrapposizione di asserti
(ovverosia la contrapposizione di soggetti che si fanno portatori di
punti di vista antitetici) configura una dinamica che può venire
definita polemica, stante il fatto che in essa si fa valere la
volontà (che potrei definire di «onnipotenza») che un punto di
vista si affermi sopraffacendo l'altro.
Il dialogo, invece, si struttura come confronto che
intende questionare proprio la pregiudiziale dei punti di vista, ché i
dialoganti sono orientati non all'affermazione delle proprie opinioni,
bensì al convenire su una verità che non può non emergere oltre
i punti di vista (= gli asserti), come loro deassolutizzazione in atto,
ossia come mediazione intrinseca di quell'immediatezza che sembra
costituire l'asserto nel suo imporsi formale.
Il polemos non ha una ratio: esso si
costituisce seguendo una logica meccanica, quella incentrata sulla
affermazione dell'ego. Ratio, di contro, è espressione che va
riservata al dialogo. Il dialogo ha una ratio effettiva, ché
esso è volto al convergere e al fondersi in unità (ratio è
espressione latina che traduce l'espressione greca logos) di
elementi apparentemente e inizialmente eterogenei.
Fine del dialogo è, dunque, il cum-venire,
evocato da quel vero, non immediatamente presente, ma inteso e ricercato
da ciascuno dei dialoganti. In virtù della consapevolezza che il vero
non può non essere e che solo il vero è vero fine del dialogo, ciascun
dialogante trasforma la propria identità: se tale identità
tende inizialmente ad esprimersi come aggressiva volontà di
autoaffermazione, in virtù della coscienza essa si apre alla
differenza, perché è in grado di riconoscere in essa la condizione
imprescindibile del proprio porsi come identità. Identità e differenza
non possono non subordinarsi al vero che le fonda, sì che, se l'apertura
è di fatto apertura verso l'altro che si sta dinnanzi, in
effetti non può non essere apertura alla verità, che è condizione
verticale di ogni apertura orizzontale.
Se si tiene presente il fatto, incontestabile, che ogni
disturbo psichico e non solo psichico è, fondamentalmente, una
assolutizzazione (o una sua conseguenza), ossia esso vale come
l'assunzione di una idea (o di un sistema di idee), di un problema, di
un modo di essere, di un ricordo come se questi potessero venire
astratti dalla rete di rinvii, che costituisce lo "psichico" nella sua
struttura oltre che nella sua funzione, allora il dialogo non
può non risultare l'unica vera forma di terapia, perché solo in
virtù del dialogo l'io, mettendo in gioco se stesso e le proprie pretese
(= gli asserti nei quali di volta in volta si identifica), può
recuperare l'innegabile consapevolezza del valore trascendentale
dell'assoluto.
Riconoscere che solo l'assoluto è vero consente, infatti,
di ricondurre entro limiti determinati ogni enfatizzazione ed ogni
ipervalorizzazione di ciò che è e rimane solo relativo, incluso lo
stesso io. L'io con i suoi affetti, le sue emozioni, le sue opinioni, i
suoi bisogni, le sue volizioni (di venire riconosciuto, di affermarsi,
di conservarsi accanitamente in vita, etc.) non è fondamento a se stesso
e, pertanto, non può assolutizzarsi. L'io deve saper riconoscere la
propria autentica struttura, che è tensione verso il
fondamento, sì che la sua intenzione di verità non può non
relativizzare ogni pretesa di assolutezza.
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